domenica 19 gennaio 2014

La scuola corrotta nel paese guasto. VII capitolo, seconda parte





Breve è la vita, ma il rimuginare implacato ricomincia.  La commedia del pomeriggio. I fiori: “surgit amari aliquid quod in ipsis floribus angat[1]”. E' saggio dare credito alla gioia apparente poiché il dolore è quasi sempre reale e concreto. La lezione per l'esame di abilitazione. 

Appena fuori nel sole, ci abbracciammo trionfanti e teatrali. Le baciai le guance, i capelli, le mani.
Andammo a sederci su una panchina di una stazioncina suburbana, sotto un mandorlo fiorito.
Mi parlò dei  sentimenti provati nei giorni della separazione. Non disse esplicitamente di non essere stata a letto con l'altro maestro, ma doveva essere sottinteso in quanto affermava e ripeteva: lei amava me; quell'uomo era troppo incolto e narcisista per interessarla sul serio. Notai che si esprimeva in modo confuso, non per la foga del sentimento, ma per scarsa chiarezza di quello che intendeva dire. Avrei voluto crederle senza riserve né ripensamenti, ma non mi convinse, purtroppo non mi convinse. Le sue parole caotiche e trite anzi avrebbero riattizzato presto la fiamma inesausta, deleteria, del mio almanaccare implacato.
Durante il tragitto da scuola a casa sua le raccontai con quanto dolore avevo vissuto quel divorzio pur breve. Quando la salutai, le dissi che per la sera purtroppo avevo già preso un impegno con una conoscente coetanea e non potevo disdirlo; perciò, sebbene avessi una gran voglia di stare con lei, non avevo che un paio di ore da dedicarle.
Avrei potuto rinviare quell'incontro, per niente significativo, ma dopo averla sentita parlare senza energia, non credevo del tutto nella sua conversione erotica, e pensavo che tenerla un poco a distanza frequentando altre persone sarebbe stato utile non solo a capire meglio i suoi intendimenti, ma anche a farmi desiderare.
Di natura non sarei così diffidente; ma se non lo fossi diventato, costretto da quanti ho incontrato, non avrei trovato e riconosciuto il mio destino. Avevo forti sospetti che Ifigenia fosse tornata non con un atto spontaneo di amore, bensì con uno sforzo della volontà, e in seguito a un calcolo del tornaconto: c'era l'esame di  abilitazione dei precari prima di tutto, poi forse anche altre ragioni pratiche per cui le conveniva restare con me ancora un poco di tempo. Nonostante queste riflessioni, e sebbene non sentissi  più quella intensificazione della vitalità che è segno di gioia, giunto a casa,scrissi che volevo guardare Ifigenia senza sospetti, senza l'esecrabile peste della sfiducia di cui mi avevano contagiato i bigotti e  i biofobi vari quando ero bambino. Dovevo dare credito alla mia inclinazione biofila. In realtà gran parte dei timori e sospetti che provavo nei confronti di Ifigenia, me li aveva seminati dentro lei stessa e li coltivava con il suo atteggiamento non schietto. Ma questo è il senno di adesso.

