giovedì 2 gennaio 2014

La scuola corrotta nel paese guasto, III capitolo, prima parte

il Corno alle Scale quando c'è neve
foto di M. Roversi
Il lungo rimuginare nel tentativo di dare ordine al caos. La lezione per l'esame di abilitazione  di  Ifigenia e la sua gratitudine. La gita sulla montagna triste del Corno alle scale. Il divorzio con il decalogo.


Il giorno seguente, martedì dieci marzo, di mattina feci lezione
senza potere  impiegare, qualunque esse fossero, le capacità della
mia mente. Perciò il pomeriggio, in casa da solo, avevo bisogno di
riflettere. Indagare sul significato del rapporto con la bella ragazza
che mi stava sfuggendo, era la mia attività mentale più viva.
Sapevo che se volevo raccontare la nostra storia in maniera che
diventasse degna di essere letta, dovevo allenarmi a coglierne
giorno per giorno gli aspetti essenziali e universali.
Se invece lo scopo era riconquistare l'amore di Ifigenia,
bisognava che comprendessi perché l'avevo perduta, e il mezzo
migliore per arrivare all'intelligenza di tanti fatti contraddittori e
confusi, era dare ordine al caos, trarre luce dal fumo[1]. Del resto
capire perché con quella giovane donna avevo fallito, sarebbe stata una
necessità anche nel caso che avessi voluto cambiare compagna; e
in ogni modo la comprensione degli errori fatti nell'opera
erotico-educativa dove avevo impegnato tempo, energie, sentimenti, era
indispensabile per la mia parte pubblica di professore. Quindi, sia
per arrivare al capolavoro atteso da sempre, sia per ricominciare
degnamente con Ifigenia, o, per iniziare
ancora più
degnamente con una non peggiore di lei, sia per educare gli
adolescenti di buona natura, dovevo trovare la causa più vera della
nostra degradazione amorosa e umana.

La ragazza talora incoraggiava il mio  proposito artistico: una sera,
a Moena, dopo avere letto gli appunti che avevo preso nei giorni di
solitudine, più o meno quelli che rievocano agosti remoti, disse
che dovevo cominciare a comporre la grande opera letteraria,
poiché il talento lo avevo, e il mancato successo del dramma non
significava che alle mie parole mancasse una forza ricca e
straordinaria[2]. Una potenza che avrei dovuto disciplinare però, e
incanalare in uno stile fluente come l'acqua di un fiume ampio e
maestoso.
Così quel pomeriggio credetti che il significato e la giustificazione
dei dolori quasi continui dell'orrenda vacanza moenese, fosse
proprio l'acquistata coscienza della necessità di scrivere presto.
Pensavo di avere ancora bisogno della sua presenza. Temevo che
se mi avesse lasciato troppo per tempo, sarei diventato un cesso di
uomo: ingrassato, perduti o imbiancati i capelli, caduti o cariati i
denti, avrei smesso di leggere, mi sarei ubriacato e sarei
andato a ingiuriare le cattive signorine[3] sul lungomare di Rimini; insomma avrei ucciso le
mie potenziali capacità di fare le cose egregie delle quali però
sarebbe rimasto il desiderio tragicamente frustrato che mi avrebbe
costretto ad ammazzarmi urlando bestemmie inaudite contro tutti gli dèi.
Era stata Ifigenia a evocare la parte migliore di me, e lei
soltanto poteva portarmi al compimento di un'opera grande e
meravigliosa. Certo, le mancavano la finezza, l'autenticità e la
forza mentale che avrei voluto nella mia compagna di vita, però la ragazza
aveva determinazione per gli scopi che le stavano a cuore, e la mia
realizzazione artistica poteva importarle assai, se non altro perché
avrebbe procurato fama e successo pure a lei. Ma soprattutto era
dotata dell'aurea bellezza, consolatrice di tutti gli affanni. La sera,
solo davanti al televisore nella cucina sconvolta, vidi la Loren
giovane e mi sembrò che assomigliasse a Ifigenia. Per tutto il
tempo del film sentii la dolorosa mancanza della compagna
precaria; quando fu terminato, pregavo che mi telefonasse lei, come
faceva solitamente dopo uno spettacolo visto da entrambi in luoghi
diversi; infatti non mancò di chiamarmi, e mi rese felice. Le dissi
che se mi avesse dato una mano sarei divenuto il più grande
scrittore, non di tutti i tempi, poiché superare Dante, Virgilio,
Platone, Sofocle, Omero, probabilmente non era alla portata mia, e
forse nemmeno il massimo autore del Novecento, siccome anche Joyce, Proust,
Kafka, Hesse, Thomas Mann, Musil sono dei giganti; ma il migliore vivente sì
per dio, mi era possibile, e lei di conseguenza poteva diventare la
prima attrice del mondo. Ci ridemmo sopra, poi ci salutammo. Io
credevo a quanto le avevo detto sia pure con tono scherzoso,
poiché fa parte della mia autoeducazione prefissarmi mete alte,
difficili, quasi impossibili, e cercare di raggiungerle usando tutte le
forze; così andai a letto con le lacrime agli occhi pensando che lei
aveva le qualità essenziali per farmi da Musa, Calliope o
Melpomene[4] ispiratrice di un capolavoro che avrebbe fatto epoca e
rieducato il meglio dell'umanità.

