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mercoledì 29 aprile 2015

Il Satyricon: il ribaltamento dei boni sanctique mores - seconda parte

Questa conferenza Si terrà venerdì 8 maggio 2015, alle 18, 30 nella biblioteca Scandellara di Bologna

Vediamo ora la morte di Petronio.

Il maestro di eleganza della corte neroniana con i suoi successi suscitò l'invidia[1] di Tigellino  che lo accusò di essere amico di Scevino, uno dei congiurati contro Nerone[2]. Petronio si uccise con la stessa neglegentia con la quale era vissuto: si tagliò le vene, poi le legò di nuovo e le riaprì:"audiebatque referentis nihil de immortalitate animae et sapientium placitis, sed levia carmina et facilis versus. Servorum alios largitione, quosdam verberibus afecit. Iniit epulas, somno indulsit, ut quamquam coacta mors fortuitae similis esset" (Annales, XVI, 19), ascoltava gli amici che non gli raccontavano nulla sull'immortalità dell'anima né gli riportavano massime filosofiche ma poesie leggere e versi allegri. Tra gli schiavi alcuni premiò, altri fece frustare. Andò a cena e si abbandonò al sonno, affinché la morte, sebbene imposta, sembrasse casuale.  
"Di solito si osserva che quelle poesie e quei versi ci riportano agli epigrammi di sapore alessandrino contenuti nel Satyricon. Ma bisogna andare più in là. Nella prospettiva degli Annales, i discorsi filosofici o gli argomenti eroici, che il personaggio rifiuta, ci riporta del pari alla morte socratica di Seneca[3] o a quella come sul campo di Lucano[4]. Non interessa sapere se il Petronio di Tacito, suicidandosi a quel modo, abbia voluto o no scherzare sulle pose un po' scolastiche e retoriche dei due che si erano uccisi l'anno prima…Importa far notare che per Tacito un rapporto tra quei due generi di morte, e un rapporto di contrasto, esisteva, e che egli proprio dal Satyricon, dalle polemiche più o meno esplicitamente in esso contenute, poteva aver tratto l'ispirazione per quella più tragica e definitiva polemica. E direi pure ricavata dal romanzo…la scena in cui Petronio, già aperta la via al sangue, alcuni schiavi gratifica con elargizione, altri con sferzate. C'è un qualche cosa di Trimalcionesco in tutto questo, quasi una volontà di sbalordire con un gioco di contrasti, di mostrare ad un tempo due facce, generosa l'una, spietata l'altra. E, a voler scendere più a fondo, un che di Trimalcionesco, di quel Trimalcione proprio che da vivo fa il morto e per cui vita e morte si risolvono in volontà di potenza e controllo di sé, lo si potrebbe trovare in quel Petronio che si incide le vene, poi a capriccio le lega, e poi le apre di nuovo, quasi a volersi sentire già morto o una volta morto vivo ancora, con gli altri che certo lo piangono, spettacolo più che realtà"[5].

"Nulla ci costringe a storcer Petronio a interpretazioni, le quali lo portino via dall'epoca che unica sembra addirglisi; epoca di grandiosità teatrale, di stravagante e grottesco istrionismo, di guizzanti contrasti, di foschi bagliori, di orgia, in cui dominano i saliti in potenza, i miserabili fatti signori, gente d'avventura, di grossolanità e di perversa raffinatezza, i bassi fondi della società ammantati di splendore e d'oro. In tal senso gli storici della letteratura discorrono per Petronio di sfondo sociale del I secolo d. C. e più specialmente del tempo di Nerone…Il Satyricon è una potente, tumultuosa rappresentazione della vita secondo lo spirito del primissimo Impero, una visione umana di realistica evidenza, di incisive intuizioni psicologiche, di spregiudicatezza picaresca "[6].
Questo testo frammentario e composito si potrebbe ascrivere al genere del romanzo, ma anche ad altri.
"In un codice miscellaneo del sec. XV, il Traguriensis o Parisinus 7989, gli estratti di Petronio …sono indicati come "frammenti del quindicesimo e sedicesimo libro" [7].
