venerdì 31 gennaio 2014

La scuola corrotta nel paese guasto. IX capitolo, seconda parte



Neuschwanstein

I castelli reali: Neuschwanstein e Linderhof. La via del ritorno.

La mattina seguente, di buonora, partimmo diretti al castello di Neuschwanstein. Lo trovammo dopo lunga ricerca. Da lontano sembrava bello, antico e fatato; da vicino apparve ibrido; l'interno era contrassegnato dal guazzabuglio. Come l’anima di Ludwig, come anche le nostre.
Mentre ne percorrevamo le sale e le gallerie, imbrancati con altri turisti, pensavo al pover'uomo che si piccava di intendere la bellezza ideale e si circondava di tanta confusione reale. Sulle montagne pesavano nuvole quasi nevose che versavano un freddo umido e grigio. Presagio di un’estate mortuaria.
"L'inverno non finirà mai, mai" dissi imitando il sovrano. Nella dimora reale ogni cosa era spropositata e caotica: la struttura che contamina falso gotico e falso romanico, la chiesastica sala del trono enorme, pacchiana nelle colonne viola e turchine, nella decorazione grottesca, nella scalinata che porta all'abside dove è dipinto un Gesù Cristo benedicente il sovrano per grazia di Dio.
Le altre stanze, meno grandi, apparivano ancora più sovraccariche: dappertutto lampadari mastodontici, statue di santi, di eroi, di dèi, mosaici e affreschi asfissianti, privi di ordine, gusto e misura; insomma la negazione del bello con semplicità. Mi vennero in mente alcune scene del film. Il monarca sdentato e ingrassato, l'eroe capovolto a farmakov~[1], a mostro deforme preso di mira dalla natura, domanda esterrefatto: "Von Holnstein è qui, a Neuschwanstein?" Il conte traditore aveva ordito una congiura, in combutta con una marmaglia di burocrati, medici, servi e impiegati.
Guardavo Ifigenia immemore e muta.
"Mi procuri del veleno. Basta andare in farmacia". Il colonnello Dürckeim, l'aiutante di campo meravigliosamente fedele, voleva salvare il suo sire, cercava di spingerlo a Monaco perché rivolgesse un proclama all'esercito e al popolo amici. Ma Ludwig aveva deciso di lasciarsi annientare: "Nemmeno otto elefanti riuscirebbero a trascinarmi in quella città che odio!". E il fellone Von Holnstein lo fece afferrare da quattro infermieri insolenti che lo portarono sul lago dall'acqua nera dove una sera piovosa di giugno il mostro affogò,  riconsacrandosi re.
Usciti dal castello maggiore, partimmo per Linderhof. E' una villa in stile rococò. Sotto un cielo sempre gelido e scuro riconoscemmo la fontana senz'acqua e le rampe della sbrecciata scalea apparse nel film di Visconti. Nelle stanze sontuose e sovraccariche ci soffocava la decorazione fittissima che per giunta si moltiplicava in una miriade di specchi situati dovunque. Scrutavo me stesso per vedere se in quelle giornate di inerzia fossi ingrassato e imbruttito, poco o assai. Ne avevo il timore siccome Ifigenia non sembrava gradire la mia vicinanza. La parte più desolata e
angosciante però fu la grotta artificiale dove il re disgraziato passava giornate intere fissando l'acqua e le pareti livide. Mentre osservavo quel lugubre stagno, riflettevo sull'infinita solitudine di Ludwig esiliatosi dal mondo insopportabile degli speculatori travestiti da uomini[2]. Pensavo che sarei arrivato anche io a un rinnegamento così completo della vita sociale, se avessi perduto il gusto
dell'educazione, l'interesse e l'amore degli adolescenti: in questo deprecabile caso un torpore del genere mi avrebbe paralizzato.