La notte del 10 marzo non sapevo che il 15 di quello stesso  mese Ifigenia
mi avrebbe lasciato una prima volta, e il 13 giugno una seconda, in
modo pressocché irreparabile, tanto da indurmi a considerarla
perduta, a chiudermi in casa e a sposare me stesso, a fecondarmi con il ricordo di lei, per dare alla
luce questo romanzo nella solitudine immensa e spaventosa di un
anno  mantenuto vivo dalle rare, preziosissime visite sue, e confortato dalla
coscienza di mettere al mondo qualche cosa di bello, di utile per
quanti mi leggeranno in futuro. Senza contare, siccome ancora non
è possibile, il tempo che ci vorrà per scriverlo altre volte,
correggerlo, limarlo, dargli la mano estrema. Spero di non
scoraggiarmi e di non morire nel darlo alla luce, quando forse avrò
sessanta o più anni, primiparo annoso.

L'11 marzo, dopo la scuola, tutto il pomeriggio e la sera pensai.
Volevo capire meglio perché fosse finito l'amore per la creatura
che con il profumo e la luce dei suoi ventitrè anni mi aveva
rivitalizzato, imbellito, bonificato dai piedi alla testa. Avevo
assorbito la vitalità della sua giovinezza, ma lei, come persona,
non l'avevo amata: mai mi ero preso cura di Ifigenia in sé, dei
suoi pensieri, dei suoi sentimenti; e quando aveva diede i primi segni di declino vitale
appoggiandosi pesantemente sulle mie spalle, quando impeciò le ali
da giovane Nike divenendo una pesante e triste schiava, quando
la sua carne brillante smise di lievitare e perse fragranza, io
smarrii gran parte dell'interesse, quasi tutto materiale che avevo
provato per lei. Eppure  non era soltanto materia quella ragazza.
Anch'ella del resto aveva considerato più il mio presunto talento di
educatore, o addirittura il mio momentaneo successo di professore
al liceo, che la mia persona e la mia umanità. Nell'autunno del
1978, quando mi corse dietro nei tetri corridoi del Binghetti era
una ragazza bella quanto si vuole, ma comunque parecchio insicura
e piuttosto emarginata da quell'ambiente borghese per il suo stato di
proletaria, oltretutto immigrata dal sud; io ero un insegnante
considerato  ottimo dagli studenti migliori; anzi, c'era una classe
intera, una terza, che lottava a spada tratta,  con fragore, contro il
preside Tanghero e i professori più retrivi per essere preparata da
me, in vista dell'esame di maturità, e non solo di quello. Ebbene
tale prestigio, qualunque esso fosse, affascinò Ifigenia non
meno delle lezioni che mi sentì fare su Platone e altri, quando
sostituivo un suo collega insipido o addirittura insipiente: anche
lei voleva mettersi in mostra, acquistare rinomanza, in un
ambiente dove le ragazze belle non erano poche, gli insegnanti
bravi pochissimi; divenire l'amante di un professore quotato le
sembrò un ottimo mezzo per raggiungere lo scopo. Era fiera di
farsi vedere con me, tutta contenta quando poteva ostentare la
nostra relazione. Ma quando fui confinato al ginnasio dal signor Tanghero de’ Tangheris, subii un
calo abissale della quotazione nella scuola intera, e nello stesso
tempo sentii scemare il mio entusiasmo di educatore; Ifigenia
cessò di ammirarmi, e non mi sostenne, anzi mi umiliò
ulteriormente innamorandosi del maestro di danza. Questo non fu
nobile da parte sua; comunque non mi assolveva dal crimine
perpetrato da me quando, dopo avere tratto piacere dal corpo della
splendidissima giovane, me ne ero saziato e avevo manifestato
disinteresse per lei, rendendola triste, opaca, oscura. Questo non
era avvenuto tanto per malvagità, quanto per debolezza e stupidità:
la parte buona e presente, l'acropoli dell'anima mia, aveva ceduto
all'assalto dei mostri antichi, ma sempre vivi e feroci dentro di me:
il materialismo e il clericalismo pseudo cristiano, vizi pessimi,
diversi e contrapposti in apparenza, ma di fatto simili, come il lusso e
l'avarizia[5]. Mi avevano attaccato e sconfitto nell'autunno del 1979,
quando, tornato da Debrecen, mi trovai solo a combattere contro la
loro forza retrograda e preponderante. Con quella guerra avevo
perduto la bella ragazza già smarrita durante l'estate. Forse avrei
potuto ritrovarla quale donna matura dopo che avesse fatto altre
esperienze, assai peggiori di quella con me. Come ventenne
luminosa e innamorata dovevo recuperarla e renderla eterna
attraverso un romanzo che le innalzasse  un tempio pieno di luce con un altare di mito
e di poesia, e ve la collocasse come icona e come persona, al di sopra delle brame sudicie,
fuori dal conteggiare meschino, al riparo dalle offese del tempo, al sicuro
dal colpo finale che risparmia solo i creatori e le creature dell'arte.
Il 12 marzo, dopo la scuola, studiai e meditai ancora, senza
ricevere una telefonata dalla ragazza cui erano rivolte le mie
riflessioni, ed era dedicato l'impegno sui libri. Preparavo infatti un percorso
per il suo esame di recitazione.