Secondo Fellini lo stato frammentario in cui ci è giunta l'opera è la ragione principale del suo fascino:"Il Satyricon è un testo misterioso prima di tutto perché è frammentario. Ma il suo frammentarismo in un certo senso è emblematico. Emblematico del generale frammentarismo del mondo antico quale appare a noi oggi" [8].
 Il regista di Rimini in un altro libro racconta:"Durante la convalescenza dalla pleurite allergica avevo riletto Petronio ed ero rimasto affascinato da un particolare che prima non avevo saputo notare: le parti mancanti, cioè il buio, fra un episodio e l'altro. Già a scuola, quando si studiavano i prepindarici, avevo cercato di riempire con l'immaginazione il vuoto fra i vari frammenti…quella faccenda dei frammenti mi affascinava davvero. Mi colpiva l'idea che la polvere dei secoli avesse conservato il battito di un cuore ormai spento. Mi fece pensare alle colonne, alle teste, agli occhi mancanti, ai nasi spezzati, a tutta la scenografia cimiteriale dell'Appia antica o in generale ai musei archeologici"[9].
Romanzo e cinema contribuiscono all'educazione:"E' nel romanzo, nel teatro, o nel film che si coglie che Homo sapiens è nello stesso tempo indissolubilmente Homo demens. E' nel romanzo, nel film, nel poema che l'esistenza manifesta la sua miseria e la sua tragica grandezza, con il rischio dello scacco, dell'errore, della follia. E' nella morte dei nostri eroi che facciamo le nostre prime esperienze della morte. E' dunque nella letteratura che l'insegnamento sulla condizione umana può prendere forma vivente e attiva per illuminare ciascuno sulla propria vita"[10].
 Per quanto riguarda le situazioni estreme, anche estremamente scabrose, presenti in questo tipo di letteratura "carnevalizzata", autorizzo la mia scelta attraverso un pedagogista segnalato da Morin:"L'adolescente non ha bisogno di letteratura annacquata, cosiddetta per ragazzi; come ha affermato Yves Bonnefoy:"Questi giovani esseri attendono che dei grandi segni carichi di mistero e di gravità si levino di fronte a loro, essi sanno bene che ben presto dovranno affrontare il mistero e la gravità della vita"[11].
Dopo il regista e i pedagogisti sentiamo un disciplinarista di primo livello:" La caratteristica formale più evidente del Satyricon è l'alternanza di brani in prosa e brani in poesia, il cosiddetto "prosimetro". Gli inserti metrici contrappuntano continuamente la narrazione prosastica e risultano perfettamente integrati nel racconto: continuano l'azione o la commentano, offrendo comunque elementi utili a esplicitarne il significato"[12]. Un poco come le parti corali delle tragedie, aggiungo.
Nella letteratura italiana il primo prosimetro è la Vita Nuova di Dante.
 Un altro genere cui  è stato detto appartenga il Satyricon è la satira menippea[13] che presenta il prosimetro e il travestimento derisorio di situazioni serie. In latino abbiamo frammenti delle Saturae Menippeae di Varrone e l'Apokolokyntosis [14] di Seneca, l'inzuccamento del divo Claudio, ossia la derisione continua dell'imperatore morto, presentato come brutto, scemo e crudele.
 Interessanti sono alcune considerazioni di M. Bachtin sulla satira menippea che il critico russo (1895-1975) considera parte della "letteratura carnevalizzata". Bachtin ascrive a questo tipo di letteratura ""il dialogo socratico" il quale" come genere determinato ebbe vita breve, ma nel suo processo di disgregazione si formarono altri generi dialogici, tra cui la satira menippea. Ma non la si può, naturalmente, considerare come un puro prodotto della decomposizione del "dialogo socratico"  (come a volte si fa) poiché le sue radici affondano direttamente nel folclore carnevalesco…Niente altro che una satira menippea sviluppata fino ai limiti del romanzo è il Satyricon di Petronio…La" satira menippea divenne uno dei principali portatori del sentimento carnevalesco nella letteratura fino ai nostri giorni…La satira menippea è caratterizzata dalla eccezionale libertà di invenzione narrativa e filosofica…La particolarità più importante del genere della menippea è che la più audace e sfrenata fantasia è qui internamente motivata, giustificata, illuminata da un fine puramente filosofico-ideale: quello di creare situazioni eccezionali  per provocare e sperimentare l'idea-parola filosofica, la verità, impersonata nella figura del saggio che cerca questa verità. Sottolineiamo che la fantasia serve qui non per la incarnazione positiva della verità, ma per la sua ricerca, provocazione e, soprattutto per la sua sperimentazione…Caratteristico della menippea è il largo uso di generi inseriti: novelle, lettere, orazioni, simposi ecc.; è caratteristica la mescolanza di discorso in prosa e in versi…Queste particolarità di genere della menippea non rinacquero semplicemente, ma si rinnovarono nella creazione di Dostoevskij…Ma la differenza principale è che l'antica menippea non conosce ancora la polifonia"[15].
