Il dittatore è ostile allo sviluppo delle intelligenze come
raccontano Erodoto e Tito Livio
“Programmi e strutture concepiti da Gentile e Lombardo
Radice, raccogliendo per verità le istanze di gruppi liberali e socialisti
dell’anteguerra, furono smantellati. Fu cassato in particolare il programma di
Lombardo Radice per le elementari, che delineava un’educazione linguistica
volta ad assumere a suo carico lo sviluppo di tutte le capacità espressive dei
bambini muovendo da quelle realtà idiomatiche e culturali locali, municipali,
che erano la vita loro e del loro ambiente, e portandoli per mano,
progressivamente, alla conquista delle forme scritte e italiane di
linguaggio”. Ci fu una fioritura di
“manualetti” che portavano nella scuola un confronto sistematico tra i dialetti
e la lingua, “ma alla fine degli anni Venti furono messi da parte e sostituiti
dal libro di testo unico, con cui si pretendeva di insegnare l’italiano allo
stesso modo in centri grandi e piccoli, al Nord e al Sud, a Milano e a Licata,
a Napoli e a Nichelino” (p. 23).
Mi viene in mente, per analogia, il modo più usuale di
insegnare la lingua latina nei licei classici da parte della maggioranza dei
miei colleghi fino a poco tempo fa, che io sappia, cioè fino a quando, nel
2010, sono andato in pensione: si facevano imparare a memoria morfologia e
sintassi tratte quasi esclusivamente da Cicerone e si leggevano pochissimi
testi.
Cito a questo proposito alcune parole, che condivido, di don
Lorenzo Milani: "Qualcuno, chissà chi, v'ha scritto perfino una
grammatica. Ma è una truffa volgare. A ogni regola ci vorrebbe la data e la regione
dove si diceva così"
.
Ricordo che nel 1959, quando facevo la quarta ginnasio al Terenzio Mamiani di Pesaro, venne in classe il preside e mi
domandò, con aria severa, come si dicesse "fato" in latino. Voleva
sapere, disse, se meritavo il nove che
aveva appena letto nella mia pagella.
Risposi
"fatus". Quel brav'uomo
disse che l'avevo deluso, che con i miei
voti avrei dovuto sapere che si dice
fatum.
Ci restai molto male, pensando di avere fatto un errore gravissimo, del tutto
indegno di me e del mio curriculum. In effetti se fossi
stato più bravo, avrei replicato che nel
Satyricon si trova
fatus.
Credo che le cosiddette regole grammaticali e sintattiche andrebbero
mostrate attraverso i testi più belli degli autori più bravi siccome la bellezza
e la bravura colpiscono la sfera emotiva e questa potenzia la memoria favorendo
il ricordo.
Ma torniamo alla Storia
linguistica dell'Italia repubblicana.
"Rimossi i due non
ortodossi, le spese per l'istruzione restarono bloccate ai livelli del periodo
bellico per tutto il ventennio della dittatura" (p. 23).
Inoltre il fascismo teneva nascosti i dati sull'analfabetismo
"perché ammettere l'esistenza di analfabeti non era compatibile con la
retorica fascista, e impose che "nelle aree rurali" si potesse fare a
meno della licenza elementare e si fosse prosciolti dall'obbligo scolastico
dopo solo tre anni di scuola". Di fatto gran parte della popolazione
viveva nelle aree rurali , e, anzi, "il 27% del totale, vivevano fuori da
ogni centro abitato, in case sparse tra monti e campagne".
Per giunta, a chi andava a scuola si imponeva una lingua sterotipata,
piena dei luoghi comuni e della retorica del regime.
Molto di questa scuola era rimasto
nella elementare dei primi anni
Cinquanta da me frequentata.
Il regime fascista oltretutto discriminava le minoranze linguistiche e
relegava gli zingari nei campi di concentramento.
"Nel 1951 il primo censimento dell'Italia repubblicana rivelò
crudamente quale era il lascito scolastico del passato regime, ma anche, occorre
dire, il lascito della lunga incuria dello Stato unitario per l'istruzione di
base, un'incuria non sufficientemente corretta nel breve periodo
giolittiano" (p. 24).
Seguono i risultati del censimento: alla licenza elementare era
arrivato il 30, 6% della popolazione; il 5, 9 aveva raggiunto un diploma di
scuola media inferiore, il 3, 3% di
scuola superiore, l'1% era arrivato all'università "e solo meno di uno
ogni cento laureati, dunque meno di uno ogni mille abitanti, aveva una laurea
scientifica" (p. 24).
Aggiungo di mio che negli anni precedenti non c'era stata un'arte diretta a educare e istruire il popolo
come, per fare un'esempio, la tragedia nell'Atene del V secolo a. C. La
mancanza di libertà di parola e l'opportunismo suggerivano a chi parlava e
scriveva di raccomandare il consenso con
il regime o di rifugiarsi nel culto dei propri sentimenti privati, come sempre
accade quando c'è la tirannide.
De Mauro nota che "già allora gli altri paesi europei avevano
indici complessivi superiori, talora di molto".
In Italia è tuttora molto difficile prendere l'ascensore sociale.
Questo è un motivo per cui molti giovani vanno all'estero a cercare lavoro e
riconoscimento delle loro capacità, e forse anche del fatto che pochi si
impegnano nello studio. La piaga delle raccomandazioni, che risale al
clentelismo dell'antica Roma, annienta o riduce di molto il riconoscimento del
merito. Questa riflessione è relativa a quanto ho potuto vedere negli anni
universitari e nei successivi.
Vediamo la conclusione di questo paragrafo relativo alla bassa
scolarità
"La dichiarata totale assenza di ogni capacità alfabetica del 13%
almeno della popolazione, spinta fino all'incapacità di tracciare la propria
firma all'atto del matrimonio, la mancata scolarità elementare del 60%,
l'esiguità della pattuglia avventuratasi oltre le elementari (10%), la povertà
di lauree, e in particolare di lauree in materie scientifiche, erano deficienze
gravide anche di altri effetti negativi, di cui poi si dirà. Ma certo avevano
un peso determinane sulle complessive condizioni linguistiche del paese, nel
senso di contribuire in modo rilevante a non modificare gli assetti più
antichi, le più remote differenziazioni tra aree e classi sociali" (Storia linguistica dell'Italia repubblicana, p. 25).
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