Soffrivo, ma sentivo quel dolore come provvidenziale in quanto
già mi insegnava molto, poi, accumulandosi, aggravandosi e
opprimendomi, spingendomi sempre più in basso sotto il suo peso,
mi avrebbe costretto a scrivere un'opera dalla quale soltanto avrei
potuto ricavare l'immenso compiacimento di me, necessario per
risollevarmi da una depressione tanto schiacciante. Andai a letto
dopo una giornata di massacro mentale che tuttavia non esecravo:
sapevo che quello strazio mi era necessario tutto, anzi, ce ne
voleva dell'altro per arrivare a decidere di fare qualsiasi sacrificio
onde salvarmi l’identità e la vita.
Il 13 marzo corsi i 5000 metri in 21,52. Non è un bel tempo, ma
era il primo della stagione che, anzi, avevo anticipato di un mese.
Lo  stimolo era sempre Ifigenia che, pur non amandomi più,
né volendomi bene, mi spingeva ad agire e a patire per il mio
bene.
La sera le feci una densa lezione di letteratura greca; con lei
c'era una sua amica; quando se ne fu andata andata,
Ifigenia mi baciò: aveva il volto ridente, gli occhi socchiusi e la
semichiostra superiore dei denti un poco sporgente dal labbro
appena rialzato: riconoscevo l'aria infantile, ingenua, quasi ferina
dei primi giorni felici; sembrava perfino che mi amasse di nuovo,
o per lo meno che fosse affascinata un'altra volta da me; invece,
tutt'al più mi era grata, siccome, nonostante il suo disamore, continuavo
a sgobbare per lei.
La mattina del 14 marzo andai al Binghetti durante l'intervallo per
invitarla sull'Appennino a prendere il sole. Era sabato, il mio
giorno libero. Entrai nel cortile con la bianca Volkswagen cui
avevo attaccato gli sci: vidi subito la mia amante, e
le chiesi se voleva venire al Corno alle scale per ripassare
l'abbronzatura. Fece due salti di gioia, come ai tempi belli della
sua prima supplenza, quindi si allontanò, di corsa, per impetrare il
permesso dal preside Tanghero. Non fu difficile: gli disse che doveva andare
di corsa dal medico.
Percorremmo il tragitto parlando di scuola e di esami; non
eravamo scontenti. Ma quando fummo arrivati su quella montagna
triste, senza sole, già priva di neve, non trovammo niente di
buono, né di nuovo da dirci. Si parlava ancora una volta delle
nostre emozioni vane e cattive. Ci fermammo un'ora soltanto.
Come fummo a Bologna, verso le sei, l'accompagnai a casa sua,
poi tornai nella mia. Eravamo d'accordo che ci saremmo sentiti
alle dieci per decidere che cosa fare.

Entrai nello studio illuminato dal sole finalmente sbucato dalle
invide nuvole vinte. Stava per tramontare tra i colli più bassi e
vicini alla grande pianura del nord: gradevole segno di primavera.
Eppure sentivo di essere completamente solo su questa terra, di
non provare interesse per alcuna persona vivente tranne la giovane
donna che non ne provava per me. Perfino lo studio, gli alunni, la
scuola, in quel tempo mi piacevano poco. Forse Ifigenia non
poteva amarmi proprio perché mi vedeva privo di vita
indipendente da lei: di fatto ero meno vivo che morto. Andai in
camera a buttarmi sul letto poiché mi sentivo incapace di fare
qualsiasi cosa. Ripensai con struggimento ai vari periodi della
nostra storia, tutti meno infelici di quei giorni orrendi, e in età
nemmeno tanto verde oramai[6].

