lunedì 4 dicembre 2017

Lucrezio, "De rerum natura". IV libro. parte 2


Spiegherò come il sonno diffonda la quiete con pochi versi soavi, potius quam multis versibus (909) come la musica del cigno è più gradevole dello schiamazzo delle gru sparso tra le nubi piovose dell’austro, vento del sud di solito imbricus.
“Parvus ut est cycni melior canor, ille gruum quam/ clamor 910,
Il sonno si produce quando la vis animae è dispersa per le membra, in parte ne esce e in parte è compressa nel profondo. Allora le membra si rilassano e si abbandonano. L’anima è quasi espulsa e perturbata ( scompigliata). E’ come il fuoco sotto la cenere. Tu fac ne ventis verba profundam (931), Il corpo, fuori e dentro, viene flagellato e percosso dall’aria e l’anima ne risente: in parte viene espulsa all’esterno, in parte affonda all’interno. Allora gli arti perdono il sostegno e debile fit corpus lannguescuntque omnia membra (951) cadono le braccia e le palpebre e i polpacci (poplites) si piegano. Dopo mangiato si sente sonnolenza poiché il cibo fa l’effetto dell’aria.
Nei sogni poi ci compaiono le nostre attività-quibus in rebus multum sumus ante morati- e le cose sulle quali abbiamo indugiato: gli avvocati sognano i processi, induperatores pugnare ac proelia obire (967), i marinai di contendere con i venti io di comporre quest’opera e di indagare la natura.
Freud ricorda questi versi nella Interpretazione dei sogni (p. 29). le
Conserviamo nell’animo aperti i varchi attraverso i quali possono ritornare i simulacri di ciò che abbiamo visto. A volte entrano in noi etiam vigilantes (979) anche da desti.
 Fino a tal punto conta molto l’inclinazione e il diletto- “Usque adeo magni refert studium atque voluptas” (984) e le abitudini “et quibus in rebus consuerint esse operati”, a quali attività siano soliti dedicarsi, e non solo gli uomini “non homines solum, sed vero animalia cuncta” (987).
Si vedono cavalli in somnis sudare (988) e quasi gareggiare per la vittoria e i cani dei cacciatori guaire e agitare le zampe e destati, balzare in piedi a inseguire vani simulacri di cervi donec discussis redeant erroribus ad se (996). Molti uomini svelano nel sonno gravi segreti, molti sognano di cadere. L’assetato si ferma presso un corso d’acqua e gli sembra di trangugiare tutto il fiume.
Altri, anche persone pulite, sognano di alzare la veste davanti a una latrina o a vasi da notte e così bagnano e sciupano coltri babilonesi di magnifico splendore-sommo devincti credunt se extollere vestem (1027).
Gli adolescenti se vedono simulacra nuntia preclari vultus pulchrique coloris” (1033), messaggeri di un volto splendido o di un bell’incarnato succede che eiaculino-profundant- fluminis ingentis fluctus vestemque cruentent” (1036). Il seme umano è fatto sgorgare nell’uomo soltanto dal fascino dell’uomo. Bisogna stare attenti a evitare le ferite d’amore. Molti cadono nella ferita dalla quale sprizza il sangue. Chi riceve i colpi dai dardi di Venere qui accipit ictus telis Veneris, sia che lo scagli un fanciullo dalle membra femminee-sive puer membris muliebribus hunc iaculatur” (1053), sia una donna che scaglia amore da tutto il corpo “seu mulier toto iactans e corpore amorem” (1054), il colpito insomma si protende verso la creatura che lo ha ferito unde feritur, eo tendit gestitque coire (1055) e arde di congiungersi e di versare in quel corpo l’umore del proprio.
Infatti la tacita brama presagisce il piacere (Namque voluptatem praesagit muta cupido, 1057).
Lucrezio distingue due tipi di Venus: il sesso è positivo se è necessità fisica, impulso naturale e fonte di piacere; è negativo è invece l’amore in quanto perturbatore ed è insaziabile a differenza dela fame e della sete. Quindi l’amore ostacola gli ideali del saggio di ajtaraxiva, eujstavqeia, stabilità, ajponiva. Con le complicazioni sentimentali che causano turbamento (surgit amari aliquid, 1134), incertezza (fluctuat incertis erroribus, 1077) e sofferenza.

