domenica 12 gennaio 2014

La scuola corrotta nel paese guasto. VI capitolo


George Bernard Shaw
La telefonata mattutina di Margherita. Il proposito malfermo di concludere il rapporto. Ifigenia si offre di venire in montagna. L'ultimo viaggio da Bologna a Moena. Cesare e Cleopatra. Il peccato vero: fare sesso per dispetto. La ragazza si ammala, prende in mano la penna, scrive e disegna due piccoli autoritratti. La sciata balorda del Lusia


La mattina di venerdì 20 marzo, verso le sette e mezzo, mentre stavo uscendo da casa, sentii squillare il telefono, del tutto insolitamente per quell'ora.
"Chi può essere tanto presto?" mi domandai,  sperando del resto che fosse Ifigenia. Il proposito di non amarla più e di prepararmi alla solitudine era debole. Rimasi deluso dalla voce di mia sorella che chiamava da Moena e ci invitava a raggiungerla lassù: c'erano
anche suo marito e un gruppo di amici.
"Venite – disse - così stiamo un poco insieme".
"Io arrivo questa sera, volentieri, Ifigenia non so: oggi è molto impegnata all'Antoniano", risposi. Non volevo spiegare le nostre tragedie al telefono in fretta e furia, freneticamente, prima di correre a scuola.
"Aspettala! - mi esortò Margherita - Venite insieme domani mattina:  noi rimaniamo fino a domenica sera".
"Glielo dirò – conclusi - comunque tu e io ci vediamo".
Mia sorella non si era accorta che la ragazza non gradiva la compagnia dei suoi amici, né la sua, anzi oramai nemmeno la mia.
Per strada pensavo che era meglio se a Moena andavo senza di lei: avrebbe fatto scene odiose, come l'ultima notte dell’anno. Non era capace di sciare, non sapeva o non voleva osservare, tanto meno ascoltare; chi avremmo trovato non le piaceva; con me non andava
d'accordo. Non amava neppure il sole, sebbene all'abbronzatura tenesse parecchio, secondo la solita pretesa parassitaria di avere tutto, in cambio di niente. E in ogni caso Ifigenia era innamorata di un altro: che cosa voleva ancora da me?

Entrai in classe e assegnai il compito di latino. Mentre i ragazzi traducevano, cercavo di stabilizzare il vacillante proposito di terminare il rapporto. Scrissi all'Antonia che l'amore più grande, e bello della mia vita era finito. Aggiunsi una frase tratta dallo Zibaldone: "anche io davo il mio contento in custodia alla malinconia". Doveva essere l'epigrafe sulla pietra tombale della relazione che invece aveva ancora qualche mese di vita.
All'inizio dell'intervallo ero incerto se telefonarle, cosa che avevo fatto sempre, quasi come un rito dovuto e pure festoso, ogni volta che lei  era rimasta a casa. Formai il numero poco convinto, tanto che lo sbagliai. Lo rifeci con l'intenzione di dirle soltanto che la salutavo, poiché subito dopo la scuola sarei andato in montagna.
Non intendevo invitarla. Ma il telefono era occupato. Allora sentii una voglia impaziente e nervosa della sua voce. Finalmente rispose.
"Ciao. - dissi - Ti telefono per salutarti: subito dopo la scuola vado a Moena. Ci sono Margherita e i suoi amici".
Senza esitare un istante rispose: "No Gianni, aspettami fino alle sei. Ti prego. Ho voglia di venire con te, anche di vedere tua sorella. Mi sono svegliata di ottimo umore. Mi manchi".
Così mi spiazzò, mi eccitò, mi commosse. Mi vennero le lacrime agli occhi; ebbi un'erezione violenta. Non fui capace di mantenermi fedele al primo proposito, di tenerla in rispetto e a distanza da me, come avrei voluto, siccome immaginavo che a Moena e in presenza di Margherita si sarebbe comportata da canaglia.
"Sì tesoro, ti aspetto, sì vieni, mi fa tanto piacere davvero", risposi. Non che fossi accecato al punto di non prevedere dispiaceri grossi; il fatto è che in fondo sentivo di averne bisogno, per capire meglio e per fare capire scrivendo. Sei curioso lettore di quest'ultimo viaggio da Bologna a Moena dei due amanti degenerati in quasi nemici? Se non ti interessa, salta al capitolo successivo. Nel pomeriggio andai a correre i 5000 metri al campo sportivo: lo feci in un tempo buono per il mese di marzo. Allora pensai che,  portandola in montagna con me, non solo facevo del bene a lei, siccome la aiutavo a non degradarsi con quel ballerino di mezza tacca, ma anche a me stesso in quanto frequentandola acquistavo
comunque potenza, mentale e fisica.

