Ulisse in altri
autori classici (Cicerone, Apuleio,
Seneca) e in alcuni moderni: Tennyson, Boitani, Cesare Pavese, Costantinos Kavafis, Guido Gozzano, Dante, Pascoli, T. Mann,
Bertold Brecht, Kafka e il silenzio delle Sirene, Italo Calvino, l’Ulisse di James Joyce.
Cicerone nel De
finibus bonorum et malorum [1]
premette che è innato in noi l’amore della conoscenza e del sapere, ed è tanto
grande che la natura umana vi è trascinata senza l’attrattiva di alcun
profitto.
Questo si vede dall’episodio
odissiaco delle Sirene le quali attiravano i naviganti, non per la dolcezza
della voce o la novità dei canti , “sed
quia multa se scire profitebantur” (V, 18), ma poiché dichiaravano di
sapere molte cose.
L’Arpinate
traduce i vv. 184-191 del XII canto del poema di Omero nei quali
le Sirene attirano Odisseo dicendo che chi si ferma da loro riparte pieno di gioia e
conoscendo più cose ("kai; pleivona eijdwv"", XII, 188).
Cicerone conclude con queste
parole: “Vidit Homerus probari fabulam
non posse, si cantiunculis tantus irretitus vir teneretur, scientiam
pollicentur, quam non erat mirum sapientiae cupǐdo patriā esse cariorem. Atque
omnia quidem scire, cuiuscumque modi sint, cupere curiosorum”, Omero si
accorse che il mito non poteva essere approvato se un uomo di quella levatura
fosse stato trattenuto irretito da canzoncine; il sapere promettono, e non era
strano che a uno bramoso di sapienza fosse più caro della patria.
E certamente la brama di
sapere tutto, di qualunque genere sia, è proprio delle persone curiose.
La curiosità caratterizza il Lucio di Apuleio che consiera Ulisse una prefigurazione di se
stesso, quando, in mezzo ai travagli, fa questa riflessione:" Nec ullum uspiam cruciabilis vitae solacium
aderat, nisi quod ingenita mihi curiositate recreabar... Nec immerito priscae
poeticae divinus auctor apud Graios summae prudentiae virum monstrare cupiens
multarum civitatium obitu et variorum populorum cognitu summas adeptum virtutes
cecinit " ( L’asino d’oro,
IX, 13), né vi era da qualche parte alcun conforto di quella vita tribolata se
non il fatto che mi sollevavo con la mia innata curiosità...e non a torto quel
divino creatore dell'antica poesia dei Greci volendo raffigurare un uomo di
somma saggezza, narrò che egli raggiunse i sommi valori visitando molte città e
conoscendo popoli diversi.
La
curiosità è un antidoto alla noia, se questa è un frutto della triste
incuriosità: “L’ennui, fruit de la morne incuriosité”[2].
Seneca
antepone Catone Uticense a Ulisse e ad altri personaggi mitici e letterari: “pro ipso quidem Catone securum te esse
iussi: nullum enim sapientem nec iniuriam accipere nec contumeliam posse,
Catonem certius exemplar sapientis viri nobis deos immortales dedisse quam
Ulixen et Herculem prioribus saeculis. Hos enim Stoici nostri sapientes
pronuntiaverunt, invictos laboribus et contemptores voluptatis et victores
omnium terrorum” (De costantia
sapientis, 2, 2), per Catone in persona ti[3]
invitai a stare sicuro: in effetti nessun saggio può ricevere ingiuria né
offesa, e con Catone gli dèi immortali ci hanno dato un esempio di uomo saggio
più reale di Ulisse ed Ercole per i secoli precedenti. Questi infatti i nostri
Stoici hanno proclamato sapienti, invitti dalle fatiche e spregiatori del
piacere e vincitori di tutti i terrori.
Il paradigma positivo
costituito da Ulisse dunque viene relativizzato dal filosofo stoico.
Qualche cosa della
violenza che Ulisse incontra e si aspetta,
è dentro di lui, come afferma l’ Ulisse di Alfred Tennyson[4]
in un monologo di settanta versi: ““I am
a part of all that I have met ” (Ulysses
v. 18), io sono una parte di tutto quello che ho incontrato.
Leggiamone parte (vv. 1-39), in inglese, poi nella
traduzione di Giovanni Pascoli:
“It little profits that an idle king,
By this still hearth, among these barren crags,
Match’d with an aged wife, I mete and dole
Unequal laws unto a savage race,
That hoard, and sleep, and feed, and Know nt me.
I cannot rest from travel: I will drink
Life to the lees: all times I have enjoy’d
Greatly, have suffer’d geatly, both with those
That lov’d me, and alone; on shore, and when
Thro’ scudding drifts the rainy
Hyades
Vex’d the dim sea. I am become a name:
For always roaming with a hungry heart
Much have I seen and Known: cities of men
And manners, climates, councils, governments,
Myself non least, but honor’d of them all;
And drunk delight of battle with my peers,
Far on the ringing plains of windy Troy.
