sabato 25 gennaio 2014

"Sostiene Pereira". Il libro di Tabucchi e il film di Faenza






Tabucchi nel suo libro più noto, Sostiene Pereira (Feltrinelli, 1994)
ci insegna che l’intellettuale, lo scrittore, l’artista non possono sottrarsi all’impegno politico che è anche impegno morale.
Roberto Faenza ne ha tratto un film con lo stesso titolo del romanzo, un film molto bello,  che Rai Tre ha riproposto mesi fa, subito dopo la morte dello scrittore.
Il romanzo e la sua trasposizione cinematografica dovrebbero rammentare a tutti noi, quanti studiamo, insegniamo, scriviamo, che la cultura non può essere neutrale e che l’uomo portatore di cultura e di paideia, che è educazione degli uomini, deve schierarsi, e non da una parte qualunque, ma da quella dei deboli oppressi dal potere.
Leggo in una lettera di Tabucchi a Paolo di Paolo: “Essere scrittore non vuol dire solo maneggiare le parole. Significa soprattutto stare attenti alla realtà circostante, alle persone, agli altri”. Tanti scarabocchiatori libreschi, avidamente chini sul becchime delle loro gabbie, discettano intorno al proprio ombelico, come se fosse il centro del mondo. Se esprimono un dissenso, questo è solo retorico, mai veramente scomodo verso chi riempie di cibo le loro gabbie, greppie e pance. Schopenhauer definiva “boschēmata” simili intellettuali e professori. Una parola greca, non tedesca, e significa bestiame, bestiame che si pasce.
Facciamo un breve excursus su altri autori che hanno trattato il problema.
Il grande storiografo Tucidide, colui che ha identificato la storia con la politica e ha indicato per primo, coraggiosamente, “la verità effettuale” di uomini e cose, aprendo la strada a Polibio, Tacito e Machiavelli, ha ricordato un  discorso pubblico di Pericle, il famoso lógos epitáfios, nel quale il grande statista disse che gli Ateniesi consideravano non pacifico, ma inutile il cittadino che non si occupa di politica, ossia della vita della polis.    
 Thomas Mann sostiene che l’artista vive una vita simbolica, di rappresentanza, come il principe regnante. Lo scrittore, come il re, deve negare a se stesso la banalità del comune borghese per esprimersi solo in maniera simbolica. Chi scrive, ha il dovere, come insegnano il romanzo di Tabucchi e il film di Faenza, di rischiare, di dare un esempio, di mettere in gioco perfino la propria vita. Del resto Pereira mettendo a repentaglio la vita fiacca e dimidiata che viveva, vince la posta e ritrova intera la propria forza vitale: quella di scrittore, di uomo, di intellettuale. Il rischio talora è bello. Lo ha scritto Platone[1].
 Pasolini ha previsto la propria morte violenta quando ha scritto che" il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi-proprio per il modo in cui è fatto-dalla possibilità di avere prove e indizi"[2]. Infatti nello stesso articolo del “Corriere della sera” del 14 novembre 1974, scriveva anche: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina anche fatti lontani, che mette insieme pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia, il mistero”. Certamente la sua morte obbedisce a una logica, una logica perversa e criminale, ma pur sempre una logica.
Pasolini fa parte del gruppo degli scrittori martiri, eliminati dal potere. Pereira invece riesce a cavarsela, e senza demerito. Il film di Faenza nelle ultime inquadrature mostra lo scrittore di Lisbona che rivitalizzato dalla scelta politica e morale compiuta, si allontana dal suo paese oppresso dalla dittatura di Salazar. Continuerà a scrivere politicamente altrove. Di Pier Paolo Pasolini sappiamo tutti come è andato a finire e perché. Comunque continua a essere letto, e molto più dei pennivendoli che pascolano sempre foraggiati dal regime.
Il potere tollera il dissenso solo se questo è retorico, o ambiguo, comunque non scomodo, talora anzi tale fronda è perfino indirettamente funzionale a chi comanda davvero. Si pensi al finto dissenso dei Fazio e di altri sorridenti prosseneti del genere, pagati a suon di milioni di euro oltretutto.
La chiacchiera degli imbonitori televisivi per lo più  è fatta di vuoto: arzigogoli e ghirigori che non dicono nulla e  offuscano con la loro verbosità perfino le verità più comuni e più comprensibili, mentre il discorso della verità è semplice, e quanto è conforme a giustizia non ha bisogno di interpretazioni ricamate.