Ifigenia arrivò alle sei del pomeriggio, come ai bei tempi.
"Ciao – disse con aria entusiasta – avevo tanta voglia di stare con te e di fare l'amore".
Appena ebbi risposto "anche io", mi abbracciò e baciò con avida foga, apparentemente come una volta. Quando potei parlare di nuovo, dissi: "Andiamo subito in camera: sai che oggi ho poco tempo".
"Lo so" annuì con un pizzico di rammarico dolce, senza sale di biasimo. Poi, assumendo un tono diverso, allegro e quasi infantile, aggiunse: "Andiamo subito là e facciamo l'amore. Tu però non devi spogliarti".
"Perché?" domandai incuriosito.
"Non me lo chiedere Gianni, e fidati".
"Va bene tesoro, facciamo così" la assecondai.
Andammo nella stanza da letto: Ifigenia si denudò completamente e mi rese beato con la visione del corpo che avevo temuto di non rivedere; io mi tolsi del tutto soltanto le scarpe e non dissi altro prima di fare l'amore. Dopo, le domandai: "Ora devo anche lavarmi senza spogliarmi?"
"Sì, cioé no!" Fece lei.
"Svestiti pure, ma tieni l'accappatoio a portata di mano. E non chiedermi che cosa vuol dire. Fidati".
Dissi solo: "Va bene". Nel bagno mi chiedevo quale fosse la ragione di quella stravagante pretesa. "Forse deve venire qualcuno a trovarci. - pensavo - Ma chi poteva avere invitato a venire in casa mia mentre facevamo l'amore?"
Il sospetto di fondo era che stesse per arrivare il maestro di danza. Forse doveva dirmi che era innamorato di quella meravigliosa fanciulla, la quale però, purtroppo per lui, aveva scelto di essere la mia compagna fedele, e lo sarebbe rimasta sempre, come si addice a una giovane dai costumi specchiati. Mi aspettavo una scena del genere, concertata dai due commedianti. Insomma non mi fidavo.
Tornai nel talamo nostro, ma la ragazza non c'era. Pensai che si fosse nascosta per gioco. Guardai sotto le coperte, poi sotto la rete del  letto ma nemmeno lì si trovava. Allora andai nello studio e la vidi nuda, accanto alla finestra chiusa, fare dei segni  con braccia verso la strada con braccia frenetiche. Come si accorse che le stavo alle spalle, si girò, mi guardò, arrossì e disse: "Torniamo di là; ma tu, Gianni, rimani con l'accappatoio".
"Adesso suona quello che aspettava il segnale" pensai. Infatti, quando ci fummo stesi di nuovo, senza parlare, Ifigenia con aria divertita, io con il sospetto già evidente nel volto cupo, il campanello suonò.
"Vai ad aprire" disse. Poi si infilò sotto le coltri ridacchiando.
Andai alla porta. Al di là c'era una giovane con un mazzo di fiori, enorme. Me li allungò dicendo: "Sei tu Gianni Ghiselli, vero?"
"Sì, sono io."
"Allora questi sono per te."
La ringraziai. Si allontanò quasi di corsa. Tornai nella stanza da letto. Allora Ifigenia saltò fuori dalle coperte, le gettò a terra, si inginocchiò sul lenzuolo, e, tutta contenta, mi domandò: "Ti è piaciuta la sorpresa? Ti piacciono i fiori?"
"Sì molto!" Risposi. "Facciamo finta di niente" pensai. Erano tanti, rossicci, avvolti nel cellophane, tenuti insieme da un nastro rosso stretto ai gambi avvolti nella stagnola.
"Adesso leggi il biglietto!" Esclamò con aria trionfale.
In mezzo c'era una piccola busta bianca. Dentro, numeri e parole scritti in rosso: "24/03/1981. Sono tanto, tanto felice che il nostro amore sia rinato. Ti invio questi fiori per la Poesia, la Fiducia e la Fierezza del nostro Amore. Ifigenia".
Appoggiai sopra il tavolo il mazzo crepitante che avevo ripreso dalle sue mani, poi l'abbracciai.
"Sono tanto felice anche io" sussurrai commosso; eppure sentivo che la disgraziata ragazza aveva fatto una delle commedie sue; che tra quei fiori c'era qualcosa di falso e penoso, che il nostro rapporto sconciato non era più redimibile. Comunque volli fare un altro tentativo anche io, e non permisi all'angoscia, che presoffriva il futuro, di annientare quel breve pomeriggio di allegria precaria e di gioia epidermica.

