lunedì 1 aprile 2013

I luoghi della memoria di Adriana Pedicini


 Ho scritto questo pezzo nel giorno di Pasqua: la resurrezione di Gesù Cristo sembra significata dalla rinascita del Sole invitto qui a Bologna.
E’ dunque con ritrovata e rinnovata gioia che auguro buona primavera ai miei 18514 lettori e mi accingo a commentare il bel libro che mi ha dato conforto durante le ore buie della pioggia quasi diluviante di ieri, quando pareva che la giusta ira di Dio volesse sommergere sotto le onde [1] questa  terra resa malata da troppi anni di malgoverno.
Credo che la santa collera di Dio si sia rinfocolata in seguito alla ripugnante manifestazione di solidarietà per i tre vili assassini del diciottenne Federico Aldrovandi, seguita dall’atto di sciacallaggio del parlamentare del Pdl Giovanardi il quale ha osato dire che il rosso visibile nella fotografia del ragazzo ammazzato di botte, non è sangue.
 Sarà qualche cosa di simile al mantello di porpora del  Cristo fatto flagellare, incoronato di spine, e mostrato ai sommi sacerdoti da Pilato che pure lo sapeva innocente: "Exiit ergo Iesus foras, portans spineam coronam et purpureum vestimentum. Et dicit eis-Ecce homo!-" ( Giovanni, 19, 5).
Persone come Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi mi ricordano l’Ecce homo.
Patrizia, la mamma di Fedrico, ha definito Giovanardi: “ uno sciacallo che mente, sapendo di mentire”.

In effetti tali azioni efferate e tali  parole abominevoli sono macchie sull’onore del corpo della polizia, sul parlamento e sull’intera nazione italiana.

Il libro dunque, edito nel 2011 da Arduino Sacco, si intitola I luoghi della memoria. L’autrice è una fine classicista, docente emerita di lettere classiche al Liceo Giannone di Benevento. Da amantissimo della classicità e della vita quale sono io pure, voglio presentare alcuni dei 13 racconti nei quali si articola questo volume snello (108 pagine)  segnalandone le pagine che sono più pregne di vita e colpiscono la sfera emotiva dei lettori. Voglio indicare pure quelle che   lasciano scorgere in filigrana la cultura classica dell’autrice, una paideia che diventa educazione per quanti la leggono.

 Parto dal titolo. I luoghi della memoria sono i paesaggi dell’anima, pieni di mito e poesia. La vita ecologica infatti è anche vita storica e vita psicologica. La Memoria è figlia del Cielo e della Terra [2] ed è pure la strada percorsa durante la vita terrena, breve ma prolungabile con la grazia di Mnhmosuvnh.
Chi non ha la memoria che mantiene i ricordi è come il cane rabbioso, legato e invecchiato male alla catena dell’istante.
Brutti ceffi pieni di risentimento, di frustrazioni,  di sensi di inferiorità. Come quelli dei carnefici e di chi li approva.
Il primo racconto Sapore d’infanzia (pp. 11-13)  paragona la vita “ad una mensa imbandita” con alcuni “piatti prelibati”  e altri “amari, aspri, nauseabondi, indigesti”. Tra i sapori e i profumi che, proustianamente [3] suscitano ricordi, pensieri, emozioni “il sapore e il profumo robusto e sicuro del pane” è legato all’infanzia, agli affetti, fondati, in quella stagione mitica [4], su basi che hanno costituito il piedistallo  dei successivi stati d’animo nel volgere rapidissimo degli anni che portano via tutto, quasi tutto.
La panificazione viene presentata come un rito antico che rimanda alla civiltà mediterranea e, anzi, alla civiltà umana. I Ciclopi ingiusti e violenti non coltivano piante, non arano [5], poiché sono antropofagi, come i Lestrigoni giganti che catturano gli uomini stranieri e "se li portano a casa per farne dei "festini privi di gioia" (ajterpeva dai'ta [6]).
Giganti e Ciclopi  si trovano tra“gli eterni nemici della cultura" [7]. Così  come gli assassini ti tutte le risme. E chi li approva.