I am a part
of all that I have met;
Yet all experience is an arch wheretro’
Gleams that untravell’d world, whose margin fades
For ever and for ever when I move.
How dull it is to pause, to make an end,
To rust unburnish’d, not to shine in use!
As tho’ to breathe were life. Life pil’d on life
Were all too little, and of one to me
Little remains: but every hour is sav’d
From the eternal silence, something more,
A bringer of new things; and vile it were
For some three suns to store and hoard myself,
And this gray spirit yearning in desire
To follow knowledge like a sinking star,
Beyond the utmost bound of human thought.
This is my son, mine own Telemachus,
To whom I leave the sceptre and the isle
Well-lov’d of me, discerning to fulfil
This labor, by slow prudence to make mild
A rugged people, and thro’ soft degrees
Subdue them to the useful and the good”.
“Re neghittoso alla vampa del mio focolare tranquillo
star, con antica consorte, tra sterili rocce, non giova:
e misurare e pesare le leggi ineguali a selvaggia
gente che ammucchia, che dorme, che mangia e che non mi
conosce./
Starmi non posso dall’errar mio: vuo’ bere la vita
Sino alla feccia. Per tutto il mio tempo ho molto gioito,
molto sofferto, e con quelli che in cuor mi amarono, e
solo;
tanto sull’arida terra, che quando tra rapidi nembi
l’Iadi piovorne travagliano il mare velato di brume.
Nome acquistai, ché sempre errando con avido cuore
Molte città vidi io, molti uomini, e seppi la mente
Loro, e la mia non il meno; ond’ero nel cuore di tutti:
e di lontane battaglie coi pari io bevvi la gioia,
là nel pianoro sonoro di Troia battuta dal vento.
Ciò che incontrai
nella mia strada, ora ne sono una parte.
Pur, ciò ch’io vidi, è l’arcata che s’apre sul nuovo:
sempre ne fuggono i margini via, man mano che inoltro.
Stupida cosa il fermarsi, il conoscersi un fine, il restare
Sotto la ruggine opaci né splendere più nell’attrito.
Come se il vivere sia quest’alito! Vita su vita
Poco sarebbe, ed a me d’una, ora, un attimo resta.
Pure, è un attimo tolto all’eterno silenzio, ed ancora
Porta con sé nuove opere, e indegno sarebbe, per qualche
Due o tre anni, riporre me stesso con l’anima esperta,
ch’arde e desia di seguir conoscenza: la stella che cade,
oltre il confine del cielo, di là dell’umano pensiero”.
Vediamo ora gli ultimi versi con il topos eroico del “non
cedere”[5]
“Tho’ much is taken, much abides; and tho’
We are not now that strenght which in old days
Mov’d earth and heaven, that which we are, we are:
One equal temper of heroic hearts,
Made weak by time and fate, but strong in will
To strive, to seek, to find, and not
to yeld.”
“Molto perdemmo, ma molto ci resta: non siamo la forza
più che ne’ giorni lontani moveva la terra ed il cielo:
noi, s’è quello che s’è: una tempra d’eroici cuori,
sempre la stessa: affraliti dal tempo e dal fato, ma duri
sempre in lottare e cercare e trovare né cedere mai”.
Leggiamo ora il commento di Piero Boitani
“L’Ulisse di Alfred Tennyson-il poeta simbolo dell’età
vittoriana-è l’Ulisse della più romantica e della più imperiale delle nazioni,
l’Inghilterra. La composizione, Ulysses,
risale al 1833, la pubblicazione al 1842: lo stesso periodo in cui Wordsworth
rivede il Preludio. Nessun
osservatorio migliore, dunque, per fare il punto sulla poesia della conoscenza
in un altro momento cruciale della storia: l’epoca della fede nel progresso
scientifico, del trionfo della tecnica e dell’industria, dell’espansione
imperiale, dell’affermazione del capitalismo. Ulysses è un monologo drammatico le cui fonti fondamentali di
ispirazione sono, per esplicita ammissione dell’autore, la profezia di Tiresia
nel Libro XI dell’Odissea e il canto
XXVI dell’Inferno: le due ombre, le
due ‘figure’ di cui abbiamo seguito le reincarnazioni in questo libro.