Un nesso tra il dialogo socratico-platonico e il romanzo viene suggerito anche da Nietzsche:"il dialogo platonico fu per così dire la barca su cui la poesia antica naufraga si salvò con tutte le sue creature: stipate in uno stretto spazio e paurosamente sottomesse all'unico timoniere Socrate, entrarono ora in un nuovo mondo, che non poté mai saziarsi di guardare la fantastica immagine di questo corteo. Realmente Platone ha fornito a tutta la posterità il modello di una nuova forma d'arte, il modello del romanzo: questo si può definire come una favola esopica infinitamente sviluppata, in cui la poesia vive rispetto alla filosofia dialettica in un rapporto gerarchico simile a quello in cui per molti secoli la stessa filosofia ha vissuto rispetto alla teologia, cioè come ancilla. Questa fu la nuova posizione della poesia, in cui Platone la spinse sotto la pressione del demonico Socrate"[16].

Ma torniamo per un momento a Bachtin:" La principale azione carnevalesca è probabilmente la burlesca incoronazione e successiva scoronazione del re del carnevale…  Il carnevale è la festa del tempo che tutto distrugge e tutto rinnova"[17].
Aggiungerei che l'itinerario incoronazione/scoronazione, oltre che burlesco può essere tragico. Si può pensare al film Ludwig di Visconti con la storia del "lunatico re" di Baviera [18] o ancor meglio all' Edipo re di Sofocle che si capovolge due volte: da bambino abbandonato e trovatello a re, da re a mostro deforme e mendicante:"Dalla mendicità essenziale scaturisce l'impeto ascensionale che porta al desiderio di incoronarsi. E in quel cammino inesorabile appare una barriera, un "tabu" del quale forse conserva una traccia il mito di Edipo re. Si tratta del primo superuomo, di colui che ingenuamente vuole incoronarsi. Edipo sapeva ogni cosa, tranne chi fosse. La tragedia ce lo mostra mentre chiede chi sia, cioè, di chi sia figlio. La tragedia sorge dal riconoscimento. Riconoscimento che è abbattimento"[19]. In questa prospettiva Edipo può essere accostato a Trimalchione, come del resto a qualsiasi altro social climber, oppure a certe donne di Tacito fanatiche del potere imperiale[20]:"Solo quando comanda, l'uomo si sente redento dalla sua sostanziale condizione di dover mendicare ciò di cui ha bisogno. Poiché, se l'uomo possedesse un essere, come le altre creature, non dovrebbe sentire quell'imperiosa necessità di apparire come colui che autorizza e concede. La regalità non nasce dal fatto che gli uomini hanno bisogno di essere comandati, ma dal fatto che l'uomo ha bisogno di comandare, trasformare la sua povertà originaria in potere; coprire la propria nudità, quella nudità che non può esibire rivestendola di splendore; e cingere la sua testa indifesa con una corona"[21].
