Il 19 aprile scorso sono andato a Roma per seguire il convegno della Associazione Nazionale Partigiani Cristiani
che si teneva all’Istituto Luigi Sturzo.
Il tema era CATTOLICI E RESISTENZA A ROMA. Ho
ascoltato le testimonianze di alcuni personaggi che hanno avuto parte attiva
nella lotta antifascista e antinazista romana.
Dopo l’introduzione del presidente onorario Gian
Luigi Rondi, hanno parlato il senatore
Adriano Ossicini, il professor Francesco Malgari, quindi hanno portato le loro testimonianze, quasi
Atti dei martiri, il cardinale Andrea
Cordero Lanza di Montezemolo, la senatrice Maria Lisa Cinciari Rodano, infine
Antonio Parisella e Mario Barone.
Sono tutte
persone non giovani, alcuni anche molto lontani dalla gioventù anagrafica.
Non riferirò le loro parole ma le riflessioni che
l’ascolto delle gesta di questi anziani mi hanno suggerito in contrapposizione
al becero e trito luogo comune razzista
per il quale tutti i vecchi devono sparire, essere “rottamati” o gettati
al macero, per fare largo ai giovani comunque essi siano.
Bisogna guardare sempre alle persone, una per una,
indipendentemente dalla razza certo, ma anche dall’età e dal sesso, e scegliere
quelle capaci, morali, colte, coraggiose.
Chi si vanta di mandare in parlamento giovani e
donne, senza specificarne il valore, è un imbecille, o un truffatore, degno in
ogni caso di irrisione, dal sorriso ironico alle più fragorose pernacchie.
In questi
partigiani cristiani intanto ho ravvisato il grado eroico dell’esistenza umana,
un grado contraddistinto dal non cedere mai, dal fatto di non rinunciare agli
ideali nei quali si crede, di perseguirli a qualsiasi costo.
Alcuni tra i relatori hanno rischiato la vita per
mantenere questa fedeltà alle proprie convinzioni. Mi sono venuti in mente, per
contrasto, con rabbia, la spregevolezza dei voltagabbana, dei coturni[1], dei camaleonti che vediamo insediati nelle
poltrone grazie al servilismo dimostrato nei confronti di ogni padrone
succeduto al potere
Poi ho pensato con pena ai giovani infingardi che
sciupano il tempo nell’inerzia, uccidono la vita con le droghe o la avviliscono
con querimonie sterili.
Dopo questo cappello sull’attualità voglio fare una
breve rassegna letteraria riferendo alcuni
biasimi e diversi elogi della vecchiaia.
Biasimi
della vecchiaia.
Partiamo
da Mimnermo, un poeta del VI secolo a. C. che considera la vita umana indegna di essere
protratta quando la giovinezza è passata, e i giorni non hanno più l'unica
giustificazione che li rendeva desiderabili: quella erotica, o amorosa che dire
si voglia.
"Quale
vita, quale piacere, senza l'aurea Afrodite?
Vorrei
essere morto, una volta che non mi importi più di questi beni,
l'amore
furtivo e i dolci doni e il letto:
che
sono i soli fiori fugaci di giovinezza
per
gli uomini e per le donne; poi quando sia giunta penosa
la
vecchiaia che rende l'uomo turpe e insieme cattivo,
sempre
affanni tetri lo consumano nell'animo,
e
non prova piacere neppure alla vista dei raggi del sole,
ma
è odioso ai ragazzi, spregevole per le donne;
così
tremenda rese la vecchiaia un dio"
(fr. 1D).
Vediamo
a un altro frammento di Mimnermo: il 2 D.
Le
traduzioni dal greco (e dal latino) sono tutte mie.
:"Come
le foglie[2] che genera la fiorita stagione
di
primavera, quando crescono in fretta ai raggi del sole, noi, simili a quelle,
per il tempo di un cubito, godiamo dei fiori
di
giovinezza, senza conoscere dagli dèi né il male
né
il bene. Destini neri ci stanno accanto
uno
che ha il termine della vecchiaia tremenda,
l'altro
di morte: un attimo dura il frutto
di
giovinezza, per quanto sulla terra si diffonde un raggio di sole.