Alle sei e mezzo della sera dunque partimmo per la valle di Fassa. Io avevo buone
intenzioni. All'inizio eravamo  in discreta armonia.
Cantavamo Marinella di Fabrizio De Andrè, scambiandoci sguardi per quanto lo consentiva la guida, e sorridendoci, come due che si vogliono bene, o addirittura si amano. Andava così nel novembre del '78, il primo mese del nostro rapporto, quando ci guardavamo nelle pupille con ammirazione reciproca, con allegria, con gioia, e osservandola io non potevo fare a meno di ringraziare la Mente dell'Universo di averla messa sulla mia strada.
Divinam ego putabam…
Appena usciti dal casello di Padova ovest però, mi innervosii poiché avevo dimenticato di fare benzina nell'autostrada, mentre fuori le pompe erano già chiuse, e i distributori automatici non li sopporto. Ifigenia intanto, accesa la radio, aveva cercato e trovato la musica rock, e la teneva a tutto volume. "Musica drogata", pensai. Né  mi aiutava colei a rimediare la necessaria benzina. Mi domandavo:" Che cosa è venuta a fare in montagna con me?".
A Borgo Valsugana finalmente, vidi un distributore aperto; dopo il rifornimento mi tranquillizzai un poco. Anche perché erano cessati quei rumori d'inferno. Rimanemmo in silenzio fino a Trento, dove Ifigenia disse: " Ehi, vecchio signore!"
"Che cosa vuoi dire?" le domandai.
"No, tu devi rispondere ‘Dei immortali!’" ordinò.
Stetti al gioco: "Dei immortali!".
"Vecchio signore, non scappare!".
Dovevo rispondere: "Non scappare? Vecchio signore? A Giulio Cesare questo?".
Erano battute del Cesare e Cleopatra di Bernard Shaw . La fanciulla le aveva provate all'Antoniano, nel pomeriggio. Per un quarto d'ora fu divertente, ma ripetuta decine di volte la scena divenne monotona, quindi ossessiva, noiosa e odiosa. Non la finiva più di
ripetere: "Ehi, vecchio signore!". Con voce da bimba. Smisi di risponderle, ma continuò fino a Moena.
"Mancanza di misura – pensavo - di educazione, di intelligenza. probabilmente è adatta a
quel ballerino utile, forse, ad allungare una fila”.
Si rispondeva da sola. Con voce da uomo. Provava un  piacere depravato.
"Sfinge, tu abusi dei secoli"
"Sono più giovane di te, benché tu abbia ancora una voce da bimba"
"Ma che regina d'Egitto!".
Verso l'una arrivammo. Disse: "Buonanotte, vecchio signore" poi si avviò verso  camera sua.
Mi sentivo così poco amato, così strumentalizzato, e provai tanto risentimento che pensai: "Se non vado a letto con quella, gliela do vinta ancora una volta. E' venuta a Moena solo per abbronzarsi e sfruttarmi: non prova attrazione, né stima, né affetto per me. Adesso però le faccio vedere cosa provo io per lei".
Mi involgarivo, mi mettevo a un livello più basso e triviale del suo: Ifigenia non voleva fare sesso con me; io avevo intenzione di imporglielo per dispetto, con risentimento e volontà di rivalsa .

