sabato 4 gennaio 2014

La scuola corrotta, III capitolo, Seconda parte

la Marmolada
Il progetto del romanzo. Il primo amore: Paloma bianca. La gara di corsa. La vittoria non ricompensata

La mattina del 15 marzo, appena sveglio, cominciai a meditare.
Era domenica: ne avevo tutto il tempo, anche troppo. Dopo due
anni, quattro mesi e mezzo, quello era il primo giorno non
lavorativo che avrei passato a Bologna senza vedere né sentire
Ifigenia, con ogni probabilità. Mi ero talmente abituato a
vivere con lei e per lei, a ricevere le sue visite, le telefonate, le
richieste, che se davvero non l'avessi più vista, ascoltata, potuta
aiutare, avrei sentito il vuoto e il nulla. La mia decantata vitalità,
che l'amica Antonia aveva definito "faustiana", invero dipendeva
quasi tutta da quella ragazza. Eppure, sparita lei fisicamente,
dovevo leggere più di prima, correre gli stadi più di prima, in
tempi migliori; dovevo pedalare non solo su per il Monte delle
formiche, il Grappa e il Pordoi, ma scalare pure il Gavia e lo Stelvio. E
scrivere un capolavoro dovevo. Un epos grandioso, un romanzo
con la visione, diurna e notturna, realistica e onirica, di un'epoca
intera. Non avrei sprecato, con il vizio e nell'ozio, il talento che la
ragazza splendidissima aveva riconosciuto in me; non avrei sciupato
nell'inerzia, stando seduto a mangiare, o steso a boccheggiare, il
fisico che a lei una volta piaceva, e forse le sarebbe piaciuto di
nuovo se non l'avessi lasciato andare in malora. Non avrei mai
abiurato il culto della
santa bellezza rivelata e consacrata
dall'amore di quella giovane donna. Non mi sarei più
abbassato a tresche con femmine deformi e cretine. L'amore di
Ifigenia era il culmine della mia vita: di lassù potevo
osservarla intera, comprenderla, e raccontarne le quintessenze che
riguardano tutti. Avrei scritto una grande storia d'amore partendo
dalle emozioni di bambino per le bambine coetanee, poi, di
femmina umana in femmina umana, sarei arrivato al 14 marzo del
1981.

Il ricordo più antico risaliva all'estate del '55: avevo undici anni
non ancora compiuti,  mi trovavo a Moena. Mi impressionò
fortemente una citta[1] bruna bruna, snella, vivace, vestita sempre di
bianco. La vedevo affacciata a una finestra: abitava sotto di me nella villetta di via Damiano Chiesa.
Non conoscevo il suo nome. La sentivo cantare qualche cosa su
una paloma bianca come la neve. La pensavo quale colomba di
due colori: candido, come l’uccello della canzone e il vestito che indossava con eleganza, nero come i suoi
capelli lunghi e lisci. Fu il primo anno che a Moena non passai le
mattine aspettando, per lo più invano, la posta della mamma.
Impiegavo il tempo cercando un'occasione
per
conoscere la fanciullina preziosa e parlarle. Un giorno avvicinai
suo fratello, un bambino di sei o sette anni. Lo invitai a giocare, e
quando la madre, una donna di occhi e di capelli nerissimi [2], lo

chiamò in casa, gli chiesi se potessi salire anche io. Disse di sì;
anzi ne fu contento poiché un bambino più grande lo degnava della sua
compagnia. Con questo stratagemma da Ulisse entrai nel loro
appartamento. La ragazzina però purtroppo non c'era, e, quando
giunse, non mi rivolse lo sguardo. Nemmeno mi salutà. Ci rimasi male assai, ma non
desistetti.
Qualche giorno dopo, verso la fine dell'estate, mi accorsi con
strazio che in quell'amore per niente contraccambiato avevo pure un
rivale: un ragazzotto di 13-14 anni che abitava al primo piano
della nostra casa. Li osservavo dalla finestra: parlavano volentieri quei due,
senza nascondere qualche complicità. Dovevo superare lui agli
occhi di lei, ma ero piccolo io, minuto e malvestito. Quello era grande,
grossolano,  e  anche
un po' prepotente: qualche volta
prendeva a calci i bidoni della spazzatura o le cataste di legna e
gridava. Sembrava un adulto rozzo, quasi bestiale. Cosa potevo
fare contro tale ciclope?
Un pomeriggio, mentre uscivo da casa, li vidi sorridersi davanti al
portone. Mi venne in mente un'astuzia da condannato a morte[3] .

Mi avvicinai, chiesi se sapevano l'ora, feci una o due osservazioni
insignificanti, quindi sfidai quel Polifemo a una gara di corsa lì
davanti: in via Damiano Chiesa, poi in mezzo al campo dei cavoli,
delle patate in fiore, e delle farfalle bianche. Volevo mettere in
lizza la mia agilità alata  contro la brutalità greve di quell’individuo. Il privo di ali non poté rifiutare.
Mentre si parlava dei termini della sfida, feci in modo che si
avvicinassero e volessero partecipare altri ragazzini del rione,
villeggianti e moenesi. Flavio, "lo strullo", fu proclamato giudice.
Bisognava correre per un chilometro circa. Paloma osservava  i
piccoli maschi  agonisti stabilire le regole e spiegarle a Flavio che
sorrideva a tutti e augurava la vittoria a ciascuno. La guardavo di
sfuggita: mi sembrò molto pallida, e più bruna, più bella che mai.
Speravo che fosse in apprensione, se non per me, almeno per il
risultato. I capelli li aveva nerissimi, come la madre sua e la mia, gli occhi