Era stato meno brutto, sebbene parecchio angoscioso, anche il
periodo in cui non la amavo più, e forse nemmeno lei amava me,
però non voleva che la lasciassi.
Allora, distesa su quel letto con gli occhi socchiusi e il breve
labbro appena rialzato sui denti, le braccia aperte, le gambe
divaricate, impaurita come un gattino nero che miagola per il
terrore di essere abbandonato, "non ti deluderò - diceva - dammi solo
dell'altro tempo".
"Certo, tesoro - la confortavo - io starò con te il più possibile a
lungo: finché tu avrai bisogno di me, e in ogni caso non voglio
"farti del male". Questo era vero, ma era pur vero che ero
innamorato di un'altra supplente di estrazione borghese. La situazione allora
era penosa, ma il 14 marzo la rimpiangevo. Quella sera stessa accadde un fatto
imprevisto, anche se non imprevedibile, tale comunque che diede
un'altra svolta e altri sobbalzi alla nostra vicenda già declinante
per una strada accidentata e tortuosa.
Alle dieci le telefonai, poi andai a prenderla.  Avevamo preso
l'accordo di stare un paio di ore nel letto: il tempo di fare
comodamente l'amore. Lo facemmo un numero sufficiente di volte
e con discreta soddisfazione, mia se non altro. La terza però ci
eravamo stancati: a me era sembrato di pedalare in salita con un
rapporto troppo lungo; tutto Stelvio, da Prato alla cima con il 21 per chi sa
di ciclismo; il tipo di sforzo che danneggia il cuore, dicono.

Facevamo una pausa dunque e si riprendeva fiato, con gli occhi
rivolti al soffitto, quand'ecco che all'improvviso Ifigenia disse:
"Ti devo parlare". Rabbrividii, poi la guardai: "Dì pure".
"Gianni, io non avevo molta voglia di vederti e di stare con te
questa sera; anzi è da qualche tempo che non sento più spinte forti
verso di te; certo non come una volta".
Fece una pausa, ma  non intervenni. "Tu non ne hai colpa - riprese -
oggi sei stato particolarmente carino venendo a prendermi là. Ma
dopo, hai visto? Non c'era niente di buono da dirci. Abbiamo
parlato soltanto delle nostre emozioni malsane, e non ancora
smaltite evidentemente. Forse quanto sto dicendo non è giusto né
logico, ma adesso  sento così. Perciò non dobbiamo più
frequentarci, almeno per un certo periodo. Poi si vedrà".
"Ho capito - risposi con tono calmo e condiscendente - Se tu senti
così, non pórti questioni di logica né di giustizia, né, tanto meno,
di convenienza. Fai bene a lasciarmi. In effetti c'è molta
stanchezza tra noi: la provo anche io". Le accarezzai una guancia,
le feci un sorriso mesto e le domandai: "Toglimi una curiosità, anzi
un dubbio tesoro: hai ancora, o di nuovo in testa il maestro di
danza?"
"No", rispose in modo secco ma non tanto sicuro. In ogni caso mi
consolò un poco. Non soffrivo come la notte del 19 novembre:
oramai la decadenza estrema del rapporto mi aveva stremato e
sentivo anche io che ci voleva un rivolgimento, qualunque esso
fosse.
La guardavo con attenzione finché era nuda: poteva essere l'ultima
volta della mia vita. Glielo dissi.
"Non si sa - rispose - non parliamo di questo. Lasciamo fare al destino".
Le chiesi i consigli finali, il suo testamento spirituale per me. Mi
ha lasciato un decalogo o codice cui ogni giorno da quella sera
lontana ho obbedito.
"Conserva – disse - tutto il bene che hai ricevuto da me. Dimentica
il male. Non ingrassare, non bere alcolici, non imbruttire. Non
smettere di insegnare divinamente come sai. Rifuggi i vizi e le
debolezze della gente ordinaria. Ma soprattutto riprendi a scrivere
presto; questa volta però devi creare qualche cosa di grande:
racconta tutta la nostra storia, procurati e regalami la gloria eterna.

