martedì 14 gennaio 2014

La scuola corrotta nel paese guasto. VI capitolo, seconda parte



Affresco raffigurante Priapo, Pompei
Il conforto delle montagne dalla voce umana. La cena con i chiarimenti dovuti. L'ira di Priapo[1] . Il patto dei quindici giorni di separazione

Ifigenia si avvicinava ridicolmente, zoppicando  e appoggiandosi sulle racchette.
"Vecchia e brutta", pensai.
Tornammo in albergo. L'accompagnai in camera sua. Guardai l'orologio.
"Sono le cinque – dissi - adesso ci laviamo, ci riposiamo un poco, e ci vediamo tra un'ora".
"Va bene – rispose - a cena". Ma questa era alle otto:  Ifigenia non voleva fare l'amore. Una volta non perdevamo nemmeno occasioni  di pochi minuti, e non sempre avevamo una stanza per la nostra libidine. Mi allontanai facendo questa constatazione triste, e soffrendone, ma senza darlo a vedere.  Scesi in camera mia, mi lavai e asciugai in fretta, poi uscii per parlare con i monti amici e con il santo volto di luce che tramontava. Erano quasi le sei. A quell'ora, nelle sere non annuvolate di primavera, le rocce antropomorfe prendono un colore rosa pallido che suscita buoni presagi, evoca ricordi di maggi odorosi, di calde, aulenti sere piene di voli. I  monti rosati dall'ultimo sole mi parlarono anche. Dissero: "Non preoccuparti, Gianni, non te la prendere. Non sei più il bambino infelice che dovevamo consolare trent'anni fa, quando oltre noi non avevi nessun conforto. Né avevi ricordi buoni. Ora sei un uomo di trentasei anni e non sei male: hai avuto il beneficio dell'amore di donne anche belle e fini, hai conosciuto il pensiero di persone intelligenti e geniali, hai costruito dentro di te una forza che nessuno potrà sottrarti, che, anzi, si accresce di giorno in giorno mentre la propaghi insegnando. Ifigenia è una ragazza piuttosto bella, non è proprio scema, non è disonesta del tutto,  ma non è della tua levatura: tu puoi trovare di meglio. Pensa a quanta strada in salita hai fatto da quando venivi qua bambino angariato a domandarci: ‘Ditemi monti dalle facce umane, tu amico Piz Meda, tu caro Sas da Ciamp, tu fraterno Mesdì, che cosa ho fatto di male per soffrire in questa maniera? Fatemi capire in che cosa sbaglio, piccolo come sono, e smetterò. Quali peccati ho commesso perché la mamma dai capelli neri e lucenti come le piume dei grandi uccelli che planano adagio sopra le vostre foreste scure, dagli occhi verdazzurri e inafferrabili come le trote dei vostri torrenti, in due settimane che sono qui a patire aspettando, non mi ha mandato nemmeno una cartolina con baci e saluti?’ Ricordi quanto  male ti andava? Camminavi solo su queste strade, ed eri malvestito  e pativi, eppure pensavi che ti saresti rifatto: un giorno, magari lontano, però sicuro, non saresti più stato un bambino pezzente in balìa di gente scontenta di sé. Ebbene, da allora diverse creature ti hanno amato; alcun persone ti hanno ammirato; altre hanno dovuto temerti; i colleghi invidiosi ti hanno fatto una guerra iniqua che giustamente hanno perduto, poiché gli allievi hanno preso non loro, ma te quale modello di cultura e di vita. Pensa alle donne che ti hanno donato l'amore nella gioia, o l'amicizia nella contentezza, l'affetto e la solidarietà nei momenti difficili. Ti è andata bene, Gianni, molto bene ti è andata. E non è finita qui. Dai retta a noi che siamo più antiche dei tuoi poeti, più di Sofocle che prediligi, anche dell'antichissimo Omero siamo più antiche noi, e abbiamo visto tanta gente soffrire. Ma tu sai farlo con dignità, con nobiltà, come i tuoi eroi della tragedia: tu dal dolore sai trarre comprensione[2] e accrescimento . Con la volontà buona e l'intelligenza hai conquistato quanto nemmeno osavi sperare: Ifigenia, per esempio; sopra tutte Ifigenia. Cos'altro vuoi? Dillo a te stesso, dillo a noi, e lo otterrai. Quella ragazza, dopo che ti sei abituato alla soddisfazione della conquista, ed è scemato il piacere, non la volevi davvero e per sempre. Hai pensato che con la sua bellezza esterna volesse sottomettere la tua interiore, meno apparente ma più produttiva e reale, e non hai voluto scambiare oro con rame, come fece Glauco cui Zeus tolse il senno[3]. Non è così?"
Ammisi e ne fui confortato. Capii che avevo motivi razionali e reali per essere ottimista. Ringraziai i monti amici, le convalli rifugi di fiere montane, i dossi sporgenti, le rupi scoscese a me familiari , e tornai a La Campagnola.