Ma
quando questo termine di tempo sia trapassato,
subito
essere morto è meglio della vita:
infatti
molti mali sopraggiungono nell'animo: talora la casa va in rovina e ci sono le
vicende dolorose della povertà:
a un altro poi mancano figli, di cui
soprattutto
sentendo
il desiderio va sotto terra nell'Ade;
un
altro ha una malattia che gli consuma il cuore: non c'è nessuno
degli
uomini, cui Zeus non dia molti mali".
Ancora un biasimo della vecchiaia (fr. 5 D). Sembra che facesse parte della Nannò :
“A Titono , Zeus diede da sopportare, male immortale,
la vecchiaia, che è anche più raccapricciante della morte
tremenda.
" Ma di breve durata è come un sogno
la giovinezza preziosa; e la tremenda e deforme
vecchiaia subito sul capo è sospesa,
odiosa insieme e spregiata, che rende l'uomo
irriconoscibile,
e danneggia gli occhi e la mente versandosi attorno."
La conclusione di Mimnermo è
che è auspicabile morire a sessant’anni:
“Vorrei che senza malattie e preoccupazioni
tremende
il destino di morte mi
cogliesse a sessant’anni” (fr. 11 Gentili-Prato).
Euripide nel secondo stasimo dell’ Eracle
fa dire ai vecchi compagni
d'armi di Anfitrione che la vecchiaia grava sul loro capo dei come un carico
più pesante delle rupi dell'Etna ("to; de; gh'ra" a[cqo"-baruvteron Ai[tna"
skopevlwn-ejpi; krati; kei'tai" (vv. 638-640).
Callimaco, poeta alessandrino che ri-usa i classici
apportando variazioni, scrive che vorrebbe spogliarsi delle vecchiaia la quale
gli pesa addosso quanto l’isola tricuspide sul maledetto Encelado (Aitia fr. 1, vv. 35-36).
Per i vecchi di Euripide, la giovinezza è preferibile alla ricchezza, ed è bellissima
tanto nella prosperità quanto nella
povertà: “kallivsta
me;n ejn o[lbw/, -kallivsta d j ejn peniva/”, Euripide, Eracle, vv. 647-648.
E allora, Se gli dèi
avessero intelligenza e sapienza (xuvnesi"-kai; sofiva) riguardo agli uomini donerebbero
una doppia giovinezza (divdumon
h{ban) come segno
evidente di virtù a quanti la posseggono, ed essi, una volta morti, di nuovo
nella luce del sole (eij"
aujga" pavlin aJlivou), percorrerebbero una seconda corsa, mentre la gente ignobile avrebbe
una sola possibilità di vita (Euripide, Eracle,
vv.661-669).
Ma la vecchiaia è diversa se è il seguito di una gioventù vissuta bene o passata male,
senza costrutto
Marziale afferma che l’uomo buono che è senza senza rimorsi
e gode del frutto della sua vita, accresce e raddoppia lo spazio della sua
esistenza: “ampliat aetatis spatium sibi
vir bonus: hoc est/vivere bis, vita posse priore frui” (X 23, 7-8).
Nel Miles gloriosus di Plauto si trova un locus similis : "itidem divos
dispertisse vitam humanam aequom fuit:/ qui lepide ingeniatus esset, vitam ei
longiquam darent,/ qui inprobi essent et scelesti, is adimerent animam cito"
(vv. 730-732), parimenti sarebbe stato giusto che gli dèi distribuissero la
vita umana: a colui che avesse un carattere amabile, dovrebbero dare una vita
lunga, a quelli che fossero cattivi e scellerati, portargliela via presto.
Ma sentiamo un altro biasimo dell’età avanzata.