Il secondo racconto, Teresina (pp. 17-20) parla di una donna poverissima, emarginata, sola , una di quelle persone che, incontrate per strada ci mettono addosso paura o imbarazzo. Eppure i bambini la invitavano a giocare con loro “ Forse per la verità dei sentimenti che solo la fanciullezza possiede in comune con i semplici, i bambini le volevano bene” (p. 18).
Viene di nuovo  in mente il Cristo: “sinite parvulos ad me venire[8]. I bambini vanno da Gesù e da Teresina per la legge della gravitazione spirituale che avvicina i simili ai simili. I parvuli, che non disdegnano gli ultimi, assomigliano a Teresina e a Cristo: “In verità vi dico: ‘ogni volta che avete fatto del bene a uno di questi miei fratelli minimi, l’avete fatto a me”[9].
E ora Dostoevskij, uno dei grandi classici russi.
Il principe Lev Nikolajevič Myškin, “l’idiota”, studiava e leggeva “con l’unico scopo di poter intrattenere i bambini”.
Eppure pensava di imparare più lui dai piccoli che loro da lui e non capiva come facesse a provare invidia e a calunniarlo il maestro ufficiale del paesetto svizzero  “che pure viveva in mezzo ai bambini. Essi ci curano l’anima”[10].

Poi c’è il racconto La chioccia (pp. 21-24), ossia  Mariantonia che da ragazza era fallita nell’amore, quando “il suo giovane amato era rimasto eroe chissà dove” e la  vita “dapprima dischiusa a ventaglio si era ripiegata su se stessa, racchiusa tra le pieghe dell’anima” (P. 22). Poi aveva  ottenuto una rivincita di Pirro sul terreno economico con una disciplina spietata cui aveva sottoposto se stessa e tutta la famiglia.
 Ma  alla fine la matriarca subisce la sconfitta definitiva, quella negli affetti: i figli, fatti laureare con sacrifici enormi e fatti sposare con chi voleva lei, la lasciano sola “in pasto a una disperata solitudine” p. 24) e quando la vecchia  de-solata morì, “non parteciparono al suo funerale, Inviarono ricchi fasci di rose” (p. 24)). Mi ricorda, mutatis mutandis, la morte di mastro don Gesualdo.
L’uomo  del tutto economico è un grande scialacquatore poiché sperpera gli affetti che sono il bene più prezioso [11].

Il racconto Esami di ammissione (pp. 33-38) tratta di scuola, un’esperienza che io e l’autrice abbiamo fatto in pratica per tutta la vita. La Pedicini non so, credo di sì, io la rifarei mille e mille volte se tornassi su questa terra.  
Eppure la scuola dove mi hanno fatto studiare escludeva quasi del tutto lo spirito critico, ossia la possibilità di dare giudizi (krivnein), sia perché tale capacità di krivsi~ non ci veniva insegnata, sia perché, qualora l’avessimo avuta congenita, ci veniva proibita. Questa è stata la mia esperienza in gran parte delle medie, del liceo e dell’università.
Non diversa deve essere stata quella dell’autrice: “Poi lo studio. L’apprendimento mnemonico doveva essere fede tra le fedi in quei tempi o per i docenti di quel tempo e gli allievi vi si adattavano come pecore mansuete” (p. 35). Importava solo che gli allievi “recitassero a memoria le pagine scritte onde dimostrare il rispetto sacro nei confronti del sapere trasmesso e non modificabile, negando una possibilità importantissima: vivificare attraverso il personale giudizio critico, la propria sensibilità, la propria cultura, la propria personalità” (p. 35).  Ma non è facile togliere la prospettiva del pensiero ai giovani, se sono ricchi di spirito. Il gusto della vita e dell’imparare per la vita è troppo forte: è incoercibile nei ragazzi dotati di anima.
 E anche quei sistemi educativi obsoleti sono stati utili a chi era predisposto a imparare. A me l’apprendimento mnemonico delle elementari, delle medie, del ginnasio, del liceo, serve ancora quando tengo una conferenza o scrivo un articolo. La citazione infatti è il modo più diretto per mettere chi  legge o  ascolta in contatto con “la carne viva” dell’autore. Dopo, bisogna commentarlo, ma prima è necessario presentarlo qual è. E leggendo il meno possibile.
Anche la Pedicini non rinnega del tutto quella scuola antica.
“Ma, come spesso accade, anche dagli esempi più discutibili si può trarre un insegnamento , e sicuramente essi diventano nel tempo modelli di confronto da emulare o evitare, migliorare o rivalutare addirittura se è il caso” (p. 38).
Rispetto alla scuola del didattichese che si occupa di metodi senza curarsi dei contenuti ossia dei testi d’autore cui applicarli, io rivaluto la scuola della Memoria che è pur sempre madre delle Muse le quali furono  generate nella Pieria, bellissima base dell’Olimpo[12]. “perché fossero oblio dei mali e sollievo degli affanni”[13]. La memoria è lo scrigno dell’intelligenza e va esercitata, potenziata sempre, con disciplina grande.    