Ritornato in patria da anni, ormai vecchio, l’Ulisse di Tennyson desidera
salpare di nuovo per un ultimo grande viaggio verso occidente. Il monologo lo
coglie sospeso tra l’abdicazione e la partenza. Sovrano apparentemente stanco
di regnare, come potrebbe esserlo un re Lear di monarchie più moderne, egli si
sente inattivo e inutile. L’isola che governa è sterile; la razza che vi abita
selvaggia, preoccupata soltanto di ammassare, dormire e mangiare; le leggi che
egli stesso emana non sono uguali per tutti. E’ con questa spietata analisi del
materialismo piccolo-borghese e dell’arbitrarietà del potere che Ulisse inizia
il suo discorso. Sono presenti però in lui impulsi contrastanti: curiosamente,
egli proclama proprio nel primo verso che non vi è utilità alcuna, alcun
“profitto” nel reggere le sorti di un tale stato; aggiunge subito dopo che il
suo focolare è immobile e spento; rivela di avvertire sempre più opprimente il
peso dell’unione con Penelope, moglie ormai vecchia; risente in particolare il
fatto che il proprio popolo non lo “conosca”. Insomma, è un Ulisse che parla lo
stesso linguaggio economico dei suoi sudditi, ma che dietro ad esso cela un disgusto
insopprimibile per la tediosa normalità familiare e amministrativa, e
soprattutto dimostra un grande amor di sé, un egocentrismo quasi sconfinato.
Sparita è la “pieta del vecchio padre”, inaridito il “debito amore lo qual
dovea Penelope far lieta”, trasformata anche la “dolcezza del figlio”. L’Ulisse
di Tennyson ama Telemaco, a metà del suo monologo lo unge proprio successore
con le parole del padre (“This is my son, mine own Telemachus…Well-loved of
me”-Questo è il figlio mio prediletto, in cui mi sono compiaciuto), ne apprezza
le qualità di discernimento e lenta prudenza, lo proclama “del tutto
irreprensibile”…Ulisse vede in Telemaco il modello di saggezza politica, di
equità, di amministrazione conservatrice, ragionevole e illuminata- il ‘pio
Enea’ della tradizione romana, il progressista moderato e attento dell’impero
britannico. Di contro a questo erede (il quale non ha comunque modo di
replicare), il vecchio staglia se stesso: un eroe del tempo antico, un
indomabile ricercatore della conoscenza, un Ulisse a tratti veramente ‘empio’,
satanico, e nello stesso tempo incerto, contraddittorio, amletico, presago di
morte; pronto a partire, ma non ancora nell’alto mare aperto. Fin dall’inizio,
dopo aver rivelato la sua stanchezza del regno, Ulisse annuncia di non poter
trattenersi dal viaggiare, che equipara al “bere la vita fino in fondo”. Guarda
poi alla vita, ma quella passata: grandi gioie e grandi sofferenze, solitarie e
in compagnia, a terra (ma significativamente la parola usata è “shore”, lido,
come se l’unica vita concepibile fosse comunque in riva al mare), e quando “le
Iadi piovose tormentavano il mare scuro con turbini guizzanti”. Il verso, che
echeggia Virgilio, Orazio, Shelley, Shakespeare e Milton, costituisce la
solenne presentazione di sé da parte di Ulisse: tale egli si vuole, uomo dalle
mille esperienze, navigatore intrepido. Egli è cosciente di essere diventato un
nome, un mito: il mito di colui che sempre errando “con un cuore affamato” ha,
come l’eroe dell’Odissea, visto e
conosciuto le città e i costumi degli uomini, ma anche se stesso, e, come
quello dell’Iliade, ha “bevuto la
gioia della battaglia” con i suoi pari “sulle piane sonanti di Troia ventosa”.
Ulisse ha ricostituito la propria identità di personaggio letterario e di uomo.
Facendo incontrare Virgilio e Byron, il classico e il romantico, egli si
dichiara ora “parte di tutto ciò che ho incontrato” come Enea e Childe Harold.
“Del mondo esperto” come l’Ulisse di Dante, egli è divenuto porzione vivente di
quel mondo: la vita è esperienza del tutto”[6].
Nel dialogo, di Cesare
Pavese, L'isola, le ultime parole di Odisseo a Calipso sono:"Quello
che cerco l'ho nel cuore, come te"[7]. Lo stesso concetto si trova nel
poeta neogreco[8]
Costantinos Kavafis:"In Ciclopi
e Lestrigoni, no certo/né nell'irato Nettuno incapperai/se non li porti
dentro/se l'anima non te li mette contro"[9] (Itaca , vv. 9-12).
Guido Gozzano ridicolizza Ulisse parodiando Dante: “Il re
di Tempeste[10]
era un tale/che diede col vivere scempio/un ben deplorevole esempio/d’infedeltà
maritale,/che visse a bordo d’un yacht/toccando
tra liete brigate/le spiagge più frequentate/dalle famose cocottes…/ Già vecchio, rivolte le vele/al tetto un giorno
lasciato,/fu accolto e fu perdonato/dalla consorte fedele…/Poteva trascorrere i
suoi/ultimi giorni sereni,/contento degli ultimi beni/come si vive tra noi…/Ma
né dolcezza di figlio,/né lagrime, né la pietà/del padre, né il debito
amore/per la sua dolce metà/gli spensero dentro l’ardore/della speranza
chimerica/e volse coi tardi compagni/cercando fortuna in America…/Non si può
vivere senza/danari, molti danari…/Considerate, miei cari/compagni, la vostra
semenza!” (L’ipotesi, vv.