Andai in camera mia a posare il bagaglio, quindi salii la rampa di scale che ci separava e bussai alla porta della sua stanza. Mi aprì. Entrai. Le chiesi: "Hai voglia di dormire?"
"No" rispose pur stropicciandosi gli occhi, come faceva, a qualsiasi ora, quando voleva dare a vedere di essere già mezza morta di sonno.
"Bene – dissi - allora neanche io. Quindi facciamo l'amore". Come se fosse stato suo dovere farlo comunque: anche senza tenerezza, né simpatia, poiché era quanto lei mi doveva in cambio dell'aiuto per l'esame di recitazione, e del fatto che l'avevo portata in montagna.
Copulammo una sola volta, squallidamente. "Ecco il peccato vero – pensai - non è fare l'amore, come ci inculcavano i preti, ma fare sesso in questa maniera priva di gioia". Quindi cominciai a vestirmi, senza parlare. Ma Ifigenia disse: "Gianni, resta a dormire con me".
La guardai. Era nuda. Aveva un'aria davvero stanca, quasi sofferente e malata. Mi diede pena. La sua dignità residua non le consentiva di cadere con il nostro rapporto in una specie di semiprostituzione senza reagire con una scena di affetto e con una simulazione di amore.
"D'accordo" risposi. Volevo contribuire a salvarci la faccia, ma sapevo che nella sua richiesta non c'erano sentimenti buoni per me. Dormii un paio di ore, poi tornai in camera mia, pieno di odio, di compassione e di schifo.
La mattina, verso le nove, andai a chiamare Ifigenia che era già pronta; quindi scendemmo insieme nella sala da pranzo. Avevo voluto evitarle l'imbarazzo di salutare da sola Margherita e i suoi amici. Questi stavano finendo la colazione; come ci videro entrare, si alzarono in piedi, ci applaudirono e fecero dei gran complimenti. In effetti la ragazza era bella assai, e imbelliva anche me. Dopo, salimmo sulla pista del Lusia. Ifigenia si era
procurata sci e scarponi, ma non volle provarli; "forse domani" disse.
Quando furono le dieci anzi, accusò un forte male di stomaco e volle rientrare in albergo per stendersi nel letto. Sarebbe tornata più tardi. Sciando, pensavo a lei che mi aveva accompagnato per soffrire e farmi soffrire: non sciava, non parlava, non vedeva il paesaggio, aborriva il gruppo di mia sorella, nemmeno del sole e dell'abbronzatura si curava. Era venuta sulle Dolomiti per chiudersi in una stanza e poi lamentarsi. Mi venne in mente un compagno di scuola di quinta ginnasio che in gita scolastica, nel 1960, proprio a Moena, durante la cena, chiese un panino. Siccome non glielo portarono, abbaiò: "Boia di un Giuda, ho fatto spendere quindici mila lire a mio padre per non mangiare neanche un panino? E tu Ghiselli, perché mi hai detto che questi posti dove ci affamano sono bellissimi? Era meglio se restavo a casina, e quei soldi me li tenevo in saccoccia, boia  madosca!" Vecchio, bestiale, titanico Maurizio Sessi, tutto istinto. Anche colei era tutto istinto, nemmeno  benevolo nei miei confronti, ed era meglio se non veniva a Moena. Rimuginavo
fastidiosi pensieri, mescolati e temperati con ricordi buffi.