Sentiamo l'imperatore Adriano della Yourcenar: "Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere interamente me stesso, prima di morire…Ho compreso che ben pochi realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro opere interrotte. Quell'ossessione di una vita mancata concentrava i miei pensieri su di un punto, li fissava come un ascesso. La mia sete di potere agiva come quella dell'amore, che impedisce all'innamorato di mangiare, di dormire, di pensare, di amare perfino, sino a che non siano stati compiuti certi riti"[22]
       
"Niente altro che una satira menippea sviluppata fino ai limiti del romanzo è il Satyricon di Petronio…La satira menippea divenne uno dei principali portatori del sentimento carnevalesco nella letteratura fino ai nostri giorni…La particolarità più importante del genere della menippea è che la più audace e sfrenata fantasia è qui internamente motivata, giustificata, illuminata da un fine puramente filosofico-ideale: quello di creare situazioni eccezionali  per provocare e sperimentare l'idea-parola filosofica, la verità…Sottolineiamo che la fantasia serve qui non per la incarnazione positiva della verità, ma per la sua ricerca, provocazione e, soprattutto per la sua sperimentazione . A questo fine i personaggi della satira menippea salgono in cielo, scendono agli inferi, visitano la luna, vagano attraverso paesi assolutamente fantastici, si trovano in situazioni di vita eccezionali"[23]
 Per il nostro lavoro non ha troppa importanza definire il genere di appartenenza di questo lungo e splendido frammento; comunque possiamo dire che nel Satyricon compaiono, parodiati, diversi temi presenti nel romanzo greco. Molti di questi   risalgono all' epos[24], in particolare alla madre di tutti romanzi, che è l'Odissea: per esempio la separazione degli amanti i quali poi si riuniscono. Nel romanzo ellenistico  si tratta di due giovani di sesso diverso, mentre qui, nel travestimento derisorio del poema omerico fatta da Petronio, c'è un "triangolo" omosessuale; nell'Odissea c'è  l'ira divina che perseguita il protagonista; ebbene la collera del nume nella parodia di Petronio diventa la gravis ira Priapi (139), ossia del dio dell'erezione, un dio grande, forse il più grande dell'opera, il quale provoca l'impotenza del personaggio principale, Encolpio. Questo è un nome parlante, anche troppo, poiché viene  spiegato in diversi modi:  jEnkovlpio" è colui che sta in seno (kovlpo"), l'insinuante, o, al contrario, l'infantilmente ingenuo. "Il narratore Encolpio è quello che si definisce oggi un "antieroe": abbastanza giovane, ben educato, codardo, e amorale. Conformemente alle teorie dominanti (e forse alla pratica) della Roma imperiale, è sessualmente ambivalente, un fattore intorno al quale ruota molta parte della trama. Nella storia ha una parte quanto gli altri personaggi, e non è il narratore onniscente e disinteressato familiare al lettore moderno di romanzieri come Conrad"[25].
Paolo Fedeli insiste sul rapporto tra epos e romanzo che ne raccoglie la successione quasi come un figlio:"Già in Hegel, dall'Estetica ai Lineamenti di filosofia del diritto, la nascita del romanzo moderno s'identifica con la definitiva scomparsa dell'epos ed è necessaria conseguenza del succedersi delle epoche universali"[26]. Leggiamo qualche parola di Hegel che definisce il romanzo "la moderna epopea borghese". Il filosofo dell'idealismo prosegue mettendo in luce analogie e diversità tra epica e romanzo:"Qui ricompare da un lato la ricchezza e la multilateralità degli interessi, delle condizioni, dei caratteri, dei rapporti di vita, il vasto sfondo di un mondo totale ed insieme la manifestazione epica di avvenimenti. Quel che manca è però la condizione del mondo originariamente poetica da cui si origina l'epos vero e proprio. Il romanzo nel senso moderno presuppone una realtà già ordinata a prosa, sul cui terreno esso, nella propria cerchia e riguardo sia alla vivacità degli avvenimenti che agli individui e al loro destino, cerca di ridare alla poesia, nei limiti in cui ciò è possibile con i presupposti dati, il diritto da lei perduto. Perciò una delle collisioni più comuni e più adatte per il romanzo è il conflitto della poesia del cuore con la prosa contrastante dei rapporti e l'accidentalità delle circostanze esterne"[27].
Altra componente riconoscibile in questa "miscela originalissima di forme letterarie"[28] è la fabula milesia, ossia la novella licenziosa introdotta nelle lettere latine in età sillana da Cornelio Sisenna che tradusse i Milhsiakavvv di Aristide di Mileto (II sec. a. C.). Appartengono a questo genere la storia della "Matrona di Efeso" (111-112) e quella del fanciullo di Pergamo (85-87)  di cui ci occuperemo più avanti.
