sabato 4 gennaio 2014

La scuola corrotta. III capitolo. Terza parte.



La ricerca delle fonti per l'opera. L’eterno studio delle femmine umane. La rivisitazione dei luoghi "archeologici". La nicchia santa. Il rimpianto davanti alla libreria Feltrinelli. La lettera attesa invano nel mese di Debrecen.

Per alcune storie disponevo di appunti, altre dovevo ricostruirle avvalendomi solo della memoria. Era necessario che mi impegnassi a lungo, cominciando dal reperimento delle fonti, i commentarii sul mio eterno studio delle femmine umane. I primi  appunti risalivano alla metà degli anni Sessanta ed erano sparsi tra diari e libri; perciò non mi trovavo nel vuoto di cose interessanti da fare, non rischiavo il dolore e la diminuzione o l'arretramento dell'identità; anzi, avevo bisogno di tutte le ore libere per realizzare il grande progetto: raccontando i miei amori falliti a causa di pochezza morale, avrei dato un insegnamento ai lettori, allargato la cerchia delle persone influenzate da me, e avrei indagato, conosciuto meglio me stesso.

Forse avrei anche potuto riconquistare Ifigenia. Se fossimo tornati ad amarci dopo avere compreso, non ci saremmo più  persi seguendo  lusinghe fasulle o il nostro narcisismo malefico.
Intanto, lasciandomi quando aveva bisogno di me, la ragazza confutava l'iniqua teoria di marca pseudo-cristiana secondo la quale solo la donna vergine non è impura, contaminata e indegna di un  marito che invece può avere frequentato pure prostitute o magari cinedi rimanendo un grand'uomo, come Giulio Cesare[1] per esempio.

Nel novembre del 1978, quando era entrata per la prima volta in camera mia e si era spogliata sorridendomi senza malizia, irradiandomi della sua luce, Ifigenia mi aveva fatto sentire la gioia di vivere, la felicità di essere riamati dalla vita cui avevo sempre proteso gli acuti tirsi dei desideri e la delicatezza dei sentimenti, ricevendone finallora un contraccambio modesto e solo parziale.
Quella ragazza poco più che ventenne, radiosa, era lo stesso sole incarnato che si era degnato di entrare in camera mia, di stendersi nel mio letto, e mi aveva offerto di fondermi con la sua luce divina. Senza di lei sarei forse diventato  il tipico professore di Greco, la più artificiale e autorepressa delle creature, una talpa  nutrita  di radici più o meno raddoppiate nei verbi e nelle parole,  dal grado zero o dal grado medio, oppure ampliate con protesi, o variate dall’apofonia. Ifigenia aveva liberato il dionisiaco tambureggiante[2] che è in me. I libri degli auctores avevano contribuito a formare piuttosto la parte apollinea, il nulla di troppo, il conosci te stesso, il principium individuationis. Ma il tuffo nella corrente della vita, la comunione con il mondo, il sentimento della parentela, dell’unità di tutte le cose,  li dovevo a lei. Grazie a Ifigenia, all’amore che lei mi aveva generosamente donato, del quale mi aveva arricchito, avevo iniziato a vivere con tutti i sensi aperti alla vita e  avrei cominciato a scrivere, poi avrei fatto conoscere i miei capolavori divenendo maestro di un popolo intero. 

