domenica 5 gennaio 2014

La scuola corrotta nel paese guasto. III capitolo, quarta parte


Gli appunti La magnifica provocazione. La telefonata del nuovo approccio. Lilì Marlen.

Dalla metà di novembre compare la paura di amare. "I mostri, la peste clericale, i bigotti", pensai. Dicembre ha poche parole su alcuni errori di stile, di intelligenza della ragazza e sull'angoscia che mi avevano inflitto. Alle cinque e tre quarti il sole sbucò dalle nuvole. "Presagio di estate felice?" mi domandai citando il mio dramma. Significherebbe il recupero delle forze vitali intirizzite. Nota assai positiva in data 4 maggio 1979: "Sto accettandola in tutti i suoi aspetti". Un sentimento raro. Durante quegli ultimi giorni felici, raggiungemmo il culmine. Doveva esserci una fusione, o trasfusione, anche mentale. Altrimenti non avremmo fatto l'amore così tante volte, così dappertutto: anche in mezzo ai cespugli quasi spinosi, agli avvallamenti dell'autostrada, poco cupi di giorno e d'estate, nei gabinetti mobili e rumorosi, quasi strepitanti dei treni in corsa. Gli appunti del mese di Debrecen, piuttosto abbondanti, descrivono giorno per giorno la decadenza e la fine. della nostra fantastica intesa. Ne avrei ricavato un lungo episodio, quasi un libro nel libro.

Tali pensieri andavo rimuginando verso il tramonto. A un tratto mi venne in mente un'immagine di Ifigenia, una delle più care, un'icona depositata per sempre in una nicchia dell'anima. Era venuta allo stadio; correva sulla pista davanti a me; indossava una tuta nuova fiammante, azzurra, attillata: un ornamento che metteva in rilievo la perfezione delle sue membra slanciate. Dopo un paio di giri, la radiosa fanciulla volse indietro il viso abbronzato e fece una piccola, mirabile smorfia con cui voleva significarmi la sua stanchezza e chiedermi il permesso di riposarsi; quindi sfoderò un sorriso malizioso, espressivo, da scugnizza meridionale, nello stesso tempo giovanissima e antica. Allora io, siccome volevo abbracciarla subito, lì, sul prato interno alla pista rossa, raccolsi la magnifica provocazione e dissi: "Fermati pure cara: sei tanto stanca tu: non devi affaticarti troppo". Smise di correre subito, si portò sull'erba e vi si posò, ansimante, stremata, ma tutta contenta di avere ottenuto quanto voleva con il suo irresistibile fascino di ragazza un poco barbara e canagliesca. Mi stesi accanto a lei, le accarezzai il volto, le baciai le vene sottili e pulsanti delle tempie sudate, e con le labbra raccolsi l'odoroso stillare del suo corpo fiorente, bello e profumato più di una giornata già quasi estiva, quando i muri pietrosi, i cancelli ferrigni, le reti arrugginite, si ornano di rose rosse, e spruzzi di purpurei papaveri screziano di schiuma sanguigna i flutti del grano che, ancora non biondo e non più verde[1], viene fatto ondeggiare da un vento caldo, pregno di vita.  

