lunedì 6 gennaio 2014

La scuola corrotta nel paese guasto. IV capitolo



val di Zena
La passeggiata sulla collina di Zena. Il triennio di lavoro feroce ricompensato con la borsa di studio utilizzata male. I rimpianti e i rimorsi, vano pascolo di uno spirito disoccupato . Gli auspici buoni. Gli appunti da rielaborare.

Lunedì sedici marzo 1981, dopo la scuola, tornai sulla collina dove il ventotto ottobre del ’78, era un sabato, avevo portato la ragazza dopo averla incontrata davanti alla libreria Feltrinelli. E' un'altura senz'alberi, situata fra la valle di Zena e la strada della Futa. Arrivato, fermai la bianca Volkswagen dove allora avevo lasciato la nera. Ne uscii e ridiscesi lungo l'erto pendio fino al cupo fondo dov'era terminata la nostra orsa precipitosa. Sedetti sulla terra del luogo infimo nel quale ci eravamo seduti. Il cielo era freddo, ventoso, scuro di nubi.
Ricordai che due anni e quattro mesi prima, invitando la ragazza a seguirmi giù per quel campo scosceso dove si addensavano le rapide ombre del pomeriggio autunnale, avevo voluto indicarle la depressione e l'oscurità dell'anima mia. Dopo il tempo e il cammino  percorsi con lei, rimpiangevo la sua presenza vitalizzante. Cominciai a risalire la china con la mano destra tesa dietro la schiena, per ripetere il gesto di allora, quando avevo offerto aiuto alla ragazza tirandola su. Pensavo che 
quell'ottobre lontano era stato preceduto da un triennio di studio feroce: dall’autunno del ’75, quando ebbi l’incarico al liceo classico di Imola, avevo vissuto tre anni interminabili passati  a riempirmi la testa di paradigmi, traduzioni, manuali, letture critiche; un lavoro che doveva procedere spietatamente, tutti i giorni, in ogni stagione.
Ricordavo notti di Natale e di Capodanno passate a studiare per fare lezioni belle, per fare bella figura.
Se mi concedevo una pausa, per ristorare di aria e di luce il cervello, entravo nella vasca da bagno per mezz’ora, oppure andavo sul colle di Zena per due ore, ma solo nel primo pomeriggio della domenica, in automobile, tacito e senza compagnia, perché non mi accadesse di perdere energie, tempo, concentrazione in chiacchiere vane.
Avevo una o due compagne di letto che non potevo amare, siccome dovevo indirizzare perfino i sentimenti sui libri, oggetto di studio e di ogni libidine forte. Non volevo vedere nessuno, per paura di perdere tempo e l'autonomia necessaria a conseguire l'alto scopo di imparare tanto, e così bene da farmi non solo ascoltare ma pure ammirare dai ragazzi e dalle ragazze.
"Ne va della vita", mi dicevo talora; "se fallissi, non potrei più sopportarmi". Invece avevo raggiunto lo scopo, l'ammirazione dei giovani, e il premio di tanta fatica: Ifigenia stessa. Una giovane donna che prima di quella vittoria davvero olimpica[1], non avrei osato nemmeno guardare in faccia. Studio feroce dunque, ma non disperato, né matto, né vano, anzi pieno di buone speranze, razionale, e fiducioso di conseguire un contraccambio concreto, non in denari che non mi interessavano punto, ma in termini di accrescimento spirituale e vitale. Una borsa di studio incarnata in una donna giovane e bella. Come la Tess di Thomas Hardy per Angel[2].
Compresi subito che per insegnare qualche cosa, prima bisognava piacere, e per questo dovevo procurarmi, oltre la sicurezza nelle parti tecniche del latino e del greco, un vasto repertorio di lezioni storiche, letterarie, filosofiche,  ricche di contenuti interessanti, ornate da citazioni efficaci, dette a memoria senza alcuna incertezza, collegate tra loro con intelligenza. Per questo oltretutto non avevo modelli; casomai contromodelli, siccome dovevo discostarmi dai metodi appresi ascoltando i professori usuali  che annoiano se stessi e gli studenti con lezioni sceme, povere di cultura e carenti di vita.
Sapevo di avere i mezzi per farcela, anche se all'inizio, quando presi l'incarico, i ragazzi più preparati del  liceo Rambaldi di Imola, Gioiellieri, Paletti, Mezzetti, ne sapevano non meno di me. Avevo paura, ma non me ne lasciai travolgere, né volli tentare di fingere. Feci la cosa migliore che potevo: mi lasciai guidare dagli allievi ottimi, li ascoltai, compresi cosa dovevo imparare per interessarli. Anche il buon preside di quell’istituto, il gentiluomo Davide Borioni,  mi incoraggiò dicendomi che l’evidente impegno che mettevo nello studio mi faceva onore.
E studiai, spietatamente verso me stesso. Ma ne sarei stato ricompensato. La guida più sicura verso le cose buone che ho dato e avuto, sono stati i ragazzi.