Alle tre cercai di telefonarle. Una voce rispose che la signorina non era in albergo. "Cosa? -  pensai - è uscita?"
Cominciavo a sentire il morso vipereo della gelosia, quando la vidi apparire con la faccia pallida, immersa nel bavero rialzato del montone nuovo, quasi bianco anche lui. Era più attraente del solito.
"Stai meglio?" le domandai.
"No, sto ancora male. Sono tornata perché in camera da sola avevo paura. Ti aspettavo, ma tu non arrivavi mai. Non hai nemmeno telefonato. Speravo che lo facessi".
"Infatti, lo stavo facendo in questo momento, tesoro. Sarei venuto adesso, se tu mi avessi detto che gradivi la mia presenza. Prima non ti ho chiamata perché pensavo che stessi dormendo o smaltendo il dolore. Davvero non ti è passato, creatura?"
"No, gianni, sto peggio di prima".
"Moena, o cara, noi lasceremo,/ la vita uniti trascorreremo:/de' corsi affanni compenso avrai,/la tua salute rifiorirà", canticchiai quasi senza ironia. In effetti era verde a vedersi.
Come mi diceva la mamma mia quando ero bambino e adolescente, perché smettessi di strapazzarmi affaticandomi troppo con gare di corsa, di nuoto, di bicicletta. Senza contare lo studio matto e disperatissimo delle materie numeriche che non capivo.
Ma la bellezza di Ifigenia era inattaccabile; integrale era: anche se mutava colore non cambiava sostanza. "Cosa pensi che sia, cocca?" le domandai. Mi venne in mente Helena Sarjantola, e la sera di quel luglio lontano, quando alla stessa domanda rispose: "Ho male al ventre: potrei essere in cinta, ma potrebbe anche essere un cancro". Io allora la amai.
"Non lo so - fece Ifigenia - sento dolori forti sotto lo stomaco, a destra. Forse è il fegato. "Bellina! – pensai - Le tue vene tremano senza tregua, come cespugli di rose"  .
"Ti accompagno in albergo poi rimango là – dissi - ho sciato abbastanza".