Entrai in camera mia. Erano circa le sette. Poco dopo arrivò Ifigenia, assai complimentosa. Probabilmente aveva pensato di essere stata troppo dura. Mi faceva carezze e moine straordinarie. Troppe, e, nel contesto di quella giornata, stonate. Alle sette e mezzo scendemmo a cenare. La ragazza continuava a ripetere:
"Quanto sei bello, Gianni, quanto sei bravo! Arcibravissimo sei!".
Aspettai che la scimunita tacesse un momento, quindi le domandai: "Perché sei venuta in montagna senza intenzione di fare niente con me: né parlare sul serio, né sciare, né passeggiare, né fare l'amore?"
Capì che non poteva continuare a mentire e rispose: "Non lo so. Forse per abbronzarmi. E' vero che non ho più tanta voglia di stare con te, non quanta ne avevo una volta: mi spiace".
La osservavo con calma. Ne fu incoraggiata.
Continuò: "I miei sentimenti verso di te adesso non li capisco. Dammi del tempo; anzi, facciamo una cosa. Finita la cena, saliamo in camera mia. Quindi torniamo a Bologna, e là, per due settimane, tu non mi cerchi, nemmeno al telefono. Io devo pensarci bene a quello che sento, alla nostra situazione, a noi due. Prima non ho voluto stare con te siccome ero stanchissima e tutta indolenzita per le cento o mille cadute della mia disastrosa discesa. Quando ho fatto la doccia, mi sono vista piena di lividi. Ma non è solo per lo sfinimento e il pestaggio della discesa che non ho voluto. Credo di essere venuta qua con l'intenzione di vedere se tu mi vuoi bene, se io te ne voglio; insomma per capire qualcosa di noi. Io non sono più sicura di niente. Ora per esempio mi è venuta una gran voglia di fare l'amore".
Sembrava sincera. Probabilmente lo era. Le luccicavano gli occhi mentre mi fissava. Salimmo in camera sua. La chiave chiudeva. Lo facemmo una volta, con gusto e allegria. Dopo l'orgasmo disse: "Lavati Gianni, facciamolo ancora zazzì". Andai nel bagno contento.
"Come ai bei tempi" pensavo. Tornai presto nel letto dove lei aspettava fissando il soffitto con un sorriso. Io però non ebbi una seconda erezione decente. Dopo tre o quattro tentativi falliti, mi scostò con una mano, e, senza guardarmi, esclamò con dura ironia: "Poi sono io quella che ne ha poca voglia! Diciamola una buona volta questa verità!"
"Sì, capita pure a me di non avere più tanto desiderio quanto una volta – risposi - ma generalmente tu sei più fredda di me. L'anno scorso il meno entusiasta ero io; quest'anno sei tu".
"Già, oramai sono quasi anni che le cose non vanno bene tra noi" confermò.
Allora dissi:" Adesso partiamo. A Bologna proveremo la separazione che hai proposto tu poco fa. Per due settimane non ti cercherò. Faremo in modo di non vederci neppure a scuola. Dopo questi quindici giorni tu, però, mi dici con tutta franchezza e chiarezza se vuoi restare con me. Io lo vorrei, nonostante questa sera sia rimasto molto al di sotto della nostra sufficienza e di quanto ti meriti. Io ambisco a restare con te. Non è soltanto dal numero degli orgasmi però che si misura la volontà di stare insieme".
Ifigenia annuì.

Ci vestimmo, prendemmo i bagagli già preparati prima di cena e scendemmo. Il proprietario dell'albergo, quando andai a pagare il conto, disse: "Torni a Bologna tanto presto? Io, con una femmina del genere  starei via almeno due anni". Non si vedeva quanto male andassero le cose tra noi. Meglio così: non affliggevamo altri che noi stessi.
Durante il viaggio scherzammo sulla nostra tragedia; forse ci aveva rallegrati la decisione presa di non vederci per quindici giorni. Arrivati sulla tangenziale, poco prima di separarci, ancora una volta e forse per sempre, recitammo un vicendevole atto di dolore: "Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore...".
Davanti alla porta di casa sua le ricordai il nostro patto, onesto e chiaro. Rimasto solo, nel letto, non ero del tutto infelice. Nemmeno  felice ero, però.

giovanni ghiselli

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 [1] E' il dio dell'erezione. Un dio grande. E’ inutile, anzi è perfino dannoso, cercare di propiziarselo con farmaci che, anzi, suscitano la sua ira santa.
[2] Cfr. Eschilo, Agamennone, vv. 177: "tw'/ pavqei mavqo"", attraverso il dolore la comprensione.
[3] Cfr. Iliade, VI, vv. 234-236.

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