Mettici dentro le nostre giornate, le scene, i viaggi che già non
sono banali; tu poi aggiungi lo stile dell'epico, dell'universale. Usa
la forza che hai dentro: tendila come un arco per colpire la sfera
emotiva dei lettori. Devi adoperare la penna come un martello
implacabile che stritoli i luoghi comuni: ricorda l'atrox stilus di
Petronio[7]. Devi farlo per me e per te stesso. Il talento ce l'hai.
"Prometti?"
Sì, farò tutto questo, angelo mio, lo giuro."
"E io – domandò – che cosa devo fare per non perdere la tua
stima?"
"Tu sei bella e intelligente, creatura. Non degradarti, non lasciarti
corrompere dai mascalzoni o dagli imbecilli. Continua a studiare,
a leggere, a pensare con la tua testa, a non accettare i compromessi,
a fuggire lontano dalla volgarità. Coltiva lo spirito.
Conserva l'aspetto splendidissimo di cui ti hanno dotata benigni
gli dei: sii sempre la bellezza che vedo adesso, che vidi la prima
volta due anni e mezzo fa, in questo letto. Bei tempi per tutti e
due, credo. Mangia con moderazione, non bere alcolici nemmeno
tu, non fumare, fai molta ginnastica che è la cosmesi migliore[8]. In
maniera correlativa al mio scrivere, tu devi recitare, poiché il tuo
destino migliore è fare l'attrice".
"Ifigenia sorrise e disse: "Farò tutto questo. Tu sei tanto caro,
gianni. Poi mi accarezzò e cominciò a rivestirsi. Sarebbe finita
bene la storia se fosse finita qui. Le guardavo il seno, le natiche, la
vita, le cosce, le braccia che si coprivano come si annuvola il sole,
e mi chiedevo se avrei potuto contemplarla di nuovo in camera mia,
nuda o svestita a festa. "Vedremo - pensai, come mi aveva
suggerito lei stessa. "Lasciamo fare al destino".
Quindi l'accompagnai a casa senza antipatia. Ci salutammo con un
bacio augurandoci buona fortuna. Come avremmo fatto il 15
giugno seguente. Sembrava un addio. Tornai subito a casa. Non
ero troppo infelice. Nel mio studio dilagava la luce di una luna
pienissima. Ero stanco e assonnato, ma il momento era solenne e
mi sentii in dovere di scrivere qualche parola.

Ifigenia aveva rivelato un'anima nobile, lasciandomi quando
aveva ancora bisogno di me. L'esame di abilitazione non era lontano:
avrebbe potuto resistere, per convenienza, altri tre o quattro mesi;
invece se n'era andata poiché non sentiva più di amarmi e non
stava volentieri con me. Questo significava che non mentiva
quando diceva di amarmi; certamente era stata più schietta di me;
io di mia iniziativa non l'avrei lasciata mai, per tante ragioni, ma
soprattutto per l'utile. Prima di stendermi nel grande letto dove
forse non l'avrei vista più, scrissi che la nostra vicenda si era
conclusa con  stima grande e gratitudine eterna per quella creatura mia
che mi aveva insegnato a essere meno insicuro, cretino e cattivo.

giovanni ghiselli

Il nostro blog   http://giovannighiselli.blogspot.it/   è arrivato a  125061

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[1] Cfr. Orazio, Ars poetica, v.143: "non fumum ex fulgore, sed ex fumo dare
lucem/cogitat.", non pensa di trarre fumo dallo splendore, ma luce dal fumo. Il
soggetto è Omero.
[2] Cfr. Shakespeare, The tempest: "But doth suffer a sea-change/into something
rich and strange" (I, 2), ma subisce un cambiamento marino/in qualche cosa di
prezioso e raro.
[3] Cfr. Aristofane, I Cavalieri, v. 1400: " mequvwn te tai'" povrnaisi
loidorhvsetai", e ubriaco oltraggerà le puttane. Cfr. anche Cocotte di Gozzano.
[4] La prima è la Musa della poesia epica, quindi anche del romanzo che Hegel
nell'Estetica definisce "la moderna epopea borghese"; la seconda è l'ispiratrice dei tragediografi.
[5] Cfr. Sallustio, Bellum Catilinae: "Incitabant praeterea corrupti civitatis mores,
quos pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia, vexabant ", 5, lo
(Catilina) aizzavano per giunta i costumi corrotti della città, tormentati da vizi
pessimi e opposti tra loro: il lusso e l'avarizia.
[6] Cfr. Leopardi, La sera del dì di festa, vv.23-24.
[7] Cfr. Satyricon, 4: "ut verba atroci stilo effoderent ", in modo che correggessero
le parole con penna implacabile.
[8] Cfr. Platone, Gorgia, 465b.

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