“All’origine di quell’interessante filone letterario che culminò nel Romanzo Greco, troviamo le Favole Milesie. Pare si trattasse di gaie novelle nello stile che poi sarà tipico del Boccaccio. Un proptotipo di queste storie è quella dell’inconsolabile vedova di Efeso…”[29].
“La tradizione dei classici è stata veramente avara con la letteratura di genere sfizioso. Per esempio, non ci sono pervenute le Milesie di Aristide di Mileto, quelle tradotte in latino da Cornelio Sisenna. Se le avessimo saremmo veramente a cavallo. Pare infatti che i Romani se le portassero nelle loro sarcinae, durante la campagna di Crasso contro i Parti[30]; cosa che potrebbe contribuire a spiegare perché fossero stati sconfitti nella battaglia di Carre. I Parti, dopo la vittoria, si presere gioco dei Romani, perché neppure in guerra “riuscivano ad astenersi da certe letture”. Il sarcasmo dei vincitori ci conferma ovviamente nella convinzione che queste Milesie dovevano essere cosine veramente sfiziose”[31].
"In conclusione, credo che ormai si debba ammettere che i rapporti con la fabula Milesia e con la satira menippea individuano e privilegiano solo due componenti del romanzo: la mescolanza di prosa e versi da un lato e il carattere licenzioso e dissacratorio di alcune novelle dall'altro. Nonostante l'indubbia importanza di tali componenti, né l'una né l'altra ci aiutano a decifrare il romanzo nel suo complesso. C'è da chiedersi, addirittura, se il titolo stesso del romanzo di Petronio non sia una creazione posteriore di chi volle sottolineare un rapporto privilegiato proprio con la satira menippea.
La tradizione manoscritta di Petronio oscilla fra Petronii Arbitri Satyricon, Petronii Arbitri Satirarum libri, Petronii Arbitri satyri fragmenta, Satirici libri. Su tutti i titoli grava il sospetto di formulazione non originaria, proprio perché tutti inquadrano in un genere letterario, la satira menippea, l'opera petroniana: in tal modo si sarà pensato di giustificare il fenomeno più appariscente che ne caratterizza la struttura: l'alternanza di prosa e versi. Alla luce, però, dei recenti ritrovamenti papiracei (il cosiddetto romanzo di Iolao), che hanno mostrato come il prosimetrum fosse adottato-non solo sotto forma di citazione dotta-anche nel romanzo greco, è possibile recuperare anche per questo aspetto una linea di continuità fra la produzione romanzesca ellenistica e quella petroniana: ciò ci permette di risalire in modo ancora più agevole al grande archetipo del romanzo d'amore, d'avventura e di viaggi, costituito dall'Odissea"[32].  
Il Satyricon  dunque va letto in relazione ai suoi modelli greci che sono diversi, non escluso quello sublime della tragedia; rispetto a questi però le situazioni originarie vengono ridicolizzate, o addirittura rovesciate attraverso l'azione degli antieroi che si agitano nel paese guasto dell'età neroniana. Il protagonista di A Rebours di Huysmans, l'esteta Des Esseintes, disgustato del mondo, trova in Petronio uno dei vertici della letteratura latina che del resto viene in grandissima parte stroncata e rifiutata. Riferisco alcuni giudizi poiché riguardano autori che vengono studiati nei Licei e sono anche fortemente contrastivi con quelli sentiti o dati. Quindi lo studente potrà dare il suo giudizio (krivnein), facendosi kritikov" . 
"Virgilio…gli appariva non solo uno dei più esosi pedanti, ma anche uno dei più sinistri rompiscatole che l'antichità abbia mai prodotto. I suoi pastori, usciti pur mo' dal bagno e azzimati di tutto punto, che si scaricano a vicenda sul capo filastrocche di versi sentenziosi e gelati; il suo Orfeo ch'egli paragona a un usignolo in lacrime; il suo Aristeo che piagnucola per delle api; il suo Enea, questo personaggio indeciso e ondeggiante che si muove come un'ombra cinese, con mosse da marionetta".