Questo ricordavo il 15 marzo dopo il tramonto e, come l'uccello orbato dei figli, rimpiangevo acutamente la creatura dello spirito mio.
"Dio, fai che mi telefoni", pregavo. "Fa’ che chiami lei". Io non potevo. Però avevo una voglia tremenda di farlo. Per resistere, mi dicevo:"obdura. Tu destinatus obdura[2] . Lei ti ha lasciato. Lei deve cercarti. Lo farà: dove lo trova uno migliore? Tornerà, vedrai. Ifigenia è la vita, è la bellezza viva, e ha bisogno di un uomo vivo, entusiasta del bello, capace di valorizzarla. Quell'uomo sei tu. Senza di te andrebbe in rovina, e lo sa. Se tornerà, le darò le ali con le quali volerà sul mare infinito[3] e su tutta la terra, librandosi senza fatica". Però non telefonava. Forse non aveva bisogno di ali. Alle nove, non potendo resistere oltre, telefonai io.
"Ciao Ifigenia, non sto bene senza di te".
"Ciao Gianni. Non è facile neppure per me".
"Allora vediamoci".
"Per fare che cosa?"
"Andiamo a vedere Lilì Marlen - proposi - l'ultimo film di Fassbinder". Mi bastava vederla. "Va bene – accettò - ti aspetto alle dieci".
Cercai di farmi bello il più possibile: volevo piacerle. Contavo sullo sguardo che, sebbene da miope con lenti a contatto, Ifigenia aveva esaltato come potente, impareggiabile e così via. Quella sera infelice doveva essere sensuale, ma non fisso, né ossessivo, né stralunato, bensì mite e vagamente allusivo; caldo ma non pretenzioso, né aggressivo; dolce ma non liquefatto, né mielosamente languido, bensì forte e sicuro di sé. Altrimenti rischiavo il penoso o il ridicolo. Però c'era poco da sbandierare sicurezza, poiché Ifigenia mi aveva lasciato e io l'avevo cercata, quasi contravvenendo a un divieto, e se lei aveva accettato, del resto soltanto un invito al cinema, poteva averlo fatto solo per compassione.
Andai a prenderla con grande patema: non osai toccarla, né parlarle, né guardarla con intensità, a dispetto dei piani. Per fortuna fu lei a incoraggiarmi dicendo che verso le cinque aveva sentito il desiderio di telefonarmi. Ma l'aveva represso per volontà di coerenza.
"Mi avresti reso mirabilmente felice" ribattei, confortato, e le riferii alcuni dei pensieri pullulati dal mio cervello durante questa lunga giornata che sta per finire. Era ora dirai, lettore, e lo dico anche io, ché raccontarla mi è costato fatica e dolore. Ma anche il silenzio è dolore[4] .

Entrammo dunque nel cinema dove proiettavano l'ultima opera del regista caro ad entrambi. Durante il film, che seguivo con attenzione scarsa, a un certo momento le presi la mano sinistra. La ritirò subito e mi gelò dicendo:
"Gianni, dobbiamo pensarci".
"A che cosa?" domandai, cercando di non mostrarmi umiliato.
"A noi - rispose - Prima di rimetterci insieme, dobbiamo capire se ci amiamo davvero".
"D'accordo - feci, mentre mi toccavo i baffi - pensiamoci su".
Ci ero rimasto male assai. Io non dovevo pensarci: ero sicuro che dovevo passare altro tempo con lei per scrivere questo romanzo. Usciti dal cinema, commentammo il film che non ci era piaciuto troppo, nonostante i tocchi di commozione e poesia che in quel regista  non mancano mai. E' la storia di un amore fatto fallire da una società disumana, tanto nel suo aspetto militare e tirannico, quello nazista, quanto nella faccia affarista e borghese. E' la civiltà antiartistica, antiumana, che ha ucciso Fassbinder, Ludwig di Baviera e tanti altri nostri eroi. Gli amanti falliti sono due tendenziali artisti nei quali ognuno di noi riconobbe un poco di se stesso. Però non sembrava che Ifigenia avesse intenzione di riprendere l'amore con me. Mi pareva che pensasse: l’amore una volta caduto a terra non si raccatta, non si riscatta. Si è sporcato, è da buttare via.

giovanni ghiselli

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[1] Cfr. D'Annunzio, La sera fiesolana, 25-26.
[2] Catullo, Carmi,  8, 19. Tu, ostinato, tieni duro.
[3] Cfr. Teognide, Silloge,  vv.237-239.
[4] Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, v. 197-198. "doloroso è per me raccontare queste cose,/ma doloroso è anche tacere, e dappertutto sono le sventure"(vv. 197-198). Due versi questi, usati come epigrafe da Giuseppe Berto per il suo Il male oscuro (1964) che racconta la terapia di una nevrosi: “Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore”.

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