11-138).
Nell’Ulisse del XXVI canto
dell’Inferno di Dante ricorda “l’orazion picciola” (v. 122) che tenne ai compagni
“vecchi e tardi” come lui (v. 106) per trasmettere loro “ l’ardore-ch’i’ ebbi a divenir del mondo
esperto,-e delli vizi umani e del valore” (vv. 97-99).
Le Sirene
E’ lo stesso ardore che lo
aveva spinto a rischiare la vita per ascoltare il canto delle Sirene nell’ Odissea (XII).
Il canto delle Sirene ha suscitato diversi commenti.
Ne L'ultimo
viaggio dei Poemi conviviali , Pascoli riprende alcuni episodi dell’Odissea: la XXI parte ricorda Le Sirene: “E gli sovvenne delle due
Sirene./ C’era un prato di fiori in mezzo al mare./Nella gran calma le ascoltò
cantare/- “Ferma la nave! Odi le due Sirene/ch’hanno la voce come è dolce il
miele; /ché niuno passa su la nave nera/che non si fermi ad ascoltarci appena,/
e non ci ascolta, che non goda al canto, /né se ne va senza saper più
tanto:/ché noi sappiamo tutto quanto avviene/sopra la terra dove è tanta
gente!”-/Gli sovveniva, e ripensò che Circe/gl’invidïasse ciò che solo è
bello;/saper le cose”.
Nell’episodio XXIII, Il Vero, Ulisse torna dalle Sirene per
fermarsi. Le interroga e le provoca: “Sirene, io sono ancora quel mortale/che
v’ascoltò, ma non poté sostare/più sempre avanti sospingea la nave. //E il
vecchio vide che le due Sirene,/le ciglia alzate su le due pupille,/avanti sé
miravano, nel sole,/fisse o in lui, nella sua nave nera/ E su la calma immobile
del mare,/alta e sicura egli inalzò la voce.//Son io! Son io, che torno per
sapere!/Ché molto io vidi, come voi vedete/me. Sì; ma tutto ch’io guardai nel
mondo,/mi riguardò; mi domandò: Chi sono?// E la corrente rapida e soave/più
sempre avanti sospingea la nave.// E il vecchio vide
un grande mucchio d’ossa/d’uomini,
e pelli raggrinzate intorno,/presso le due Sirene, immobilmente/stese sul lido[11],
simili a due scogli.// Vedo. Sia pure. Questo duro ossame./cresca quel mucchio.
Ma, voi due, parlate!/Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,/prima ch’io
muioa, a ciò ch’io sia vissuto!” //E la corrente rapida e soave/più sempre
avanti sospingea la nave./E s’ergean su la nave alte le fronti,/con gli occhi
fissi, delle due Sirene./ “Solo mi resta un attimo. Vi prego!/Ditemi almeno chi
sono io! Chi ero!”/E tra i due scogli si spezzò la nave”.
Sentiamo l’interpretazione
che T. Mann dà della brama del
conoscere e della solitudine cui questo desiderio smanioso ci condanna
"Allora, col martirio e l'orgoglio del conoscere,
sopravvenne la solitudine, ché la vicinanza dei bonari, delle anime gaiamente
ottenebrate, gli riusciva intollerabile, e il marchio sulla sua fronte turbava
costoro. Ma sempre più dolce divenne per lui la gioia della parola e della
forma"[12].
Tale gioia del resto è contaminata dal dolore:"La
letteratura non è affatto una vocazione; è una maledizione…perché lo sappiate.
E quando principia a farsi sentire questa maledizione? Presto, terribilmente
presto. A un'epoca in cui si potrebbe ragionevolmente pretendere di vivere
d'amore e d'accordo con Dio e con il mondo, uno comincia a sentirsi segnato, a
rendersi conto d'essere in incomprensibile contrasto con gli altri, coi
normali, con la gente ordinaria; sempre più fondo si scava l'abisso d'ironia,
d'incredulità, d'opposizione, di lucidità, di sensibilità che lo separa dagli
uomini; la solitudine lo inghiotte, e da quel momento non c'è più possibilità
d'intesa"[13]
Torniamo all’Ulisse di Boitani: “nonostante tutto, il cuore di Odisseo vuole udire, desidera la seduzione,
aspira a sentire quella voce di bellezza e di morte da vivo….Chi sono veramente le Sirene? Esseri oscuri del mondo
sotterraneo, come voleva Platone nel Cratilo?[14]
O, come Platone stesso, con esemplare sublimazione ed implicita
auto-decostruzione, proponeva nella Repubblica,
esseri celesti che intonano la musica delle sfere nel mondo futuro[15];
quindi, per un’età successiva, ‘angeli’? Simboli del desiderio mondano e del
piacere dei sensi, cortigiane e prostitute, come credeva l’ellenismo, o icone
del sapere, sul tipo delle doctae sirenes
celebrate da Ovidio?...”[16].