Virgilio avrebbe per giunta compiuto "impudenti plagi di cui fan le spese Omero, Teocrito, Ennio, Lucrezio"; la metrica  sarebbe stata "tolta in prestito alla perfezionata officina di Catullo". In conclusione:"quella miseria dell'epiteto omerico che torna ogni momento e non dice nulla, non evoca nulla; tutto quell'indigente vocabolario sordo e piatto, lo mettevano alla tortura".
 Ovidio non è trattato meglio: le sue "cacate" esercitavano sullo schifiltoso anacoreta un fascino "dei più modesti e sordi".
"Una sconfinata avversione provava per le grazie elefantesche di Orazio, per il balbettio di questo insopportabile centochili che fa lo smorfioso con lazzi di vecchio saltimbanco infarinato".
 Cicerone, "il Cece" lo annoiava per "la greve compattezza del suo stile carnoso, ben nutrito ma degenerato in grasso, privo d'osso e di midolla…né molto più di Cicerone lo entusiasmava Cesare, famoso pel suo laconismo; perché l'eccesso contrario diventava in questo aridità da caporalmaggiore, secchezza da appunto, stitichezza incredibile e sconveniente".  Sallustio, pur sopravvalutato dai "falsi letterati" era "meno sbiadito degli altri; Tito Livio, patetico e pomposo; Seneca, turgido e scialbo; Svetonio, linfatico ed embrionale".
Si salva Tacito:"il più nerboruto tuttavia nella sua voluta concisione, il più aspro, il più muscoloso di tutti costoro".
 Lucano in parte se la cava ma "L'autore che amava davvero, che gli faceva bandire per sempre dalle sue letture le roboanti tirate di Lucano, era Petronio. Ecco finalmente un acuto osservatore, un fine analista, un pittore meraviglioso…Questo romanzo verista, questa fetta di vita romana tagliata nel vivo, che non si preoccupa, checché si dica, né di riformare né di satireggiare i costumi; che fa a meno d'una conclusione e d'una morale; questa storia senza intreccio, dove non succede nulla, che mette in scena le avventure della selvaggina di Sodoma che analizza con imperturbabile acutezza gioie e dolori di codesti amori e di codeste coppie; che senza che l'autore faccia mai capolino, senza che si lasci andare a un solo commento, senza che approvi o maledica gli atti o i pensieri dei suoi personaggi, dipinge in una lingua da orafo i vizi d'una civiltà decrepita, d'un impero che si va sfasciando-conquideva Des Essaintes, il quale nella raffinatezza dello stile, nell'acutezza dell'osservazione, nel fermo piglio con cui la narrazione veniva condotta, intravvedeva singolari parentele, curiose analogie con i pochi romanzi del tempo suo che non gli dispiacevano"[33]
 Noi andremo cercando i brani collegabili al tema dell'amore, in particolare dell' amore adulterato, notando il ribaltamento e la degradazione delle situazioni erotiche, soprattutto per quanto riguarda il  sentimento e il desiderio amoroso :" I have lost my passion: why should I need to keep it/Since what is kept must be adulterated? , ho perduto la mia passione: perché dovrei conservarla, se ciò che si conserva deve diventare adulterato?-potrebbe dire il giovane Encolpio, come  Gerontion (vv.61-62), il vecchio, di T. S. Eliot,  che non fu alle Termopili. Riporteremo anche le considerazioni sulla scuola, dato che il narratore è uno scholasticus.
 Inoltre cercheremo analogie con il mondo contemporaneo ubi- dove, altrettanto-"sola pecunia regnat" (14) solo il denaro comanda, e tutto il resto è venale, si compra e si vende. Tale era la situazione all'inizio del breve regno di Galba[34] secondo Tacito:"Venalia cuncta, praepotentes liberti, servorum manus subitis avidae " (Historiae , I, 7), tutto era in vendita,  assai potenti i liberti, caterve di schiavi avide per i repentini cambiamenti. Non poteva durare a lungo l'imperatore, non solo perché vecchio ma anche perché aveva dichiarato:"legi a se militem, non emi " (I, 5) che lui i soldati li arruolava non li comprava. La divinità unica non cambia nella società ottocentesca descritta da Balzac:"E non rappresntava egli[35] il solo dio moderno in cui si abbia fede, il Denaro in tutta la sua potenza, espresso da una sola fisionomia?"[36].