Con Ifigenia dunque avevo ricevuto la borsa di studio voluta con tutta la forza, e di valore adeguato all'immane fatica. Eppure non ne ero stato pienamente felice poiché avevo voluto appropriarmi di quella ricompensa meravigliosa e divina, divorandola con voracità animalesca, invece di rispettarla e contemplarla fino a comprenderne l’intera bellezza, e tutta la poesia, la provenienza celeste. Ifigenia, come Helena Sarjantola[3], era una persona, una creatura umana, non era materia.
Mentre risalivo la china del colle, ad un tratto il cielo si aprì, e un raggio di sole per un momento riscaldò la terra, ravvivò il verde della vegetazione novella. Interpretai quella luce fendente le nubi come una ierofania che preannunciava il ritorno di Ifigenia, la luminosa.
Passai per l'aia dove nel giugno del 1979 facemmo l'amore. La giovane donna aveva le mestruazioni con le quali arrossò le sue cosce e il mio volto. L'aria bruciava, il cielo sembrava un oceano di luce, la terra era bionda di grano, ingemmata da saguigni papaveri. La ragazza mi rese partecipe di tanto fervore di vita che fino allora avevo sempre osservato con desiderio, da fuori. Se fossi riuscito a raccontarlo nel mio romanzo[4], avrei scandalizzato i bigotti, i malevoli verso le donne, i frustrati vari, ma avrei composto un inno in lode delle femmine umane e dell'artista divino che le ha create così come sono.
Arrivai vicino alla bianca Volkswagen. Mi fermai a fissare la parte occidentale del cielo nel punto da dove avevo osservato il sole al tramonto quel pomeriggio remoto, mentre Ifigenia si toglieva la tuta per indossare una camicia e una gonna. Nuvole oscure però coprivano tutto. Pregavo il dio di farsi vedere dandomi un secondo segno di assenso al desiderio di avere un'altra possibilità con la splendidissima giovane donna. Allora, mentre guardavo il santo volto di luce ed ella si stava cambiando alle mie spalle, le avevo domandato:
"Qual è signorina, secondo te, la parte più bella del tuo corpo fiorente?"
"Il seno", aveva risposto. Forse perché era sbocciato da pochi anni e stava fiorendo ancora.
Osservando quel tramonto lontano, mi sembrò che il petto della radiosa fanciulla si specchiasse nella fiamma che nutre la vita[5] e la facesse brillare di nuovo fulgore, tanto che il tenue cielo del pomeriggio autunnale ne trasse colore e vigore.  