Il 15 marzo del 1981 il dio era oscurato da nuvole grosse e buie, ma io avevo la confortante coscienza che dietro le nubi acquose il suo volto santo c'era pur sempre, e presto o tardi sarebbe riapparso ancora più bello e radioso. Dipendeva almeno in parte da me. Potevo indurlo a farsi vedere di nuovo. Queste furono le riflessioni della mattina.
Il pomeriggio andai a San Pietro, nell'osteria delle sorelle anziane, per osservare con attenzione uno dei posti dove andavamo quando eravamo curiosi uno dell'altro: “l'archeologia della storia d'amore” avrei potuto intitolarne il capitolo; ma per scriverlo dovevo ritrovare i sentimenti e i pensieri di quel tempo remoto, quasi dimenticato oramai. Perciò era necessario rivisitare i luoghi. Mi fermai dieci minuti sulla panca dove in un maggio lontano la ragazza si era seduta sulle ginocchia mie, davanti agli amici.
Quella volta ero stato contento dell'atto, pensando che fosse espressivo di forte affetto. Ma con il volgere delle stagioni mi ero accorto che tali gesti di parvenza amorosa, in realtà erano atti nevrotici ripetuti ossessivamente per parassitismo; vezzi caramellosi erano, anzi erano vizi , mezzi subdoli per impedirmi di parlare e di pensare.
Uscito dalla bettola, andai a cercare una nicchia erbosa dove avevamo fatto l'amore. In verità non era stato agevole: tra le erbe c'erano ortiche, spini e sassi acuti; mi ci vollero dieci minuti di sforzi per arrivare al piacere, oltretutto non condiviso da lei: ebbene quel giorno gli sgraffi di entrambi per quella copula iniqua e tribolata, non ci diedero angoscia poiché nel primo pomeriggio, in casa mia, avevamo già fruito di cinque orgasmi pieni, a testa, e ancora di più perché ci stavamo simpatici, ci piacevamo, ci fidavamo a vicenda nel maggio del '79.
Cercavo quel luogo situato tra la vegetazione lussureggiante che non c'era più. Tuttavia lo trovai. Mi colpì la presenza di tre gruppetti, ciascuno di tre viole, che sbucavano dal terreno spoglio, duro e grigio. Quanto diversa la scolorita, muta terra di aspetto ferreo[3] di quel fine inverno, dalla campagna variopinta e canora di maggio! E com'era mogia l'anima mia in confronto ai salti di gioia che faceva quando l'adolescente, con splendidissima vitalità, con intuizioni geniali, con l'aurea bellezza, l'aveva liberata dalle rugginose catene dei luoghi comuni! Staccai dal terreno un terzetto di viole lasciando là gli altri due: i tre fiori raccolti erano il simbolo delle primavere vissute con Ifigenia; i sei, rimasti a segnare e consolare la nicchia santa, rappresentavano la speranza di ritrovare la mia compagna, di passare nuove stagioni felici con lei.

Dopo avere messo in tasca le tre creature strappate alla terra, mi avviai per una strada sulla quale avevamo camminato a lungo il pomeriggio in cui Ifigenia aveva confessato al padre che amava riamata un uomo di trentaquattro anni suonati. Era giugno. Temevamo di non avere abbastanza da dirci nelle lunghe giornate che avremmo quasi dovuto passare insieme dopo l'autorizzazione paterna a frequentarci come due fidanzati. Tanto più che era finita la scuola e con il Binghetti ci erano venuti meno un ambiente, un modus vivendi, e il principale argomento di conversazione. Per nascondere tale timore, parlai più del solito: le raccontai due romanzi di Thomas Mann che avevo letto da poco; poi celebrai lo splendore della natura nel mese più illuminato; quindi esposi i miei vari piani per tornare al liceo, tutti vanificati dal fato urgente che mi spingeva con forza verso questo romanzo. Ifigenia non parlava; immagino che condividesse la mia paura di fondo: che le ore a disposizione, diventate fin troppe, avrebbero reso meno commosso e attivo, ossia noioso, o addirittura angosciante il nostro frequentarci. Invece poi, sulle spiagge adriatiche dove stavamo insieme dalla mattina alla sera nel sole e nell'acqua, ce la cavammo bene aumentando le razioni quotidiane di sesso, baci e sorrisi.
Rievocavo tutto questo percorrendo una strada sterrata in direzione di una casa colonica abbandonata, una delle tante dove avevamo giocato all'amore: "Ibi illa multa tum iocosa fiebant"[4]. Volevo entrarci per osservare, aspirarne gli odori e ricordare. Ma poco prima di arrivarci, in un campo verde di grano notai il corpo massacrato di un piccolo gatto: lo guardai con attenzione e mi commossi pensando che Ifigenia nelle mie mani era stata piccina e indifesa come quella bestiola nel momento in cui qualche barbaro l'aveva ammazzata. Quando mi aveva chiesto aiuto per crescere, mi aveva donato il suo corpo bello e io ne avevo gioito, ma, saziata la grande libidine , non sapevo più che farne, e lei non aveva altro da offrirmi; ebbene in tali circostanze, alla creatura appiccicosa, noiosa, lamentosa, non avevo fatto tanto male da schiacciarla e annientarla. Questa era una consolazione non piccola.