Secondo Mazzarino il Satyricon rappresenta l' ultima fase dell'età giulio-claudia appunto, un’età piena di contraddizioni:" movimento e turbolenza delle classi servili (gli schiavi, che già sotto Caligola si erano avvezzi ad accusare i loro domini, e che per il prevalere di dottrine stoiche ed orientali acquistano coscienza dei loro diritti, devono essere tenuti a freno con rigidi provvedimenti); rinnovamento sociale, di cui sono un aspetto i molti Trimalchioni.  il romanzo petroniano, il già citato Satyricon è l'epopea di questo mondo in cui i contrasti, lungi dal placarsi, danno vita e colore alla società che si viene formando o già in parte s'è formata; in cui i parvenus, i Trimalchioni insomma, tipicamente contrastano con la vecchia classe dirigente, e pur con essa si appaiano, per quanto riguarda le inattese e capricciose richieste di luxus ( Tacito, che probabilmente non ha letto mai il romanzo, credeva di sapere che il mondo del Satyricon fosse parodia degli uomini stessi di Nerone); in cui la nova simplicitas, che arieggia la cultura degli Epicurei, schiettamente contrasta con la rigida severità dello stoicismo di un Trasea, ed entrambe, variamente penetrate nelle classi dirigenti, comunque rappresentano la tradizionale cultura ellenistico-romana, di fronte al proselitismo orientale e particolarmente giudaico o cristiano"[37].
"Sotto Nerone, Il padovano Trasea Peto, "la virtù in persona", come lo definì Tacito[38], si uccise[39]  accusato di lesa maestà: aveva scritto una monografia su Catone Uticense"[40].
Il triangolo amoroso del Satyricon dunque è formato da  due giovani avventurieri non digiuni di lettere[41]: Encolpio, il personaggio narrante, uno scholasticus come si è detto, un frequentatore di scuole,  Ascilto, più rozzo e spregiudicato, e da un ragazzino sedicenne Gitone conteso dai due. "Petronio, con questi suoi personaggi, e con l'irrefrenabile dinamismo del suo narrare, anticipa per un verso le figure dei medievali clerici vagantes, o intellettuali vagabondi, dall'altro il romanzo picaresco[42] spagnolo. Ma il suo romanzo possiede una carica erotica intensa, che può raggiungere l'oscenità, sempre riscattata, tuttavia, da una girandola di trovate linguistiche, o dall'improvviso verificarsi di eventi che stemperano nella beffa, nell'ironia e talvolta nella malinconia la crudezza del contesto[43]".

All'inizio del testo che ci è arrivato (il libro XV quasi completo con la Cena Trimalchionis, e parti del XIV e del XVI su un totale di 20 o 24 libri, come l'Odissea)   troviamo una discussione nel portico di una scuola tra Encolpio e il retore Agamennone sulle cause della corruzione dell'eloquenza.
Encolpio denuncia la separazione della scuola dalla vita:"
et ideo ego adulescentulos existimo in scholis stultissimos fieri, quia nihil ex his, quae in usu habemus aut audiunt aut vident, sed piratas cum catenis in litore stantes, sed tyrannos edicta scribentes, quibus imperent filiis ut patrum suorum capita praecidant, sed responsa in pestilentiam data, ut virgines tres aut plures  immolentur, sed mellitos verborum  globulos et omnia dicta factaque quasi papavere et sesamo sparsa  " (1, 3),  e perciò io penso che i ragazzi nelle scuole diventino stupidissimi, poiché niente ascoltano o vedono di quello che è utile nella vita, ma pirati che stanno in agguato sulla spiaggia con le catene, ma tiranni che scrivono editti con i quali ordinano ai figli di tagliare le teste dei loro padri, ma responsi dati contro la pestilenza che si sacrifichino tre vergini o  più, ma polpette di parole tonde e mielate e tutte le espressioni e le azioni quasi condite di papavero e sesamo.