 Voglio ricordare alcuni storiografi martiri fatti fuori dal potere imperiale di Roma per il loro dissenso vero. "Del senatore Cremuzio Cordo furono bruciati i libri, per ordine di Seiano, il celebre prefetto del pretorio di Tiberio; ed egli, accusato, s'era lasciato morire di fame. (La sua autodifesa fu un'esaltazione della libertà di pensiero storico)... … Sotto Nerone, il padovano Trasea Peto "la virtù in persona[3]", come lo definì Tacito , si uccise[4] accusato di lesa maestà: aveva scritto una monografia su Catone Uticense. Questi storici capaci di eroismo sapevano benissimo che le loro opere, seppur con varie gradazioni, non solo difendevano l'antico regime, ma in realtà ponevano in questione lo stesso principato"[5].
Ovidio subì un trattamento meno pesante: fu mandato a morire di crepacuore sulle rive remote e desolate del Mar Nero. Eppure il poeta Peligno non aveva messo in discussione il potere di Augusto: si era limitato a una polemica da libertino contro il moralismo ufficiale del regime e dei suoi cantori, compreso il pur grande Virgilio. Tale dissenso limitato a un aspetto del costume fu comunque sufficiente per metterlo al bando.
Ma ora, è già tempo, concludo tornando, doverosamente, al bel libro di Tabucchi. Partiamo dal cognome del protagonista eponimo. In una nota finale l’autore chiarisce che “In portoghese Pereira significa albero del pero, e come tutti i nomi degli alberi da frutto, è un cognome di origine ebraica, così come in Italia i cognomi di origine ebraica sono nomi di città”. E aggiunge: “Con questo volli rendere omaggio a un popolo che ha lasciato una grande traccia nella civiltà portoghese e che ha subito le grandi ingiustizie della Storia”. La lettura del libro in effetti suscita simpatia per tutti i perseguitati, per ogni uomo che subisce ingiustizia, e insegna il dovere dell’impegno di ogni persona onesta in loro favore. Ma vediamo alcuni punti cruciali del romanzo. All’inizio, siamo nell’estate del 1938, Pereira è un letterato senescente, grasso, stanco, malato di cuore e di spirito. Dirige la pagina culturale di un piccolo giornale del pomeriggio, traduce romanzi francesi, e vive di ricordi. Soprattutto di quello della moglie morta di tisi.
Ma poi fa degli incontri, con due ragazzi che “gli curano l’anima”, come facevano i bambini con l’Idiota di Dostoevskij. Più tardi conosce un dottore che lo incoraggia a una dieta e, soprattutto, lo aiuta a prendere coscienza di se stesso, a diventare quello che è: un uomo buono e intelligente, capace di staccarsi da quel suo vivere nel passato, un vivere ozioso, inutile, impolitico insomma. Il medico esorta a non trascurare quelle ragioni del cuore che i due giovani dissidenti e oppositori del regime filofascista di Salazar hanno messo in moto, chiedendogli aiuto. La stessa letteratura, se è buona, ci dà  stimoli  verso una vita attiva, impegnata e impiegata per il prossimo. Più della filosofia, suggerisce Tabucchi: a Pereira, mentre dialogava con il giovane Monteiro Rossi che “di solito parlava di filosofia… venne in mente una frase che gli diceva sempre suo zio, che era un letterato fallito, e la pronunciò. Disse: la filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità”. E’ un’espressione di quella antica ruggine[6] tra filosofi e poeti ricordata dal Socrate di Platone o avvertita dall’Ulrich di Musil[7].
Pereira fa un altro incontro che lo spinge verso il disseppellimento della propria identità, inumata sotto ricordi e rimpianti, e coperta dalla vegetazione di questi vani pascoli degli spiriti disoccupati. Si tratta di una signora con una gamba di legno, una ebrea-tedesca di origine portoghese, una cosmopolita dunque, incontrata in treno, che lo mette di fronte ai suoi doveri: “lei è un intellettuale, dica quello che sta succedendo in Europa, esprima il suo libero pensiero, insomma faccia qualcosa”. Pereira replica che lui non è Thomas Mann, ma la donna lo incalza: “Capisco, ma forse tutto si può fare, basta averne la volontà”. La volontà di Pereira si rafforza negli incontro con i giovani, Monteiro e Martha. La visione della ragazza, della sua “bella silhouette che si stagliava nel sole” contribuisce alla salute psicologica e fisica del letterato senescente.
Segue l’incontro in treno, poi l’intesa e l’amicizia con un medico della clinica talassoterapica dove Pereira va a curarsi. Il giovane dottor Cardoso,  che si diletta di letteratura francese e di psicologia, gli parla dell’evento, un avvenimento imprevisto “che si produce nella vita reale e sconvolge la vita psichica”.  
Tali incontri fanno parte di quegli avvenimenti  accidentali di cui parla Lucrezio .
 Gli eventa non sono qualità congiunte ai corpi (coniuncta), come il rosso del sangue per esempio, ma sono accidenti che comunque influiscono sulla nostra vita. Lucrezio enumera alcuni di questi eventa: la schiavitù, la povertà, la ricchezza, la libertà, la guerra la concordia. Gli eventi di Pereira sono questi dialoghi con persone significative, che lo colpiscono, cui presta attenzione. Il dottore gli insegna pure che dentro di noi c’è “una confederazione di anime e che ogni tanto c’è un io egemone che prende la guida della confederazione”.