Concluso il pellegrinaggio, rientrai nell'osteria per nutrirmi. Chiesi un solo panino, nemmeno grande, e un bicchier d'acqua, secondo la promessa fatta la sera prima all' ex compagna. Quindi tornai a casa. Erano le quattro. Pioveva. Mi sentii molto solo e infelice. Scesi nell'autorimessa per vedere se c'era ancora la sua bicicletta, una Bianchi nera, nuova fiammante. Non la vidi. Era venuta a prenderla, con le chiavi che le avevo lasciato, senza salire in casa, oppure salendo mentre ero fuori. Provai il terrore di averla perduta davvero, e per sempre. Salii sulla mia bicicletta e pedalai sotto la pioggia fino alla libreria Feltrinelli dove ci eravamo dati il primo appuntamento nell'ottobre del '78. Poi tanti altri. Mi fermai davanti alla vetrina più grande. Di fronte ci sono le torri. Lì confluiscono diverse strade. Il cielo, uniformemente grigio, non attirava lo sguardo; dalle vie viceversa speravo di vedere arrivare ancora una volta Ifigenia. Come il sole da una nuvola acquosa, quel giorno lontano lei era sbucata dalla San Vitale, arteria angusta e buia che porta a Ravenna e alla marina. Indossava un impermeabile chiaro, foderato di lana; aveva i capelli neri, luminosi, non lunghi, e negli occhi scuri, brillanti di gioia, racchiudeva un sorriso rivolto alle sue stesse speranze, alla sua attesa d'amore, e alla mia. Purtroppo quel giorno lontano non avevo apprezzato debitamente i presagi lieti, le promesse e le speranze di felicità impresse nel volto della ragazza che avanzava splendidamente verso di me per farmi partecipare dei suoi doni celesti. Anche per questo speravo di vederla arrivare un'altra volta.
Troppo occupato dalla brama, prima, poi dalla rischiosa fatica di godere la sua carne fresca e soda, avevo perduto l'occasione di contemplare e comprendere la poesia incarnata in lei. In quel tempo volevo trovare il don Giovanni di Mozart dentro di me, l'ingannatore, l'iniquo[5] che Kierkegaard definisce "l'ncarnazione della carne" [6].
Imbecille: avevo seguito un luogo comune colto perdendo un'occasione di felicità. Però forse quanto non avevo realizzato vivendo, l'avrei compiuto scrivendo. Valeva la pena di ripercorrere con la memoria e fissare su tanti fogli con la parola scritta, la storia di due anni e quattro mesi passati con lei; anche di un'enorme fatica pluriennale era degna quell'opera: pure a discapito di altre occupazioni piacevoli o serie andava compiuta, siccome con essa avrei capito e fatto capire quanto in altri libri non si poteva trovare, e nemmeno nella vita, non raffigurato con la chiarezza e la densità che avrei voluto raggiungere. Bisognava comprendere per quale ragione un benessere fondato su orgasmi assai numerosi e piacevoli, però istantanei e bisognosi di conferme continue, non fosse cresciuto fino a diventare gioia certa e sicura, o per lo meno non contaminata di angoscia.

Con tale proposito tornai a casa. Guardai i pochi appunti che avevo preso durante la relazione e le rarissime lettere scambiate con lei. Avrei dovuto usare la forza della memoria. Presi in mano per primo il foglio che Ifigenia mi aveva scritto e mai spedito quando ero a Debrecen: il mancato espresso che aspettavo ogni giorno finché arrivò un telegramma che lo preannunciava; da allora lo agognavo ogni momento del dì e della notte, con dolore e sospetto crescente a mano a mano che il tempo passava atrocemente: fino all'ultimo giorno dell'orrenda vacanza lo avevo apettato, invano. Quando finalmente, dopo i tre giorni di Budapest, ripartii per Bologna, decisi che era assurdo soffrire per una creatura del genere, probabilmente infedele, sicuramente debole odiosa e pazza. Rilessi dunque la lettera che la ragazza mi consegnò quando ci incontrammo a casa mia. Ne sottolineai e trascrissi alcune parole: "Ho visto i tuoi occhi: avevi un'espressione dolce e sorridevi. Dio com'eri bello!". "Figuriamoci!", pensai. Poi però volli guardarmi in uno specchio, quello del bagno, fissato sopra il lavabo. Brutto proprio non ero diventato, eppure rispetto al tempo della felicità sessuale, avevo assunto un'espressione dura, tirata, che certamente  non mi donava.
Tornai nello studio a meditare sulle parole di quel foglio. Quando le lessi per la prima volta, nell'agosto del '79, vi cercavo una cosa sola:  un indizio del tradimento di cui ero quasi sicuro. Il 15 marzo del 1981 invece mi sembrò una grande prova d'amore. Annotai anche queste frasi: "Per me ora sei l'Unico: il più intelligente, il più sensibile, il più sincero, il più giusto, il più dolce, il più desiderabile, il più sensuale. Tu sei così completo! Rappresenti la vera bellezza spirituale. Davvero per me sei così. Ed io, io ti amo e tu mi ami. Non è una cosa meravigliosa? Ce l'abbiamo fatta! Il nostro amore è troppo vero, unico e profondo perché la prova potesse fallire. Abbiamo vissuto insieme, giorno dopo giorno, arricchendoci ed essendo tanto felici. Sono emozionata e contenta perché finalmente sono riuscita a scriverti".