La mattina seguente invece ero proprio contento. La vidi a scuola mentre aspettavo il caffé dalla macchina apposita. Mi corse incontro avvampando di gioia come ai tempi belli, o almeno così mi sembrò.
Ma è saggio dare credito anche alla gioia apparente, poiché il dolore è invece quasi sempre concreto reale. Ci complimentammo e festeggiammo a vicenda, là sul piano nobile, davanti a gente stupita siccome da tanti mesi non ci vedeva felici in quella maniera.
Il pomeriggio andai a pedalare sui colli fioriti, dove splendeva il sole che pareva dissolvere la nube di strazio incombente sulla mia povera testa da mesi. La sera a letto però non raggiunsi la sufficienza[2]. Stavo cercando una giustificazione, con aria afflitta, quando Ifigenia, accortamente, volle salvare il corso di buonumore che avevamo deciso e iniziato il giorno prima, dicendo parole di tolleranza e comprensione inusuali per lei: "Non te la prendere: il numero alto non è essenziale alla nostra felicità; importante è solo che ci vogliamo bene. Adesso che abbiamo sofferto e capito, possiamo comprenderci assai più rispetto al tempo comunque bellissimo nel quale facevamo l'amore tante volte che era difficilissimo tenerne il conto, e con  veemenza tale da spezzare le gambe del letto".
Quando ebbi sentito queste parole buone, ebbi  la terza erezione. Così, ragionando di amore, raggiungemmo la sufficienza. Nei due giorni seguenti, Ifigenia seguitò a manifestarmi un'ottima disposizione: a momenti mostrando una comprensione equilibrata e matura dei nostri problemi e del futuro che sembrava volere affrontare con me, a tratti prendendo quell'aspetto fiammeggiante e gioioso che mi infondeva simpatia per la vita.
Il 28 le feci lezione su Leopardi. C'era anche l’altro  collega bisognoso di abilitazione. Prendevano appunti. Dopo un paio di ore conclusi il lavoro mirato al loro esame . L’uomo andò via, e noi due ci stendemmo sul letto vestiti: Ifigenia sotto, io sopra. Osservata in quella posizione appariva molto più piccola dei suoi ventisei anni: sembrava la mia bambina che mi guardava piena di ammirazione filiale, con gli occhi lucenti e umidi, i denti superiori che sporgevano appena dal labbro un poco rialzato. Era commossa e contenta del fatto che mi dessi tanto da fare per lei. In fondo aveva deciso di restare con me soprattutto per avere un aiuto in vista della temuta prova , e io glielo davo, impiegando gran parte del mio tempo.
A un tratto disse: "Gianni, io sono molto ignorante: non studio, non faccio, non so! Tu invece sai tante cose!"
"Anche io so poco creatura; quasi niente. Ma voglio imparare, e non solo dai libri; anche da te e con te, se tu vuoi". Annuì. Quando si recuperava l'orientamento educativo e produttivo, la ragazza mi diventava cara; le volevo bene, la amavo, e pensavo: "Ecco, Ifigenia ti spinge a imparare, ad agire, con la bellezza; e ti trascina con la vitalità dei suoi anni; in cambio si aspetta la solidità mentale e morale, la disciplina, il metodo di cui ha bisogno per non disperdere le proprie energie, per diventare il meglio di quello che è. Perciò tu con lei non puoi essere insicuro, incoerente e contorto, altrimenti le cose andranno male di nuovo: ti disprezzerebbe, giustamente, e ti pianterà un'altra volta, per sempre".
In quel momento  non volevo pensare  che il mio essere poco chiaro e diretto dipendeva in gran parte da lei, dalla sua ambiguità, dai suoi sbalzi di umore conseguenti al conflitto tra l'opportunismo
che strumentalizza, derivato dall'imitazione di ambienti esterni, e il suo bisogno di amore e di verità, non senza  la coscienza, pur oscura e intermittente, che io non meritavo di essere usato senza stima, né simpatia né compassione. D'altra parte non era solo il mio stato emotivo a essere condizionato da lei, bensì tutto quanto facevo: oramai  Ifigenia era la sola creatura dalla quale volessi farmi assegnare i compiti di cui avevo bisogno per vivere.

giovanni ghiselli

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[1] Lucrezio, De rerum natura, IV, v. 1134. Spunta qualcosa di amaro ché dà l'angoscia anche tra i fiori.
[2] Nel nostro gergo significava “fare l’amore tre volte”.

1 commento:

  1. anch'io penso che l'amore non sia del tutto gratuito, l'equilibrio funziona bene quando lo scambio è equilibrato e nella coppia vi è coscienza del proprio stato, altrimenti si degenera nelle malattie della psiche...questa ragazza non sa quello che vuole da te e da se stessa, non vuole ammettere di avere bisogno della preparazione agli esami e gioca a fare la bambina . Credo che ti amasse veramente ,ma senza averne chiarezza . Credo anche che questa ragazza avesse fortemente il bisogno di amare ,fino alla simulazione ,credo cioè che fosse innamorata dell'amore prima che dell'amante. Il gioco erotico del mazzo di fiori rappresenta l'immagine allo specchio...in realtà era lei che desiderava ricevere dei fiori. Voleva un grande folle amore che contenesse atti generosi ,ma prevedibili...voleva essere corteggiata e in questo atto fa a te quello che desiderava che un uomo facesse a lei...regali e sorprese...Questo capitolo mi fa pensare tante cose del passato ,è molto interessante...sembra di spiare dal buco della serratura qualche cosa di proibito e personale. Ma questa storia è veramente finita? Giovanna

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