Pereira un poco alla volta perde peso e prende coscienza del suo nuovo io egemone. Intanto il regime di Salazar diventa sempre più spudorato e feroce. Manda in Spagna, a combattere per Franco,  un battaglione, detto Viriato[8], usurpando il nome del capo dei Lusitani ribelli ai Romani poco dopo la metà del II secolo a. C.
Il fatto risolutivo però è l’assassinio del ragazzo Monteiro Rossi nel quale Pereira vedeva quasi il figlio mancato suo e della moglie morta, con la foto della quale parlava mentre lei lo guardava “con un sorriso lontano”. Se avessero avuto un figlio il vecchio letterato, l’umbraticus doctor, si sarebbe sentito meno solo e meno desolato. Tre tangheri dunque irrompono in casa di Pereira dove si era rifugiato Monteiro e  ammazzano di botte il ragazzo. Quindi intimano al giornalista di non parlare minacciandolo di morte. E’ una sera di fine estate, e il vecchio quella sera dimentica la sua prudenza, le  paure, la sua impoliticità, e concede il potere al nuovo io egemone, coraggioso e battagliero, denunciando l’orribile crimine dei sicari del regime con un articolo di fuoco che riesce a fare stampare e pubblicare con uno stratagemma e con l’aiuto dell’amico Cardoso. Le ragioni del cuore e quelle della testa si erano finalmente riconosciute a vicenda e avevano fatto un’alleanza davvero santa.
Nella scena finale del film di Faenza, Mastroianni-Pereira si avvia rivitalizzato verso la libertà, probabilmente in Francia.
Sono grato a Tabucchi e a Faenza poiché con i loro lavori hanno contribuito ad accrescere la mia vita.
I ganascioni servi del regime invece non li leggo e non li ascolto.