Tornammo a La Campagnola e salimmo in camera sua. Si stese sul letto. Volle che le tenessi una mano e leggessi i miei appunti del mese di Marzo. Lessi le annotazioni copiose dalle quali avrei tratto i due capitoli precedenti. Ifigenia ascoltava con attenzione.
Quando ebbi finito, disse: "Bravo, continua così: ci sai fare." Poi mi chiese il quaderno per scriverci qualche cosa. Glielo diedi e volsi lo sguardo fuori dalla finestra, ai monti Pallidi che, declinando il sole dall'altra parte, cominciavano a coprirsi di rose. "Presagio d'estate felice" pensai, come avevo fatto a Moena nella primavera che precedette l'incontro con la ragazza bella, bruna e vivace.
Rivolsi una preghiera al sole che rosseggiava tra le pietre dei monti: "Falla diventare un'attrice famosa, e fammi scrivere un capolavoro capace di educare un popolo intero". Il dio non diede alcun segno. Invece mi chiamò Ifigenia per restituirmi l'agenda con queste parole: "Caro gianni, sto male da morire. Ho il fegato in cattivo stato: ‘visceri guasti dai ripugnanti sospiri’, e mi sento quella persona infelice, malata che sono diventata. Ma io
non sono così di natura. Una delle mie caratteristiche è essere sana oltre che allegra, vitale, ecc. Tu dici che vuoi il mio Bene e secondo te il mio Bene è che tu continui a scrivere, a essere forte. Dici che sono infelice e non ti chi… ". Qui si interrompe. In fondo alla pagina sono disegnati due volti piccoli, con occhi grandi ma poco espressivi, con capelli folti, nasi leggermente carnosi e pronunciati, denti appena un poco fuori dalle labbra sensuali. Visi
alquanto simili al suo.
A cena Ifigenia continuò a fare la grande malata: mangiò solo del riso scondito, e subito dopo, tra lamenti e sospiri, volle tornare in camera. L'accompagnai. Mi pregò di rimanere a dormire con lei.
La mattina seguente si svegliò guarita e contenta. Allora le proposi di sciare con me, sulle piste del Lusia: il gruppo di mia sorella era andato su quelle del San Pellegrino, perciò non avremmo incontrato nessuno che, conoscendola, potesse vederla cadere, posto che fosse caduta. Così la convinsi: infatti temeva il ridicolo. Mi seguì in direzione della discesa Le Cune-Valbona che per un principiante, a onore del vero, è alquanto difficile. Voglio dire che non fui un bravo maestro, né un amico, portandola da quella parte. Comunque la precedevo, mi giravo e la incoraggiavo a tentare i brevi tratti che ci separavano. Le davo pure suggerimenti vari sulla tecnica sciistica dove del resto io stesso ho più da imparare che da insegnare. Non potei evitarle di cadere innumerevoli volte, anche pesantemente. Nei casi peggiori mi piombava addosso, e, precipitando, mi trascinava con sé. Allora dovevo rimettere in piedi tutti e due, con fatica ogni volta maggiore. Dopo pochi metri
di scivolata, ricadeva, più o meno male, ma sempre cadeva.
A metà discesa si tolse gli sci, esasperata e, credo, ammaccata; mi accusò persino di avere voluto ammazzarla buttandola giù per quel burrone scosceso. Risposi che la pista non era nera, e che cercavo di insegnarle con il metodo attraverso il quale avevo imparato io: anche a nuotare avevo cominciato buttandomi dal moscone dove non toccavo, quando non ero sicuro di galleggiare.
Replicò sdegnata che lei era diversa da me, e non voleva rischiare la vita; quindi mi consegnò i suoi sci e cominciò a scendere camminando. Ogni due passi imprecava. Mentre facevo la discesa da solo, con i suoi sci tra le braccia, pensavo: "Ma guarda se quella, da quando frequenta una scuola di recitazione, deve avere l'ardire di credersi una gran donna, superiore a te. Hai visto come era goffa e vigliacca? Hai contato quante volte è caduta? Se non ti ama più, siccome pensa di trovare un principe azzurro nell'ambiente dello spettacolo, vada pure a cercarlo nel teatro il suo eroico burattino. Sarà lo strappo nel cielo di carta a darle coscienza dell'errore che ha fatto cambiando te con una marionetta. In fondo colei è stata pure una palla di piombo attaccata con una catena ai tuoi piedi leggeri  per invalidarne la corsa. Oggi per esempio, sai quanto avresti sciato più volentieri con tua sorella, o anche da solo, piuttosto che con questa noiosa balorda! Per quanto riguarda la tua opera d'arte poi, non credere che tale cretina sia necessaria; anzi, comincerai a scrivere con impegno totale quando quella sciagurata sarà andata via. E intanto, finché rimane, disturba. Sparita lei, tu sarai libero da tanto tumore; passata la sofferenza della resecazione, ti sentirai veloce e potente: potrai lanciarti spedito verso la meta dell'arte".
La aspettavo alla stazione intermedia di Valbona. La vidi arrivare dopo una mezz'ora.

govanni ghiselli

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1 commento:

  1. Questo capitolo mi piace moltissimo...in certi punti fa venire i brividi...quando l'amore sta finendo sembra davvero un fuoco che muore,un attimo brucia e un attimo sembra spento. Penso che se si è amata tantissimo una persona poi non può esserci indifferenza e che sia necessario arrivare ad odiarsi per ottenere la catarsi che può aprire le porte ad una nuova relazione,un sentimento forte va consumato fino in fondo.
    Le storie lasciate a metà strappate dal loro naturale consumarsi fanno soffrire troppo perché lasciano troppi dubbi e troppi rimpianti.Per smettere di amare una persona bisogna perdere il rispetto fino all'ultima traccia e consumare ogni altro sentimento buono fino alla fine. Questo capitolo mi affascina perché sembra una danza e se fosse una musica credo che sarebbe il bolero...un crescendo travolgente ed erotico. Eros e tanatos. Amore e odio. Giovanna

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