In più di un racconto fa la sua luttuosa apparizione la guerra che “è sempre un delitto, per i vinti e per i vincitori. Morti, stragi, violenze da ambedue le parti” (Sulle orme del padre, p. 41).
Parole sante, mai ripetute abbastanza.
Parole che non entrano nelle teste pervertite dall’orgia diabolica del potere.
Eppure già nell'Iliade, il poema  pieno di battaglie sempre sonanti[14], Zeus  dice ad Ares:"tu per me sei il più odioso tra gli dei che abitano l'Olimpo”[15] .
Le esecrazioni della guerra sono innumerevoli in letteratura. Ciò- non- ostante c’è ancora chi santifica gli scempi e gli sconci dovuti ai conflitti che da Omero in poi sono stati sempre più deleteri.
Nel primo Stasimo dell’Agamennone,  Eschilo attraverso il canto del coro ricorda che dalla guerra "invece di uomini/urne e cenere giungono/alla casa di ciascuno"(434-436) e Ares viene definito il cambiavalute dei corpi[16], nel senso che la guerra distrugge le vite e arricchisce gli speculatori.
Papa Francesco nel giorno di Pasqua ha invocato la pace: “Pace a tutto il mondo, ancora così diviso dall’avidità di chi cerca facili guadagni!”
Nell’Ecuba di Euripide, la vecchia regina di Troia  supplica Odisseo di non ammazzare la figlia Polissena con un verso che è un'alta espressione di umanesimo in favore della vita:"mhde; ktavnhte: tw'n teqnhkovtwn a{li" " (v. 278), non ammazzatela: ce ne sono stati abbastanza di morti. Sono i morti Troiani e i morti Greci nella guerra esecrata anche dal dio Poseidone nelle Troiane di Euripide: “E’ stolto tra i mortali chi devasta le città,/consegnando al deserto templi e tombe, luoghi sacri /dei morti: egli stesso dopo è già morto (vv. 94-96).     

Papa Francesco  ha concluso: “Basta con le guerre, basta sangue!”.
La guerra è una macchia sull’onore dell’umanità.