Guardai Ifigenia: il buio, la muffa e lo squallore della cupa caverna, le avevano tolto bellezza e salute. Dicevo a me stesso: "Io sto con questa cui non ho più niente da dire, sperando che mi faccia
sentire la necessità di scrivere un capolavoro; vado a letto con tale donna nevrotica, ingenerosa, opportunista, che non stimo, che nemmeno mi piace del tutto, che a sua volta mi frequenta solo per il suo misero utile: la porto in viaggio con me e l'aiuto a preparare l'esame di abilitazione. Il nostro amore è pieno di falsità, brutto, asfissiante quanto la grotta penosa e le stracariche stanze del re".
Sulla via del ritorno, attraversando l'Austria, manifestai il mio stato d'animo alla compagna muta come un baule. Quel suo viso da commediante, capace di trasformarsi ad ogni sobbalzo, era
immoto. Allora la provocai: le chiesi perché fosse venuta in Baviera e continuasse a stare con me, se non muoveva un dito per aiutarmi quando mi vedeva depresso o preoccupato. Prima rispose: "Vengo con te siccome mi porti a vedere bei posti. Sul lago poi, una volta tanto, abbiamo dormito e mangiato in un locale come si deve". Quindi aggiunse: "E anche perché tu sei un uomo di raro valore".
"Che io sia un uomo di qualche valore, può essere, ma ancora non l'ho dimostrato. Per ora dunque tu mi  segui in quanto ti porto lontano da casa, e talora ti invito a mangiare, perfino a dormire, in
locali decenti" ribattei. Quindi pensai:"Appena trova uno più capace e desideroso di impiegare energie  e risorse   per lei, questa mi pianta. E io che ho ancora bisogno di una donna siffatta per
scrivere chissà quale opera d'arte!".
Ifigenia, con calma e tristezza, replicò: "Se mi stimassi, tu non mi umilieresti con tali rinfacciamenti! Che cosa vuoi sentirti dire? Che sei un genio? Che scriverai un capolavoro capace di fare epoca? Lo farai, quando ne avrai sentita la necessità; intanto però non tormentarti, e soprattutto non danneggiare me: io ho tutta la vita davanti". Detta questa formula, tacque.
"Cosa vuoi che sia tutta la vita! – pensai - Soltanto il sogno di un’ombra”[3].
Sentivo che non mi amava, né mi voleva bene, né poteva aiutarmi, siccome non credeva più in me. Fermai la Volkswagen e scesi. Tirava vento. "Io un vecchio. Una testa intronata tra spazi
ventosi"[4], mi dissi. Nessuno invero, nemmeno il più benintenzionato, avrebbe potuto aiutarmi se mi arrendevo all'angoscia. Reagii. Rientrai nell'automobile. Mi rassegnai a quella donna. Finché c'era. Bastava non lasciarsi distruggere: presto se ne sarebbe andata per la sua strada.
Sarebbe stato il segno che dovevo cominciare a scrivere. La pena andò via. Sì, avrei scritto qualcosa di grande e meraviglioso contro il piacere immorale. Che Ifigenia mi amasse non era destino né era il mio scopo. Avrei vissuto fino in fondo quel fallimento amoroso poiché era emblematico dell'infelicità dei rapporti umani in un'età egoista.

giovanni ghiselli

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[1] Una specie di capro espiatorio
[2] Cfr. A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, trad. it. Adelphi, Milano, 1983, p.278, Tomo II: "Il nostro mondo civilizzato non è altro che una colossale mascherata. Vi si trovano cavalieri, preti, soldati, dottori, avvocati… Ma essi non sono ciò che rappresentano, non sono altro che maschere dietro le quali di regola stanno degli speculatori (money-makers)".
[3] Pindaro  chiama l'uomo"sogno di ombra" (skia'" o[nar/a[nqrwpo" ", Pitica 8, vv. 95-96).
[4] Cfr. T. S. Eliot, Gerontion, 15-16:"I an hold man,/ A dull head among windy spaces".

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