Misi la lettera tra le carte da usare per il romanzo. Se  mi fosse arrivata a Debrecen, forse non avrei smesso di amare Ifigenia.
Quando la lessi, tornato a Bologna, mi sembrò falsa e demente. Un anno e mezzo più tardi invece ne sottolineavo e trascrivevo le espressioni con venerazione commossa. Era diventato un documento prezioso, come il sepolcro di un eroe iniquamente condannato al suo popolo ingrato cui ha reso immensi benefici. Solo dopo la morte viene onorato, santificato, invocato nelle orazioni, e vanamente rimpianto per sempre.
Pensato questo, decisi di non divagare e copiai le poche parole scritte da quando conobbi Ifigenia al 31 dicembre del '78. Tredici ottobre: "Oggi una bella collega di una classe dove sono andato a fare una supplenza, mi si è offerta, ma io l'ho rifiutata". Nemmeno una parola di commento. "Soltanto anni dopo ci ricordiamo che il più grande avvenimento della nostra vita sentimentale si è attuato, senza che avessimo il tempo di accordargli una lunga attenzione, quasi di prendene conoscenza", pensai ricordando un suggerimento di Proust [7].

giovanni ghiselli

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[1] Catullo lo chiama "Cinaede Romule... impudicus et vorax et aleo (29, 5 e 10), Romolo invertito… libidinoso vorace e biscazziere, e anche, sia pure, forse, con ironia Caesar magnus (11,10), Cesare grande.
[2] Cfr. le parole di Adolph Cusins, il fidanzato di Barbara, la ragazza maggiore dell’esercito della salvezza nella commedia di Bernard Shaw. Egli dice al futuro suocero,  ricchissimo fabbricante di armi: “You do not understand the Salvation Army. It is te army of joy, of love, of courage…It takes the poor professor of Greek, the most artificial and self-suppressed of human creatures, from his meal of roots, and lets loose the rhapsodist in him; reveals the true worship of Dionysos to him; sends him down the public street drumming dithyrambs” (Major Barbara, Act II), Tu non capisci l’Esercito della Salvezza. E’ l’esercito della gioia, dell’amore, del coraggio… Porta via il povero professore di Greco, la più artificiale e autorepressa delle creature dal suo pasto di radici, e libera il rapsodo che è in lui; rivela in lui il vero cultore di Dioniso; lo manda nella pubblica strada a tambureggiare ditirambi. 
[3] Cfr. Orwell, 1984, trad. it. Mondadori, 1989, p.30: "Era nel Parco, in una fastidiosa giornata di marzo, rigida e ventosa, e la terra sembrava di ferro, e tutta l'erba sembrava morta e non c'era neppure un germoglio da nessuna parte, tranne qualche croco, qua e là, spuntato solo per essere spazzato dal vento".
[4] Catullo, Carmi, 8, 6. Allora là si facevano quei molti giochi amorosi.
[5] Cfr. Don Giovanni di Mozart-Da Ponte, I, 5: “Stelle! L'iniquo fuggì”
[6] Cfr. L'idea del Don Giovanni e la musica di Mozart, trad. it. Mondadori, Milano, 1981, p.98.
[7] Cfr. M. Proust, All'ombra delle fanciulle in fiore, trad. it. Einaudi, Torino,
1978, p.475-476.

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