Vediamo ora qualche battuta impiegata nella sceneggiatura del film omonimo di Roberto Faenza
Nelle prime immagini si vede Lisbona che sfavilla in una magnifica giornata d’estate. Pereira era rimasto colpito da un saggio comparso sulla rivista: La morte per comprendere il senso della vita. Firmato Monteiro Rossi. Il giornalista senescente va a dire a un frate che il pensiero della morte gli gira spesso in testa poiché gli pare che tutto il mondo sia morto o per lo meno in procinto di morire.
Mastroianni appare vecchio, stanco e malato, quantum mutatus ab illo che vedemmo nella Dolce vita di Fellini!
Il senso della morte si è già impossessato di lui, e la morte stessa gli è vicina. Dice poi al religioso, restio ad ascoltarlo, di non credere nella resurrezione della carne.  Il sui credo in questa prima parte è la separazione tra letteratura e politica: “noi non vogliamo occuparci di politica”.
Il ragazzo Monteiro autore dell’articolo però muove e scuote qualche cosa nell’anima intorpidita dell’anziano redattore. A quel giovane interessa la vita, non la morte. Pereira intuisce che da quel ragazzo può ricevere scosse benefiche e decide di aiutarlo, pur avvisandolo e premettendogli: “io mi occupo soltanto di letteratura”. Gli offre quindi una collaborazione con la sua pagina letteraria. Monteiro allora scrive un coccodrillo su D’Annunzio dandogli del fanfarone, del fascista, del razzista che ha esaltato le sanguinose campagne coloniali. Pereira si prende paura e si mostra scandalizzato da tanta audace parzialità. Cerca addirittura di imbastire un’ improbabile apologia del vate del fascismo italiano che sta combattendo al fianco di Franco e dei volontari portoghesi.
Il giovane allora gli chiede: “e le sembra giusto?”
E Pereira: “Non lo so e non voglio saperlo”,
Tale rinuncia a prendere una posizione è stampata con grossi caratteri nel corpo e nella faccia dell’uomo grasso, sudato, quasi unto di sudore grasso.
Mastroianni è molto bravo ad assumere espressioni prive di vita vivace.
Infatti aggiunge: “io voglio solo un necrologio!”.
Il ragazzo allora gli dice: “in verità io ho seguito solo le ragioni del cuore!”
Il vecchio appare colpito da questa frase, e pensa: “le ragioni del cuore portano seri inconvenienti”, ma non esterna questo pensiero, e invece dice: “le ragioni del cuore sono le più importanti, ma bisogna trovare un equilibrio con gli occhi ben aperti”.
Pereira è un uomo solo, sensibile, chiuso in se stesso da tanto tempo.
Parla con la foto della moglie morta di tisi anni prima e le descrive il ragazzo come figliolo che avrebbero potuto avere loro due. Si immagina pure che il giovane gli assomigli. Nel condominio dove abita c’è una portiera che tende a controllarlo e minacciarlo, preoccupandolo e irritandolo.
Monteiro che ha avuto degli anticipi grazie al buon cuore di Pereira, gli presenta un altro articolo, questa volta un necrologio elogiativo di Majkoskij che si è suicidato.
Pereira non può accettare nemmeno questo in quanto “Majlkoskij è un sovversivo!”
Il giornalista si mette in viaggio e in treno incontra una donna ebrea che legge Thomas Mann e prova orrore per il dilagare del fascismo in Europa.
Pereira dice che la situazione non piace nemmeno a lui.
Allora la donna lo incoraggia a fare qualcosa, a fare sentire che non è d’accordo a scrivere delle denunce.
Pereira fa: “io non sono Thomas Mann”.
E la donna: “tutto si può fare, basta avere la volontà”.
Quando Pereira arriva, va a prenderlo un amico che gli dice: “alla nostra età, se uno ha un po’ di cervello fa meglio a godersi la vita”.
Ma il vecchio giornalista non si trova a suo agio nel luogo di vacanza dove si è recato e dove incontra il suo direttore dallo stile nello stesso tempo prepotente e servile. Sicché torna quasi subito a Lisbona.
La vita a Lisbona peggiora. Un negozio di ebrei viene assalito
Ci sono soldati dappertutto. Il Portogallo è una prigione.
Un cugino di Monteiro deve nascondersi e cerca rifugio
Pereira dice “io non parteggio”, ma lo aiuta.
La ragazza di Monteiro lo invita a schierarsi dalla parte giusta, ma Pereira dice: “io non sono né dei vostri né dei loro”.
Pereira parte di nuovo per curarsi e Marta va a salutarlo alla stazione. Il giornalista è imbarazzato, teme  la repressione fascista: dice che Marx ed Engels non sono tra le sue letture preferite. La ragazza gli dice che loro sono per la libertà e per questo lui dovrebbe essere con lei e con i suoi amici
E lui: “io non sono né dei vostri né dei loro e del resto non so chi siano i vostri”.
Vuole rimanere chiuso nella sua gabbia di ricordi, di letture, di scarabocchiature che non cambiano niente.
Dice di essere contento per essere passato dalla cronaca alla letteratura.
Marta risponde: “noi non facciamo la cronaca ma la storia”.
Allora Pereira, sempre più evasivo; “la storia è una parola grossa; io adesso devo partire, non mi segua e non mi cerchi più”
In viaggio parla con la foto della moglie,
Arriva in una spiaggia fosca e triste. Nuota con grande fatica.
Poi incontra il dottor Cardoso che deve curarlo. Gli dice che ha un’insufficienza coronaria. E’ un simbolo dell’insufficienza della sua vita.
Il dottore, molto snello, chiede al paziente quando è cominciata la pinguedine. “Dalla morte di mia moglie”, L’uomo da allora ha tratto qualche malsana soddisfazione da dieci limonate al giorno cariche di zucchero,
“Da oggi acqua minerale non gassata” prescrive il medico.
Il rapporto con il cibo è sempre indicativo dell’ordine o del disordine mentale.
Il terapeuta si prende a cuore il paziente e gli fa domande sull’attività sessuale, inesistente, mettendolo in imbarazzo. Pereira non ha la presenza di spirito di rispondere come fece Sofocle.