La parte finale del IV libro tratta del sesso
Haec Venus est nobis (1058). Sentite un po’ che cosa è l’amore
 Prima stillano gocce di dolcezza nel cuore, poi subentra la gelida pena –successit frigida cura (1060), soprattutto si abest quod ames e la sua immagine aleggia intorno a te.
 Ma conviene fuggire i fantasmi sed fugitare decet simulacra (1063) e lamciar in casuali amplessi il seme raccolto et iacere umorem collectum in corpora quaeque (1065), nec retinere , semel conversum unius amore, non serbarlo una volta fatto convergere, ammassato per amore di un solo corpo , et servare sibi curam certumque dolorem (1067) e assicurare a sé pena e sicuro dolore.
Chi si sposa cerca un’assicurazione e si assicura soltanto sicuro dolore.


Nel IV libro il poeta latino mostra tutta la penosità dell'amore, quindi ne smonta le cause affermando che gli uomini ingannati dai sensi attribuiscono alle donne pregi di cui le disgraziate sono sprovvedute.
 Il primo consiglio "terapeutico" è quello di confondere le piaghe antiche con le recenti e curare queste con una "Venere vagabonda".
Il termine vulnus , ferita, non basta più e il segno lasciato dall'ansia erotica diviene una piaga che potrebbe diventare mortale se non curata :"Ulcus enim vivescit et inveterascit alendo/inque dies gliscit furor atque aerumna gravescit,/si non prima novis conturbes vulnera plagis/vulgivagaque vagus Venere ante recentia cures/aut alio possis animi traducere motus " (IV, 1068-1072), la piaga infatti si ravviva e si rafforza a nutrirla, la smania cresce di giorno in giorno, e l'angoscia si aggrava, se non confondi le antiche ferite con colpi nuovi, e le recenti non curi prima, vagando con una Venere vagabonda o ad altro oggetto tu non possa trasferire i moti dell'animo.

Lucrezio consiglia di fruire delle gioie di Venere senza innamorarsi, tenendo il piacere sotto il controllo della ratio :" Nec Veneris fructu caret is qui vitat amorem, /sed potius quae sunt sine poena commoda sumit./Nam certe purast sanis magis inde voluptas/quam miseris " (IV, 1073-1076), non rimane senza il frutto di Venere chi schiva l'amore, ma piuttosto ne prende i vantaggi senza la pena. Infatti il piacere che viene di lì è più puro per gli equilibrati che per i dissennati.

Comunque Venere quale ipostasi della voluptas è il timone del mondo, come si legge nel proemio e senza la sua presenza non si può nemmeno poetare:"Quae quoniam rerum naturam sola gubernas/nec sine te quicquam dias in luminis oras/exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam,/te sociam studeo scribendis versibus esse/quos ego de rerum natura pangere conor. " (I, 21-24), e siccome tu sei la sola che governi la natura/né senza te alcuna cosa sorge alle luminose spiagge/del sole, né niente si fa di lieto e amabile,/voglio che tu sia compagna allo scrivere i versi/che io cerco di comporre sulla natura.-De rerum natura :" è il titolo dell'opera e rende il Peri; fuvsew" , titolo del poema di Empedocle e dell'opera fondamentale, oggi perduta, di Epicuro (in ben 37 libri)"[1].
Il lepos , il fascino di Venere è necessario anche ai versi del poeta perché vengano letti:" Quo magis aeternum da dictis, diva, leporem " (I, 28), tanto più concedi, o dea, fascino eterno alle parole.
Il proemio però, si è detto, è "fuoritesto", ossia alquanto anomalo rispetto all'insieme del poema.

Qui nel IV canto l'autore precisa che bisogna mangiare la piacevole esca senza essere presi dall'amo cui rimangono attaccati i miseri, dibattendosi in convulsioni atroci.
Daa Catullo in avanti miser è la vittima della passione amorosa che è una forma di insania e, secondo Lucrezio, può essere spiegata, contrastata e annullata dalla ragione.

Molti autori moderni invece ci hanno chiarito che la ragione non arriva a spiegare tutto, e tra gli enigmi irrisolvibili c'è il grande mistero dell'amore. Un fine osservatore di questo miracolo è Proust:"per tutti gli avvenimenti che nella vita e nelle sue contrastate situazioni riguardano l'amore, la miglior cosa è non cercare di comprendere, perché in quello che essi hanno sia d'inesorabile come d'insperato sembrano retti da leggi magiche piuttosto che razionali"[2]. Del resto l'irriducibilità di eros agli schemi angusti dell'intelletto era già stata affermata da Platone, come s'è visto in precedenza.


CONTINUA



[1] Conte, Scriptorium classicum , 5, p. 17.
[2] All'ombra delle fanciulle in fiore, p. 80.

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