Il terzo stasimo dell’ Edipo
a Colono di Sofocle annuncia la sapienza silenica e maledice la
vecchiaia:"Non essere nati (mh; fu'nai) supera/ tutte le condizioni, poi, una volta apparsi,/
tornare al più presto là/ donde si venne,/
è certo il secondo bene./ Poiché quando uno ha oltrepassato la gioventù/
che porta follie leggere (kouvfa" ajfrosuvna" fevron), /quale travagliosa disfatta resta fuori?/ Quale
degli affanni non c'è?/Invidia, discordie, contesa battaglie,/ e uccisioni; e
sopraggiunge estrema/ l'esecrata vecchiaia impotente (ajkrate;") ,/ asociale (ajprosovmilon), priva di amici (a[filon) /dove convivono tutti i mali dei
mali"(vv.1224-1238). non essere
nati è la condizione che supera tutte e una volta nati
Di questa maledizione della vecchiaia,
possiamo trovare una eco in Menandro: un suo frammento arcinoto fa:"
o{n oiJ qeoi;
filou'sin ajpoqnhvskei nevo"”, colui che gli
dei amano, muore giovane".
Virgilio
mette la "tristisque senectus "(Eneide
, VI, 275) in faucibus Orci (v.273), sulla bocca dell'Orco in compagnia di
pianti, rimorsi vendicatori, pallidi morbi, e
diverse altre presenze inamene.
Leopardi è un dichiarato nemico della
vecchiaia: in Le Ricordanze del 1829 scrive:"E qual mortale
ignaro/di sventura esser può, se a lui già scorsa/quella vaga stagion, se il
suo buon tempo,/se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?"(vv.132-135).
Quindi premette il verso di Menandro,
come epigrafe, ad Amore e morte del 1832.
In
Il tramonto della luna , del 1836, il
poeta di Recanati poco prima di morire compone l'anatema definitivo dell'ultima
età: "estremo/di tutti i mali, ritrovàr gli eterni/la vecchiezza, ove
fosse/incolume il desio, la speme estinta,/secche le fonti del piacer, le
pene/maggiori sempre, e non più dato il bene"(vv.45-50).
Elogi della vecchiaia
Ebbene, a così forti biasimi vogliamo
contrapporre qualche elogio della senilità cui tutti siamo avviati e alla quale
arriveremo se non moriremo prima, forse schivando qualche incomodo, ma
certamente perdendo parecchie occasioni, se non altre di "imparare molte
cose", come ci ha insegnato Solone:
“ghravskw d jaijei; polla; didaskovmeno"” (fr. 28 Gentili-Prato). Quindi il legislatore
ateniese consiglia a Mimnermo di cambiare il verso con il quale augura a se
stesso di morire a sessant’anni e di scrivere invece così: “ojgdwkontaevth moi'ra kivcoi
qanavtou” (fr. 26 Gentili-Prato), il
destino di morte mi colga ottantenne. Io andrei molto più in là: quella mi
sembra solo l’età per cominciare a pensare alla pensione.
Un
elogio della vecchiaia del resto si trova già in alcune parole di Omero: nel
III dell'Iliade, Menelao, per fare un
patto con i Troiani, esige la presenza di Priamo poiché non si fida dei figli
del re di Troia: sempre svolazzano gli animi dei giovani, afferma, ma quando un
vecchio (oJ gevrwn) è con loro, vede insieme il prima e il dopo (a}ma provssw kai;
ojpivssw-leuvssei), come sia meglio per
gli uni e per gli altri (vv. 108-110).
Cicerone nel De senectute (del 44 a. C.)
compone l'elogio più articolato della vecchiaia, facendo dire a Catone
ottantatreenne:"in moribus est
culpa, non in aetate "(3), il difetto sta nei costumi, non nell'età; e
la pena deriva dai sensi di colpa dovuti a una vita mal vissuta:"quia coscientia bene actae vitae multorumque
benefactorum recordatio iucundissima est "(3), poiché la coscienza di
una vita impiegata bene e il ricordo di molte buone azioni fatte sono fonti di
dolcissima gioia.
Vengono
portati esempi di vecchiaie vigorose e produttive: Platone che morì a
ottant'anni "scribens ",
scrivendo ancora, Isocrate che a novantatré anni compose il Panatenaico, poi visse altri cinque
anni, e il suo maestro Gorgia che compì centosette anni, studiando e lavorando,
tanto che disse:"Nihil habeo quod
accusem senectutem "(5) non ho niente da rimproverare alla vecchiaia.