Platone rappresenta Sofocle come un vecchio[9] pentito del sesso: Cefalo riferisce di essere stato presente quando un tale  domandò al poeta di Colono: "pw'"... e[cei" pro;" tajfrodivsia; e[ti oi|ov" te ei\ gunaiki; suggivgnesqai;",  come ti va nelle cose d'amore? sei ancora capace di congiungerti con una donna?
 Quindi il tragediografo  rispose: "eujfhvmei w\ a[nqrwpe: aJsmenevstata mevntoi aujto; ajpevfugon,  w{sper luttw'ntav tina kai; a[grion despovthn ajpodrav"" (Repubblica , 329c), sta' zitto tu, infatti con grandissima gioia me ne sono liberato, come se fossi fuggito da un padrone furente e selvaggio.
Catone il Vecchio nel De senectute  di Cicerone: "Bene Sophocles, cum ex eo quidam iam affecto aetate quaereret utereturne rebus veneriis: "Di meliora! inquit; libenter vero istinc sicut ab domino agresti ac furioso profugi" (14), opportunamente Sofocle quando, già vecchio e fiaccato dagli anni, un tale gli chiedeva se facesse ancora del sesso, disse: dio ne scampi, volentieri invero sono scappato di lì come da un padrone selvaggio e furioso!  