Ovidio nel V libro delle Metamorfosi racconta che le doctae
Sirenes, figlie dell’Acheloo, erano compagne di Proserpina quando la figlia
di Demetra sparì, cum legeret vernos Proserpina flores (v. 554), mentre raccoglieva i
fiori primaverili. Come la kore scomparve, rapita da Plutone, le Acheloidi la
cercarono per tutta la terra, poi vollero volare sul mare sperando di rintracciarla.
Per questo divennero alate. Ma conservarono
volti virginei e voce umana (563), perché non perdessero la facoltà del canto mulcendas natus ad auras (561), fatto
per incantare gli orecchi.
Nell’ultimo libro delle Argonautiche, Orfeo con il
suo canto neutralizza quello delle Sirene appostate sull’isola Antemoessa,
usualmente identificata con degli scogli
vicini a Sorrento. Esse sembravano in parte uccelli e in parte giovani donne,
incantavano e uccidevano con il loro canto, ma la cetra di Orfeo ebbe la meglio
sulla voce delle fanciulle che mandavano suoni indistinti. Soltanto Bute ne fu
affascinato e saltò in mare: le Sirene lo avrebbero ucciso, ma lo salvò
Afrodite, la dea protettrice di Erice e gli assegnò il promontorio Lilibeo per
dimora. (Argonautiche, 4, 892 sgg.).
Sembra che Apollonio voglia indicare una contrapposizione tra musica
benigna e maligna
Sentiamo ancora Boitani che cita e commenta Brecht:
“Nel 1933 Bertold Brecht-torniamo
così al riparo della mera letteratura-scrisse, nelle sue Rettifiche di miti antichi, un pezzo minuscolo su Ulisse e le Sirene. Il drammaturgo vi
riporta la versione tradizionale, in cui l’eroe si fa legare all’albero maestro
e poi tura gli orecchi dei rematori con la cera “così che… il suo godimento
dell’arte possa rimanere senza brutte conseguenze”. Giunti dinanzi all’isola, i
“servi” resi sordi vedono Ulisse contorcersi all’albero e le “seducenti
femmine” gonfiare la gola. Tutto in ordine, dunque: secondo il programma.
L’intera antichità credette che al volpone fosse riuscito il suo stratagemma.”
Ma Brecht mette in dubbio la veridicità della storia. Dopotutto, Ulisse è il
mentitore per eccellenza:
Dovrei essere io il primo ad avanzare sospetti?
Ebbene, io mi dico-D’accordo, ma chi, all’infuori di Ulisse, dice che le Sirene
cantarono veramente davanti all’uomo legato? Queste femmine abili e potenti
dovrebbero davvero aver sprecato la loro arte con gente che non possedeva
alcuna libertà di movimento? Qui vorrei perciò supporre, invece, che le gole
gonfie osservate dai rematori gridassero, con tutta la loro forza, insulti al
maledetto e prudente provinciale, e che il nostro eroe eseguisse i suoi
contorcimenti (anch’essi attestai), perché pure lui alla fine provava vergogna.
E dunque le Sirene, nonostante il “definitivo”
silenzio di Kafka, riprendevano bellamente a cantare; la narrazione, e
l’interpretazione, continuavano. La nota di Brecht al racconto proclama, in
perfetto stile midrash[17]
ironico: “Per questa storia si trova una rettifica anche in Franz Kafka, ma nell’età
moderna essa non appare più, davvero, credibile”.
Le Sirene cantano, anzi urlano insulti: nei “tempi
nuovi” l’arte un po’ sfacciata non può che prendere a male parole il borghese
autoritario e provinciale che vuole godersela senza brutte conseguenze. Un anno
più tardi, nel 1934, era Walter Benjamin a rievocare Ulisse e le Sirene…Nello
splendido saggio su Franz Kafka,
Benjamin chiama l’ebreo praghese “novello Ulisse” perché egli non ha ceduto,
dice, alle lusinghe del mito, che potrebbe offrire redenzione al mondo. In
Kafka, scrive il critico, le Sirene tacciono “forse perché in lui la musica e
il canto sono un’espressione, o almeno un pegno di salvezza”. L’esegesi
sembrava ribadire la fine ”[18]
.
Il
silenzio delle Sirene
Che cosa cantava Calipso, o
Circe (X, 221, 227, 254), o la
Sfinge dell'Edipo re[19] è un quesito più legittimo e logico di
quello che poneva Tiberio imperatore ai grammatici:"quid Sirenes cantare sint solitae? "[20]
che cosa cantassero abitualmente le sirene.