Insomma, secondo Cicerone, c'è una montatura negativa nei confronti dell'età
avanzata.
Montatura
che ai giorni nostri è di moda.
Quello
sfacciato di Renzi dovrebbe leggere i classici e riflettere prima di sparare
parole a ripetizione.
Quindi torniamo a Cicerone. Gli indebolimenti,
almeno quelli mentali, sono dovuti alla mancanza di esercizio."At memoria minuitur ", ma la
memoria diminuisce; ebbene a questa obiezione-luogo comune degli imbecilli,
l’autore risponde:"credo, nisi eam
exerceas, aut etiam si sis natura tardior ", lo credo, se non la si
esercita, o anche se sei piuttosto stupido di natura, e fa l'esempio di Sofocle
che"ad summam senectutem tragoedias
fecit ", compose tragedie fino alla vecchiaia estrema, e anzi si
difese dall'accusa di demenza senile contestatagli da un figlio che voleva
venisse interdetto, leggendo l'Edipo a
Colono scritta da poco, ai giudici che naturalmente lo assolsero a pieni
voti (7). Poco più avanti (8) il De senectute ricorda anche Solone "qui se cotidie aliquid addiscentem dicit
senem fieri ", che dice di diventare vecchio imparando ogni giorno
qualche cosa; non solo, ma a Pisistrato che gli domandò in che cosa confidasse
per opporsi a lui con tanta audacia, rispose "senectute ", nella vecchiaia (20).
I
piaceri che scemano poi sono quelli volgari del corpo: “epularum aut ludorum aut scortorum voluptates” , dei banchetti o
dei giochi o delle prostitute (14) certo non paragonabili a quelli dello
spirito che invece crescono. Quanto alle solite accuse di essere bisbetici (morosi ), ansiosi (anxii), iracundi , difficiles, avari, questi sono difetti
dei caratteri, non della vecchiaia:"sed
haec morum vitia sunt, non senectutis "(18).
Nel
campo della commedia, basta guardare i due fratelli degli Adelphoe di Terenzio:"quanta in altero diritas, in altero comitas!
", quanta durezza nell'uno (Demea), dolcezza nell'altro (Micione)!
Anche la vicinanza della morte non è terrificante, infatti"omnia quae secundum naturam fiunt sunt
habenda in bonis", tutto quello che avviene secondo natura deve essere
considerato tra i beni (19).
E noi uomini:"in hoc sumus sapientes, quod naturam optimam ducem tamquam deum sequimur
eique paremus ", in questo siamo saggi che seguiamo la natura ottima
guida come un dio, e le obbediamo, aveva già detto Catone nel prologo (2).
J.
Hilman è d’accordo con Cicerone: “I fatti dimostrano che, invecchiando, io
rivelo più carattere, non più morte”[3].
Purtroppo
non posso soffermarmi oltre sull'argomento, che mi sta a cuore, anche per
ragioni anagrafiche oramai, però voglio menzionare un moderno: Italo Svevo
nella cui opera, il protagonista di Senilità
, Emilio Brentani, è un trentacinquenne dall'anima stanca, mentre la vecchiaia
anagrafica di altri personaggi è, come nota Magris ne L'anello di Clarisse (p.198):" libertà dall'obbligo di
attestare a se stessi e agli altri il proprio valore, la propria capacità e
vitalità".