Il 16 marzo fissavo le nuvole dell'occidente pregando il primo di tutti gli dèi di mostrarmi  il suo volto santo: a lungo lo invocai, finché un raggio uscì dalla mente che vede tutto[6] e si aprì la strada operando uno squarcio nelle invide  nubi, come un bisturi lacera un corpo per togliere un male. Non riuscii a distinguere le armoniose membra del primo fra tutti gli dei[7], ma trassi comunque ottimi auspici dalla visione.
Tornai a Bologna pensando che allora non avevo compreso il valore prezioso dell'incontro pur tanto desiderato, e preparato con tre anni di studio feroce; quel 28 ottobre, nonostante avessi visto il seno della creatura che mi si affidava fiorire e brillare nel cielo, non le avevo chiesto quali fossero i sentimenti suoi, i pensieri, le attese di vita. Con questa omissione delinquenziale oltretutto mi ero comportato da perfetto imbecille: avevo perso l'occasione di imparare dal vivo più di quanto avrei potuto apprendere da mille volumi con decenni di letture. Infatti c'è più vita e sapienza nel petto di una ragazza che in tutti i saperi del mondo.
Mi ero domandato soltanto se quel corpo fiorente valeva il rischio che correvo portandolo nel grande letto di casa mia per godermelo là, senza ritegno. Solo molto più tardi avevo compreso che l'amore offerto dalla ragazza, bella bruna e vivace, era la ricompensa terrena, eppure mandata da Dio, del grande lavoro invece penalizzato dal bestiame  della lobby predominante nel vecchio istituto e dal preside Tanghero che influenzato dalla loro livida invidia mi aveva retrocesso al ginnasio. Avevo sofferto di quella degradazione più  di quanto avessi goduto dell'assenso divino concretizzatosi nella bellissima, giovane donna. Me ne dolevo e pentivo, siccome avevo capito, e forse non era già troppo tardi. Infatti raccontando poeticamente la varia vicenda del nostro rapporto tormentato, probabilmente avrei raggiunto il duplice scopo di creare un'opera educativa e di riconquistare Ifigenia.

Appena arrivato a casa, per confermarmi nel proposito buono di raccontare presto tutta quanta la storia con gli antefatti, trascrissi i pochi appunti dei primi tristi mesi del '78 che poi invece, grazie all'epifania della fanciulla, sarebbe diventato l'anno più bello della mia vita, il più ricco di casi . Il primo gennaio, per fame sessuale, avevo copulato malamente con una donnicciola: consumista incolta e cretina. Il nove gennaio, alla nonna Margherita morta, quasi novantasettenne, pochi giorni prima, chiedevo: "ti prego, fammi incontrare una giovane bella, bruna, fiorente di voluttà tra le cosce e ricca di forza mentale." Il 18 febbraio odorando gli aromi della primavera incipiente, alla terra, la dea dai ricci viola, già rafforzati dal sole, chiedevo di non negarmi il più spirituale e profumato dei fiori: una ragazza di grande formato.
Insomma alle spalle di quell'autunno trionfale c'erano anni non solo di studio ma anche di riti propiziatori alla conquista di una giovane simile a quella che avrei incontrato davvero.
Mentre leggevo gli appunti presi dopo che la nostra conoscenza si fu approfondita, mi accorsi che avevano maggior nerbo rispetto a quelli di prima. Perciò mi dissi che se volevo scrivere con forza sull'argomento “amore”, dovevo ritrovare il contatto con lei che del resto quel giorno non aveva telefonato.

giovanni ghiselli.

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[1] Cfr. Platone, Fedro, 256b.
[2] Cfr. Tess of the D'Ubervilles di T. Hardy, dove Angel Clare si rivolge a Tess dicendole: " darling, the great prize of my life-my Fellowship" (XXXII), cara, il più grande premio della mia vita, la mia borsa di studio. 
[3] La cui storia si trova in questo blog.
[4] Le pagine relative a quel giorno si trovano in questo blog.
[5] Cfr. Sofocle, Edipo re, v. 1475.
[6] Cfr. Sofocle, Edipo a Colono, v. 869.
[7] Cfr. Sofocle, Edipo re, v. 660.

2 commenti:

  1. quanta fatica per conquistare l'amore e con quale facilità lo si perde, forse è il destino dell'umanità rincorrere all'infinito le mete più ambite...a presto Giovanna

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  2. questa lettura mi dà molto, mostrandomi con quanto egoismo perdiamo chi amiamo e ce ne accorgiamo troppo spesso solo dopo; il capitolo mi conferma quel che già pensavo: tentasti di afferrare di dietro il dio che ha capelli solo davanti, anzi tentasti di afferrare tutto il dio senza quando oramai era tardi, perché non avevi saputo infondere te stesso compèletamente in quell'amore. lei dal canto suo era forse troppo giovane e immatura per certi versi, ma certo un grande dono del cielo, una persona sopra la media delle altre; ha fatto anche lei i suoi errori: rispondere agli errori dell'amato/a con altri errori è la cosa peggiore, e molto difficile è evitare questo; questioni di orgoglio, paura, immaturità...
    mi aiuta molto a riflettere sui casi miei e su come fare o non fare per lasciare che sia Amore a regnare.

    Maddalena

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