Kafka sostiene che quelle creature non cantavano:"le sirene hanno un'arma ancor più terribile
del canto, ed è il loro silenzio. E' forse pensabile, sebbene non sia mai
successo, che qualcuno possa salvarsi dal loro canto: sicuramente non dal loro
ammutolire...E davvero, quando Odisseo arrivò, le potenti cantatrici non
cantavano...Ma Odisseo, se così si può dire, non udì il loro silenzio, credette
che cantassero e che lui soltanto fosse preservato dall'udirle"[21].
T. Mann attribuisce il
silenzio alla Sfinge egiziana; “Che cosa diceva quell’enigma? Non diceva
assolutamente nulla. Consisteva nel silenzio, nel silenzio imperturbabile ed
ebbro con cui quell’essere mostruoso …mirava con sguardo selvaggio e veggente
lontano, oltre colui che interrogava e nello stesso tempo veniva interrogato…Era
una Sfinge, cioè un enigma e un mistero; e precisamente un mistero selvaggio,
con branche di leone, cupido di sangue giovane, pericoloso per il figlio di
Dio…Su quel petto di roccia, tra le branche di quel drago femmina, non si
sognavano sogni di promessa, e tutt’al più sogni ben miseri”[22].
Kafka racconta che Ulisse si
chiuse le orecchie con la cera e opera una "dislettura del mito
originario, nel quale l'eroe tura invece le orecchie dei compagni"[23]
per affermare il loro silenzio e descrivere la loro mimica:"Esse però, mai
così belle, si tesero e si torsero, lasciarono ondeggiare liberi nel vento i
loro orridi capelli, aprirono, nudi, gli artigli sulle rocce; non volevano più
sedurre, volevano soltanto afferrare, finché era possibile, il riflesso lucente
degli occhi immensi di Odisseo". E' un'interpretazione
inquietante:"da essa emerge per la prima volta nella letteratura
occidentale il punto di vista delle Sirene. Ma
, "più belle che mai", le Sirene (e siamo nel sesto paragrafo)
allungarono il collo e si voltarono, lasciarono ondeggiare i loro capelli
"raccapriccianti" nel vento e, dimenticando tutto, afferrarono le
rocce con i loro artigli. Tornate mostruose dopo il passaggio dell'eroe, esse
non avevano più alcun desiderio di sedurre:"volevano solamente trattenere
il più a lungo possibile il riflesso luminoso che veniva dai grandi occhi di
Odisseo". Le "legatrici" sono legate. E' l'uomo ormai ad
ammaliare, ad essere specularmente divenuto una sirena"[24].
In realtà Omero attribuisce sette esametri al
canto armonioso delle Sirene: sono i versi 184-191 del XII canto dove le
misteriose creature promettono a Odisseo quello che desidera di più:
l'accrescimento della conoscenza che rende felici: chi sente le loro voci dal
suono di miele, riparte “teryavmeno~…kai; pleivona eijdwv~” (v.
188), pieno di gioia e conoscendo più cose.
Noi infatti, concludono:
“ i[dmen d j o{ssa
gevnhtai ejpi; cqoni; pouluboteivrh/"
(v. 191), sappiamo quanto avviene sulla terra nutrice
E’ meno dislessico attribuire il silenzio
delle parole a Calipso o a Circe o alla
Sfinge di Sofocle.
Ulisse è spinto a partire ma
anche a ritornare.
Se da una parte "il non
domato spirito,/e della vita il doloroso amore"[25]
sospingono Ulisse, come il poeta triestino,
“al largo”[26], dall'altra il richiamo e il risucchio della
patria ve lo fa tornare.
Nel IX canto del poema omerico Odisseo
dichiara ad Alcinoo il proprio nome e quello della sua terra: “Itaca distinta ( j Iqavkhn
eujdeiveleion, v. 21); dove c’è ben
visibile il monte Nerito che scuote le foglie, ed è aspra, ma buona nutrice di
giovani: “trhcei` j ajll j ajgaqh; kourotrovfo~”(v. 27).
Così pure l'Ulisse
di Joyce, altro uomo che ha molto sofferto anche se di formato
non eroico, dopo un lungo girovagare per Dublino torna a casa[27]
dalla moglie, sebbene adultera, da quella Molly che E. Pound interpreta come "Gea Tellus, simbolo della Terra... il
suolo dal quale l'intelletto tenta di saltare via, e nel quale ricade in saecula
saeculorum.".
La donna di questo Ulisse in
effetti è un personaggio universale come lo è egli stesso:"I dettagli
della carta topografica sono locali ma Leopold Bloom (né Virág [28] ) è di tutti i luoghi"[29]
.