Vediamo un breve brano di Carlotta a Weimar di T. Mann (del 1939). Il romanzo tratta dell’ex ragazza
ispiratrice del Werther, Charlotte Buff, la quale oramai era “una matrona non
lontana certo dalla sessantina, piuttosto grassoccia, con un abito bianco ed
uno scialle nero, mezzi guanti di filo ed una capote alta, che lasciava intravedere capelli ricci, di quel grigio
cenere che succede al biondo” (p. 6). “Era una cosiddetta vecchia signora, si
definiva ella stessa così, e viaggiava con una figlia di ventinove anni, che
era per lo più la nonna delle creature donate al marito. Ma ecco che lì distesa
sentiva il cuore battere come una ragazzina pronta ad una grossa birichinata”
(p. 31). “E’ la fede della nostra giovinezza quella che in fondo non perdiamo
mai. Constatare che tale fiducia ha resistito, che siamo restati gli stessi,
che l’invecchiare è fenomeno fisico esteriore incapace di influire sulla
perennità del nostro intimo io, di questo pazzo io che trasciniamo attraverso i
decenni, è cosa che non dispiace mai quando siamo in età avanzata- in ciò sta
anzi il pudico e sereno segreto della
nostra dignità senile” (p. 30).
Concludo
con alcune riflessioni di U. Galimberti: “Nel suo disperato tentativo di
opporsi alla legge di natura, che vuole l’inesorabile declino degli individui,
chi non accetta la vecchiaia è costretto a stare continuamente all’erta per
cogliere di giorno in giorno il minimo segno di declino. Ipocondria,
ossessività, ansia e depressione diventano le malefiche compagne di viaggio dei
suoi giorni, mentre suoi feticci diventano la bilancia, la dieta, la palestra,
la profumeria, lo specchio.
Eppure
nel Levitico (19, 32) leggiamo:
“Onora la faccia del vecchio”…La faccia del vecchio è un bene per il gruppo, e
perciò Hilmann può scrivere che, per il bene dell’umanità, “bisognerebbe
proibire la chirurgia cosmetica e considerare il lifting un crimine contro
l’umanità”, perché, oltre a privare il gruppo della faccia del vecchio, finisce
per dar corda a quel mito della giovinezza che visualizza la vecchiaia come
anticamera della morte. A sostegno del mito della giovinezza ci sono due idee
malate che regolano la cultura occidentale, rendendo l’età avanzata più
spaventosa di quello che è: il primato del fattore biologico e del fattore economico
che, gettando sullo sfondo tutti gli altri valori, connettono la vecchiaia
all’inutilità, e l’inutilità all’attesa della morte. Eppure non è da poco il
danno che si produce quando le facce che invecchiano hanno scarsa visibilità…La
faccia del vecchio è un atto di verità, mentre la maschera dietro cui si
nasconde un volto trattato con la chirurgia è una falsificazione che lascia
trasparire l’in
sicurezza
di chi non ha il coraggio di esporsi con la propria faccia. Se smascheriamo il
mito della giovinezza e curiamo le idee malate che la nostra cultura ha diffuso
sulla vecchiaia potremmo scorgere in essa due virtù: quella del “carattere” e
quella dell’ “amore”. La prima ce la segnala Hilmann ne La forza del carattere (Adelphi): “Invecchiando io rivelo il mio
carattere, non la mia morte”, dove per carattere devo pensare a ciò che ha
plasmato la mia faccia, che si chiama “faccia” perché la “faccio” proprio io,
con le abitudini contratte nella vita, le amicizie che ho frequentato, le
peculiarità che mi sono dato, le ambizioni che ho inseguito, gli amori che ho
incontrato e che ho sognato, i figli che ho generato”[4].
Giovanni
Ghiselli g.ghiselli@tin.it
[1] Stivale degli attori tragici: andava bene per
entrambi i piedi. Così venne soprannominato Teramene, un politico ateniese che
fece tutte le parti.
[2] Cfr. Iliade
VI, 146-149. Glauco chiede a Diomede:
"Tidide magnanimo, perché mi domandi la stirpe?
quale è la stirpe delle foglie, tale è anche quella degli uomini.
Le foglie alcune ne sparge il vento a terra, altre la selva
fiorente genera quando arriva il tempo di primavera;
così le stirpi degli uomini: una nasce, un'altra finisce".
[3] La forza del carattere, p. 27.
[4] U. Galimberti,
la Repubblica 29 febbraio 2008, p. 53 : Quando essere vecchi significa
saggezza.
Sei bravo!
RispondiEliminaalessandro