Per quanto riguarda i suoi sogni, Pereira dice che la sua visione notturna frequente è quella della spiaggia dove ha conosciuto la moglie e ha passato il tempo più bello della sua vita.
Sta traducendo un racconto di Balzac sul pentimento che lo coinvolge perché anche lui sente di avere qualche cosa di cui pentirsi.
L’evento nuovo della sua vita è che ha conosciuto “due poveri ragazzi romantici, senza futuro”. Il ragazzo scrive necrologi da un punto di vista politico. Questo evento lo ha messo in crisi: “se loro avessero ragione, la mia vita non avrebbe più senso. Io ho sempre creduto che la letteratura fosse la cosa più importante”.
Pereira non ha capito che la letteratura nasce dalla vita e deve potenziare la vita.
Il dottore espone la teoria dell’anima formata da una confederazione di  anime guidata da un io dominante che nel tempo può cambiare.
Pereira ascolta il dottore, come medico e come amico filosofo, e torna a Lisbona dimagrito di dieci chili,
Poi incontra di nuovo il frate bizzarro. Il religioso è critico verso il Vaticano che appoggia Franco, mentre simpatizza con il clero basco il quale dopo Guernica si è schierato con i repubblicani, Bernanos (Diario di un curato di campagna) ha denunciato i massacri del franchismo.
Dunque la letteratura non è politicamente neutra. Si pensi alle Troiane di Euripide.
Il dottore gli dice che ha bisogno di rompere con il passato.
La polizia era dappertutto e cercava i sovversivi
Il direttore, pieno di anelli come Trimalchione, lo sgrida perché ha tradotto un panegirico della Francia, invece che “della nostra patria e della nostra razza”.
“Ma non esiste una razza portoghese-obietta Pereira. Siamo un miscuglio di Celti, Romani, Arabi, Ebrei”
Torna Monteiro a casa di Pereira con l’epitafio di Garcia Lorca. Dice che i nazionalisti spagnoli gridano “Viva la Muerte!”
 Al giovane invece piace la vita.
Pereira  nasconde in casa il giovane oramai adottato, ma arrivano tre squadristi che lo trovano e lo ammazzano a furia di botte. Questa è la scossa che fa cambiare vita a Pereira.
Scrive un epitaffio per il ragazzo morto che amava la vita. Denuncia i tre turpi individui che lo hanno ammazzato. E con un trucco riesce ad aggirare la censura e a far pubblicare il pezzo in prima pagina.
Se ne va con uno zaino su una spalla e la giacca su un’altra.
Cammina ringiovanito. Mentre procedeva aveva la sensazione che la sua età non gli pesasse più, si sentiva agile e svelto come se fosse tornato un ragazzo. Ripensò a quella spiaggia e alla fragile ragazza che gli aveva dato gli anni migliori della sua vita. Aveva messo la foto di lei nello zaino
Per ricordare meglio ebbe voglia di fare  un sogno bellissimo  a occhi aperti. L’avrebbe raccontato a chi ha narrato questa storia.
Dunque Pereira ha seguito molti consigli del dottor Cardoso, ma non quello di cancellare la memoria del passato

Giovanni ghiselli

 Il blog  http://giovannighiselli.blogspot.it/   è arrivato a 129171

Presenterò il film di Faenza il 27 gennaio nel liceo G. B. Vico di Corsico  (MI))
 il 4 febbraio alle 18, 30 nella biblioteca Scandellara di Bologna


[1] Platone nel Fedone 114d sostiene che  è bello il rischio kalo;~ ga;r oJ kivnduno~ di credere nell’immortalità dell’anima.
[2] Scritti corsari , p. 113.
[3] "Nero virtutem ipsam excindere concupivit interfecto Thrasea Paeto", Annales ,  XVI, 21, Nerone volle uccidere la virtù in persona con l'ammazzare Trasea Peto.
[4] Nel 66 d. C.
[5]S. Mazzarino, Il pensiero storico classico , 3, p. 64.
[6] palaia; mevn ti~ diaforav, Repubblica, 607b.
[7] Egli non era un filosofo. I filosofi sono dei violenti che non dispongono di un esercito e perciò si impadroniscono del mondo rinchiudendolo in un sistema”,  L’uomo senza qualità, p.243.
[8] Cui quidem etiam exercitus nostri imperatoresque cesserunt, davanti al quale si ritirarono perfino i nostri eserciti e i nostri generali,   ricorda Cicerone in De officiis, II, 40. Viriato Morì nel 138 a. C. fatto uccidere a tradimento dal console Servilio Cepione. Salazar avrebbe dovuto assimilarsi più realisticamente agli assassini di Viriato.
[9] La Repubblica di Platone è ambientata al Pireo, in casa del meteco Cefalo, padre di Lisia e Polemarco,  nella primavera del 408 a. C. quando Sofocle (497-406 a. C.) aveva quasi novant'anni. L'episodio raccontato risalirà a qualche tempo prima.

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