Sul ritorno di Ulisse e il rischio di scordarlo ha scritto parole interessanti Calvino:"Il ritorno va individuato e pensato e ricordato: il
pericolo è che possa essere scordato prima che sia avvenuto. Difatti, una delle
prime tappe del viaggio raccontato da Ulisse, quella presso i Lotofagi,
comporta il rischio di perdere la memoria, per aver mangiato il dolce frutto
del loto. Che la prova della dimenticanza si presenti all'inizio
dell'itinerario d'Ulisse e non alla fine, può apparire strano. Se dopo aver
superato tante prove, sopportato tante traversie, appreso tante lezioni, Ulisse
avesse scordato ogni cosa, la sua perdita sarebbe stata ben più grave: non
trarre alcuna esperienza da quanto ha sofferto, alcun senso da quel che ha
vissuto. Ma, a ben vedere, questa della smemoratezza è una minaccia che nei
canti IX-XII si ripropone più volte: prima con l'invito dei Lotofagi, poi con i
farmaci di Circe, poi ancora col canto delle Sirene. Ogni volta Ulisse deve
guardarsene, se non vuole dimenticare all'istante...Dimenticare che cosa? La
guerra di Troia? L'assedio? Il cavallo? No: la casa, la rotta della
navigazione, lo scopo del viaggio. L'espressione che Omero usa in questi casi è
"scordare il ritorno"[30].
Ulisse non deve dimenticare la strada che deve percorrere, la forma del suo
destino: insomma non deve dimenticare l'Odissea. Ma anche l'aedo che compone
improvvisando o il rapsodo che ripete a memoria brani di poemi già cantati non
devono dimenticare se vogliono "dire il ritorno"; per chi canta versi
senza l'appoggio di un testo scritto "dimenticare" è il verbo più
negativo che esista; e per loro "dimenticare il ritorno" vuol dire
dimenticare i poemi chiamati nostoi ,
cavallo di battaglia del loro repertorio"[31].
Concludo con l’Ulisse di Joyce. E’ Leopold Bloom, un ebreo ungherese. Il suo vero
cognome è Virág che in lingua magiara significa fiore.
Si dice che Bloom è la
controfigura dell’eroe omerico. Di fatto
ha in comune con Odisseo la pazienza e la curiosità: gira per casa sua e
per Dublino nella lunga giornata del 16 giugno 1904 osservando tutto e riflettendo
su tutto. Sopporta con ironia e non
senza dignità. A proposito della moglie che ha un amante, Boylan “l’eroe
conquistatore”, Leopold Bloom “l’eroe inconquistato” pensa: “Lei voleva andare.
Ecco perché. Donna. Tanto vale fermare il mare”[32]
Nel XII episodio Il Ciclope- la taverna, Bloom viene
aggredito da nazionalisti razzisti gaelici, antisemiti in un crescendo di
insulti.
Questo nuovo Ulisse sopporta
siccome è “papà prudenza” (p. 407) e oppone argomenti razionali
all’irrazionalità dei razzisti, il cui corifeo è “il Cittadino” scortato da un
cane ringhioso . Rinfacciano all’Ulisse ebreo la puzza semitica, le corna, e
attribuiscono ogni male a chi non ha una nazione.
“Una nazione?” replica Bloom.
“Una nazione è la stessa gente che vive nello stesso posto…Qual è la sua
nazione, se è lecito? Dice il cittadino
-L’Irlanda”, risponde Bloom. “Sono
nato qui. L’Irlanda”
Il cittadino non disse nulla,
si schiarì appena in gola, e, perdiana, fece volare una patacca di scaracchio
fin nell’angolo”
Bloom risponde proponendo di
sostituire l’amore all’odio che è “il contrario di quel che è veramente la
vita”
Poi il nostro Ulisse viene
definito “un ebreo rinnegato…venuto da qualche parte dell’Ungheria…si chiamava
Virag. Il nome del padre, quello che si avvelenò. Se l’è fatto cambiare
ufficialmente, il padre…Virag d’Ungheria. Io lo chiamo Assuero. Maledetto da
Dio…San Patrizio dovrebbe sbarcare un’altra volta a Ballykinlar e riconvertirci
, dice il cittadino, dopo che abbiamo permesso a tipi simili di contaminare i
nostri lidi.
Gli insulti agli Ebrei e a
Bloom continuano, finché Leopold reagisce: “Mendelssohn era ebreo e anche Carlo
Marx e Mercadante e Spinosa. E il Redentore era ebreo e suo padre era ebreo. Il
vostro Dio…Il vostro Dio era ebreo. Cristo era ebreo come me”[33].
Quindi Bloom scappa via
inseguito dal lancio di una scatola di biscotti e dal cagnaccio aizzato dal
padrone. L’episodio Il ciclope-La taverna finisce con varie reminiscenze delle Sacre
Scritture, soprattutto 2 Re II, 11 dove si parla dell’ascesa al cielo di Elia
“E videro Lui nel carro,
rivestito nella gloria di quello splendore, che aveva vestimento come del sole,
bello come la luna e terribile sì che per tema non osarono levare gli occhi a
lui”[34].