La nomade (pp. 65-77) identifica il pindarico “diventa quello che sei”[17] con la simpatia nei confronti  di uno dei fratres minimi raccomandati da Gesù e ora da papa Francesco.  Sparisce “lo scemo” di una comunità di zingari giostrai, “Pellegrino, grosso ragazzone di quarant’anni, testa pelata, sempre la stessa. giacca ormai troppo lisa, pantaloni larghi e corti in maniera sbilenca sulle caviglie. Era quasi sempre solo; già lo era di se stesso, senza alcuna voce che dall’animo gli tenesse compagnia e lo facesse piangere di dolore o di gioia (p, 67). Giocava tutto il giorno con le biglie. Gliene regala una “di vetro colorato” (p. 69) Josephine, una ragazzina che non era “zingara di nascita” (p. 72) ma si era aggregata ai giostrai per fuggire da un ambiente che le toglieva la voglia di vivere. Un giorno  Pellegrino misteriosamente sparisce in cerca della biglia smarrita “Continuava a ripetermi sorridendo…dolcemente: la biglia…la grande biglia è scomparsa nel sole…ma un giorno la troverò, sì, proprio nel sole…e mai più la perderò” (p 76).
La ragazza, che sola ha intuito l’enigma della natura ossimorica[18] di Pellegrino, andrà a cercarlo per trovare se stessa: “ ‘Andrò a cercarlo, e insieme cercherò anche io la grande boglia-sospirò Josephine-per conoscere le risposte che da tempo aspetto. Incomincerò a percorrere la mia strada, a guardare verso il sole…Se non troverò Pellegrino, troverò me stessa perché è lì che sta scritto con inchiostro indelebile la storia del mio cammino’. E in preda  a una sorte di estraniamento si avviò verso il suo domani, credendo di avere trovato il suo angelo custode” (p. 77)
Pellegrino è dunque l’angelo custode, la vocazione che chiama Josephine verso la sua via e il suo daivmwn, il suo destino. La ragazza ha l’anima sensibile e capace di coglierne del demone, ignorati dai più.
I racconti sono tutti belli, ma per ragioni di spazio, devo concludere. Lo faccio tornando alla scuola, un argomento che per ragioni biografiche, e per il  daivmwn che mi è stato assegnato, o mi sono scelto[19], mi sta molto a cuore.
Il racconto si intitola Banchi di legno (pp. 79-93).
E’ la storia del primo anno di insegnamento di una giovanissima professoressa, Nives, in un paese di gente povera, refrattaria alla scuola. I ragazzi non ci andavano per infingardaggine o non ci venivano mandati perché dovevano andare a lavorare. Il dirigente era un gaglioffo che non se ne curava. La ragazza avvicinando gli alunni renitenti nei bar, per la strada, un poco alla volta ne convince diversi della  necessità dell’istruzione e della cultura: “è la cultura che può rendevi liberi”
I giovani di buona natura sentono le loro energie incoraggiate dallo studio :"unum studium vere liberale est quod liberum facit, hoc est sapientiae, sublime, forte, magnanimum: cetera pusilla et puerilia sunt "[20]  un solo studio è davvero liberale, quello che rende libero, cioè lo studio della sapienza, sublime, forte, magnanimo. Gli altri sono piccini e puerili.
La sapienza è l’unica libertà:  “Sapientia quae sola libertas est[21].
La professoressa intelligente e di buona volontà, suscita inquietudine e scandalo: “Ovviamente il turbamento che pervase le famiglie e lo scandalo al quale gridava l’intero paese con a capo il prete, furono grandi come il senso di trionfo che falsamente si era impadronito di lei” (p. 85)
Possiamo tornare all’Idiota di Dostoevskij: “ Dicevo loro tutto senza mai nascondere nulla. I genitori e i familiari loro si stizzivano, perché, infine, i ragazzi non potevano più fare a meno di me, e il maestro di scuola diventò mio acerrimo nemico”[22]
Anche Nives si fa parecchi nemici, ma non desiste dal suo impegno. L’educazione dei giovani per alcuni insegnanti, nemmeno pochi, è una fede.
Ho notato durante i decenni passati nei licei, quanti di noi erano senza coniuge e senza figli! Io personalmente, e credo tanti altri docenti zitelli e zitelle, abbiamo vissuto la funzione genitoriale  educando i giovani della comunità. Fare figli miei, perfino sposarmi o convivere con una donna, mi è sempre sembrato un atto di egoismo: un sottrarre tempo allo studio necessario per educare e istruire i figli degli altri. Del resto non mi sono fatto mancare niente in campo affettivo e in campo sessuale, eterosessuale.
Ines ama tanto i suoi ragazzi, che arriva ad avere una relazione sentimentale con uno di loro, particolarmente sensibile, poco più giovane di lei.
La decisione di intraprendere questa difficile relazione che avrebbe suscitato ulteriore scandalo, la professoressa ragazza la prende anche per dichiarare la sua guerra  all’ipocrisia, all’ “inganno di quei disonesti che tarpano le ali a chiunque cerchi di volare per proprio conto” (p. 90).
“Ecco-a un tratto pensò-ho sempre sostenuto che la cosa principale sia abbattere i pregiudizi, non curarsi come gli altri possano giudicarti. Perché allora dovrei rinunciare alla mia idea di essere libera, libera come dico io?” (p. 90). Il sentimento reciproco dei due, poi, nel corso dei mesi di scuola si trasforma  da innamoramento “in un tenero sentimento di amicizia” (p. 92), e, alla fine dell’anno scolastico, Ines lascia il paese rinunciando a “l’aspetto egoistico del suo amore e della sua dedizione: alla fine aveva capito tuttavia che le stava più a cuore l’immagine di un paesino calmo e tranquillo , dove i giovani avevano acquistato un diverso significato del vivere quotidiano, e non volle guastarlo tentando di sradicare dall’ambiente naturale una sola di quelle piante” (p. 93). Il risultato positivo dell’esperienza è l’accettazione della “inevitabile realtà” (p. 93) sulla quale la sua intelligenza, umanamente impiegata ha comunque lasciato un segno. Credo che anche questo bel libro lasci delle tracce nel pensiero e nei sentimenti di chi lo legge
“Il fischio del treno che annunciava l’arrivo alla stazione del suo paese la riportò alla realtà fatta di sogni e di speranze, di ideali e di lotte ma certo di realtà, di inevitabile realtà, e nell’aver capito che dopotutto bisogna accettarla prima ancora di migliorarla”. La sua vera vittoria fu il fatto di avere capito la necessità di accettare la realtà prima ancora di migliorarla.
E’ l’amore della vita, l’amore del fato[23], l’amore di se stessi e degli altri che porta a queste conclusioni.