azzurri e belli come li avevo visti solo nel viso di mia madre; i bambini del resto non danno agli occhi
l'importanza dovuta: trovano maggiore significazione nel naso,
nelle guance, nelle labbra, e, appunto nelle chiome; forse perché
sono parti più concrete, afferrabili, accarezzabili. Da me per altro toccate
soprattutto nei pensieri e nei sogni, poiché nemmeno la mamma mia  si lasciava accarezzare facilmente.
La trovavo così attraente che ne tremavo, sia
vedendola al brillare del sole, sia ricordandola alla lume della
luna. Speravo di rendermi degno di tanto splendore vincendo la
competizione che avevo voluto. Pensavo che se mi avesse
approvato, avrei potuto
gettarmi dentro i crepacci della
Marmolada senza farmi un graffio. Le ali mi sarebbero cresciute . Né le
vipere che mi terrorizzavano avrebbero potuto nuocermi, né i lupi
dei boschi, né i preti arcigni mi avrebbero inibito, né le zie severe,
proprio nessuno. E della posta che non arrivava, non mi
importava un fico. Finalmente avevo trovato una ragione per non
soffrire dell'amore non abbastanza contraccambiato dalla
mamma mia fin  troppo amata.
L'interessamento di Paloma dovevo meritarlo. Sapevo
che nessuno ammira nessuno per niente, e sapevo pure di valere
qualche cosa correndo a piedi e in bicicletta. A Pesaro vincevo tutte le gare.
In casa e a scuola  mi ammiravano perché ero bravo a scuola, per strada gli altri bambini mi stimavano siccome ero il più veloce. Senza queste capacità sarei stato oggetto di compassione o disprezzo.
In fondo da allora poco è cambiato,
sebbene siano passati decenni. Il tempo infatti non è reale, e l'arte
deve svelarne l'apparenza illusoria. Esso porta a ciascuno la
formazione della  sua identità che si viene scoprendo e
consolidando negli anni. Finché l'uomo muore e poi, forse, come
affermano molti saggi, l'opera ricomincia, o continua a crescere  in
forma diversa.

Flavio dunque diede il via. Partimmo in una decina. Il mio rivale
in amore correva davanti a tutti: si era piazzato
in prima
posizione, sgomitando e facendo valere la mole. Girammo intorno alla fontana del Turco,  quindi infilammo lo
stretto sentiero che attraversava l'orto, in fila indiana: io seguivo
l' antagonista come un ombra, poiché  l'avversario da battere era
lui. Gli altri infatti rimasero presto staccati. Nemmeno quel
grossolano era portato alla corsa del resto: quando sbucammo  in via
Damiano Chiesa sentii che ansimava molto più in fretta di me, e lo
superai senza difficoltà. Anzi, allungai pure un poco il percorso,
per stare alla larga dalle  mani  di quella creatura tellurica che infatti allungò  prima i suoi artigli spietati per
trattenermi, poi una gamba massiccia per farmi cadere e  grattare il petto esile nella dura terra sassosa. 

Ma non riuscì ad acchiapparmi. Sicché tagliai il traguardo per
primo. Flavio esultava, Paloma per niente. Se fosse stata meno
stupida e vana, quella brunetta avrebbe compreso chi era tra noi
due il più capace, poiché avevo inventato e voluto la gara, poi l’avevo vinta; chi il più
onesto, siccome non avevo imbrogliato; chi nella vita avrebbe
combinato qualche cosa di egregio se ero stato io, piccolo, minuto,
 e silenzioso,
a prevalere su una schiera di ragazzini chiassosi e inconcludenti.
Non osai avvicinarmi a lei: speravo che venisse  a
dirmi qualche cosa. Almeno:"bravo! Come ti chiami? Di dove
sei?"
Le avrei risposto:"Mi chiamo Giannetto, sono di Pesaro, l'ho fatto
per te. Chiedimi cose più difficili, molto più difficili: per te tirerò
giù le stelle dal cielo". Credo che se mi avesse rivolto un sorriso,
quel giorno mi avrebbe commosso più che se oggi mi sorridesse
l'intero universo, o dio stesso. Invece andò dallo sconfitto, e con
un'espressione radiosa, fine, che contrastava con il ceffo sudato di
quel gaglioffo, disse senza ironia:"Bravo, siamo arrivati secondi".
Smisi  di adorare Paloma, però mi accade ancora di ricordare il
volto bianco incorniciato dai capelli neri di lei, quando per Pasqua vado a Moena e osservo la
luna alzarsi dagli alberi scuri di una tacita selva.
Partendo da quell'icona bruna dunque sarei arrivato all'immagine
di Ifigenia che mi aveva lasciato la sera prima.

giovanni ghiselli

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[1] Toscanismo per bambina, usato a casa mia anche per designare mia sorella Margherita.
[2] Cfr. Leopardi, Operette moraliDialogo della Natura e di un islandese
[3] Cfr. M. Proust, Dalla parte di Swann, trad. it. Einaudi, Torino, 1978, p.32.

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