Bloom dunque ha una sua dignità, anche se non
ha l’eroismo di Odisseo né una Penelope fedele. La moglie Molly lo tradice, ma dopo tutto rimane con lui. L’ultimo
capitolo[35]
Il XVIII, Penelope- il letto si
chiude si chiude con una serie di sì che la donna dice alla vita, alla sua vita
con il suo Ulisse, a tutta la vita: “and
first I put my arms around him yes and drew him down to me so he could feel my
breasts all perfume yes and his heart was going like mad and yes I said yes I
will yes”
Sono le ultime parole del
romanzo uscito nel 1922.
Giovanni Ghiselli
Blog
[1] Del 45
a . C. E’ un dialogo in cinque libri, dedicato a Bruto, sul problema
del sommo bene e del sommo male.
[2] Baudelaire, Les Fleurs du Mal, Spleen, LXXVI, 3.
[3] Si rivolge ad Anneo Sereno, un giovane allievo e
amico cui Seneca indirizza anche il De
tranquillitate animi e il De otio..
[5] L'eroe non fa niente che non stimi degno della sua
natura: Achille , cedere nescius ( Orazio, Odi , I, 6, 5- 6:" gravem /Pelidae stomachum cedere nescii ", la funesta ira di Achille incapace di cedere. ) , non si lascia bloccare dalla
profezia di sventura del cavallo fatato Xanto, e gli
risponde:"ouj
lhvxw"( Iliade , XIX, v. 423), non cederò.
Della definizione oraziana dell'eroe si
ricorda Leopardi nel Bruto Minore:"
Guerra mortale, eterna, o fato indegno,/teco il prode guerreggia,/ di cedere
inesperto"(vv. 38-40).
[6] P. Boitani, L’ombra
di Ulisse, pp. 119-120.
[7]C. Pavese, Dialoghi
con Leucò , p. 136.
[8] 1863-1933.
[9]Costantinos Kavafis, Settantacinque poesie .
[10] E’ una citazione parodica di D’Annunzio :
« Odimi » io gridai/sul clamor dei cari compagni/ « odimi, o Re
di tempeste !” (Maia, IV)
[14] 403d, Sono le sirene ctonie evocate già nella parodo
dell’Elena di Euripide dove Elena
intona il primo canto cui risponde coro di donne greche rapite dai
corsari e vendute come schiave in Egitto.
La figlia di Zeus dunque chiama le Seirh`ne~ (v. 169)
pterofovroi
neanivde~ ragazze alate (v. 167), vergini
figlie della terra parqevnoi
Xqono;~ kovrai (v. 168): le invita a
venire compagne ai suoi gemiti con il
flauto libico o le zampogne , lacrime,
canti di pianto accordati con i suoi desolati lamenti, dolori per dolori, canti per
canti . Le Sirene erano rappresentate nei monumenti funebri ndr
[15] Nella mito di Er della Repubblica, Platone racconta che
l’asse dell’universo, si volgeva sulle ginocchia di Ananche e che il
fuso era bilanciato da otto fusaioli, emisferi concentrici su ognuno dei quali
incedeva una sirena, tratta anch’essa nel moto circolare, e da tutte otto che
erano risuonava una sola armonia ( ejk pasw`n de; ojktw; oujsw`n mivan aJrmwnivan sumfwnei`n, 617b)
[16] P. Boitani, L’ombra
di Ulisse, pp. 27-28
[17] Esposizione ebraica del vecchio testamento (ndr).
[18] P. Boitani, Sulle
orme di Ulisse, pp. 134-135.
[19] vv. 35-36:
" ejxevlusa"... sklhra'" ajoidou' dasmo;n oJ;n pareivcomen", hai fatto cessare... il tributo della
cantatrice dura che pagavamo, e v. 130 "hJ poikilw/do;" Sfi;gx", la
Sfinge dal canto variopinto.
[20]Svetonio, Tiberii
Vita , 70.
[21]F. Kafka, Il
silenzio delle sirene, scritti e frammenti postumi (1917-1924) p. 45.
[22] T. Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, vol. III,
Giuseppe in Egitto, p. 100.
[23]P. Boitani, L'ombra
di Ulisse , p. 214.
[24]P. Boitani, L’ombra
di Ulisse, p.216.
[25]Umberto Saba, Ulisse
, vv. 12- 13.
[26] Umberto Saba, Ulisse
, v. 11.
[27] Cfr. il XVII episodio: “Itaca” la casa
[28]Cognome che significa "fiore" nella lingua
magiara e dunque indica l'origine ungherese di questo ebreo che vive a Dublino.
Ulisse è greco ma pure cittadino del mondo.
[29]Ulysses , in Pound Opere Scelte , p. 1168
[31]I. Calvino,
Perché leggere i classici , pp. 15-16.
[32] XI episodio, Le Sirene, la mescita.
[33] Joyce, Ulisse,
p. 468.
[34] Joyce, Ulisse,
p. 468
[35] Il XVIII, Penelope-
il letto
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