Giovanni ghiselli g.ghiselli@tin.it


[1] Cfr. Ovidio, Metamorfosi, I, 260-261. “ poena placet diversa, genus mortale sub undis-perdere et ex omni nimbos demittere caelo”. Giove vuole annientare la stirpe dei mortali sotto le onde, e invece di colpirla con i fulmini, scatena il diluvio universale pioggia dirotta versando da tutte le parti del cielo. Si salvano solo Deucalione e Pirra, entrambi innocenti e devoti (v. 327).
[2] Esiodo, Teogonia, 135.
[3] I classici non sono soltanto i Greci e i Latini, ma tutti gli autori-auctores, gli accrescitori dell’anima che non passano mai di moda.
[4] “I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto” (Leopardi, Zibaldone, 527).
[5] Odissea IX, 108
[6] Odissea , X, 124.
[7] J. Hillman, L'anima del mondo e il pensiero del cuore , p. 144.
[8] Vangelo secondo Marco 10, 14, lasciate che i piccoli vengano da me.
[9] Matteo 25, 40.  I fratres minimi sono gli affamati cui si deve dare il cibo; gli assetati che vanno dissetati; i senza tetto che devono essere accolti; gli ignudi che vanno vestiti, gli infermi, i carcerati da visitare e confortare.
[10] F. Dostoevskij, L’idiota, capitolo VI.
[11] Leopardi in Il pensiero dominante  condanna l’ossessione dell’utile da parte della sua età "superba,/ che di vote speranze si nutrica,/vaga di ciance, e di virtù nemica;/stolta, che l'util chiede,/e inutile la vita/quindi più sempre divenir non vede"(vv. 59-64).
[12] E dove c'è la Pieria /bellissima sede delle Muse,/sacra pendice dell'Olimpo ( Euripide, Baccanti, vv. 409-411)
La Pieria come sede delle Muse è segnalata da Esiodo (Teogonia, 52-54), da Virgilio e da altri.
La Pieria è la regione boscosa che si stende sulle pendici nord-est dell’Olimpo, dove aveva speciale vigore il culto delle Muse.
[13] Esiodo, Teogonia, 55.
[14] Cfr. Carducci, Sogno d’estate, 1.
[15] e[cqisto" dev moiv ejssi qew'n oi{   [Olumpon e[cousin (V, 890)
[16] oJ crusamoibo;" d' j  [Arh" swmavtwn (v.437),
[17] gevnoio oi|o~ ejssiv" (Pitica II  v. 72),
[18] Ossimoro è formato da ojxuv~, “acuto” e mw`ro~, “ottuso”. Talora il matto, lo scemo del villaggio, appare tale ai più, mentre di fatto è geniale. A volte addirittura il pazzo si finge tale per dissimulare la sua intelligenza, inquietante per i veri stupidi e pericolosa per lui.  Livio racconta  che Bruto aveva portato in dono ad Apollo una verga d'oro inclusa in un bastone di corniolo con un incavo fatto a questo scopo, recando un’ immagine enigmatica del suo carattere:"aureum baculum inclusum cornĕo cavato ad id baculo tulisse donum Apollini dicitur, per ambagem effigiem ingenii sui" (I, 56). 
[19] Ognuno di noi, secondo il mito di Er, prima di tornare sulla terra, si sceglie il proprio demone- destino. Che poi secondo Eraclito coincide con il carattere: h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn (fr. 119 Diels-Kranz).
Platone,  alla fine della Repubblica  (617 e) fa dire a Lachesi, la vergine figlia di Ananche:"oujc uJma'" daivmwn lhvxetai, ajll& uJmei'" daivmona aiJrhvsesqe", non sarà il demone a sorteggiare voi, bensì voi a scegliere il demone.
[20]Seneca (4 ca a. C.-65 d. C.), Ep. , 88, 2
[21] Seneca, Ep., 37, 4.  
[22] L’idiota, cap. VI.
[23]Il necessario non mi ferisce; amor fati è la mia intima natura, das ist  meine innerste Natur ” F. Nietzsche, Ecce homo (del 1888), Il caso Wagner,  p. 92.

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