E' la critica della scissione tra letteratura e vita che si ritrova in Marziale:"Non hic Centauros, non Gorgonas Harpyasque/invenies: hominem pagina nostra sapit "(X, 4), non qui troverai Centauri, Gorgoni e Arpie: la nostra pagina sa di uomo. "Controluce questo negativo rivela un positivo petroniano:"Io penso che questi ragazzi a scuola si rimbecilliscono perché non odono né vedono nulla di ciò che abbiamo sottomano". E' un j'accuse in nome della concretezza e del realismo, il nocciolo della poetica petroniana"[44]. L'hominem di Marziale può essere avvicinato alla prima parola dell'Odissea, anche se a[ndra è come significato specifico più assimilabile a virum
Petronio, epicureo, atticista e classicista, dichiara che la vita  contiene situazioni più interessanti di tutte le scuole di retorica.
"Petronio è pittore del vero, e ridà l'accento stesso della vita degli umili divenuti grandi; la saporosa loquela di ogni giorno, sciolta dalle rigide leggi della scuola, la ridà adattata ai temperamenti e alla cultura degli interlocutori del romanzo, con una festività, una lepidezza, una proprietà, una efficacia che sono una meraviglia. Non egli parla: fa parlare "[45].       
 Il discorso di Encolpio infatti è anche un rifiuto del retoricume stucchevole e oblioso. "Tutta retorica. Vesciche piene d'aria"[46].  
In particolare Encolpio mette sotto accusa il cattivo gusto dello stile asiano grasso e bolso, dando voce all'atticismo di Petronio:"qui inter haec nutriuntur, non magis sapere possunt, quam bene olere qui in culina habitant. pace vestra liceat dixisseprimi omnium eloquentiam perdidistis. levibus enim atque inanibus sonis ludibria quaedam excitando effecistis ut corpus orationis enervaretur et caderet " (2, 1- 2), quelli che vengono nutriti in mezzo a questi banchetti, non possono avere un gusto migliore del profumo di quelli che abitano in cucina. Con vostra pace mi sia concesso di avere affermato che voi per primi avete rovinato l'eloquenza. Infatti con suoni leggeri e vani, suscitando certi giochi di parole, avete fatto in modo che il corpo dell'orazione si afflosciasse e cadesse.
E' questo il correlativo stilistico dell'ira di Priapo. Infatti si può dire della bellezza quanto Sofocle  afferma della aJjlhvqeia in uno dei versi conclusivi dell'Antigone :"ojrqo;n aJlhvqei ' ajeiv" (v. 1195), la verità è sempre una cosa dritta.  Nel prologo dell'Edipo re  (v.39) il sacerdote chiede aiuto al sovrano contro la peste e la sterilità, sia della terra sia delle donne, in quanto, afferma,"levgh/ nomivzh/  q  j hJmi'n ojrqw'sai bivon", sei detto e sei ritenuto quello che ci ha raddrizzato la vita.   
Dritta è anche la virtù: “et haec recta est: flexuram non recipit” (Seneca Ep., 71, 20)
Quindi Encolpio mette sotto accusa il tipo dello studioso, estraneo  alla vita, lo stesso che Nietzsche definirà "l'eterno affamato, il "critico" senza piacere e senza forza, l'uomo alessandrino, che è in fondo un bibliotecario e un emendatore, e si acceca miseramente sulla polvere dei libri e degli errori di stampa"[47]. Il protagonista del Satyricon  lo contrappone ai grandi tragici:"nondum iuvenes declamationibus continebantur, cum Sophocles aut Euripides invenerunt verba quibus deberent loqui, nondum umbraticus doctor ingenia deleverat, cum Pindarus novemque lyrici Homericis versibus canere timuerunt. et ne poetas solum ad testimonium citem, certe neque Platona neque Demosthenen ad hoc genus exercitationis accessisse video " (2, 3-5), ancora i giovani non erano chiusi nelle vuote declamazioni, quando Sofocle e Euripide trovarono le parole con le quali dovevano parlare, non c'era ancora un erudito cresciuto nell'ombra a scempiare gli ingegni, quando Pindaro e i nove lirici [48],  si peritarono a cantare in versi omerici. E per non far venire solo i poeti come testimoni, di certo non trovo che Platone né Demostene si sono abbassati a questo genere di esercitazione. 
Anche il classicista Quintiliano  vuole  escludere l'ombra, la solitudine e la muffa dall'educazione del ragazzo che sarà un buon  oratore:"Ante omnia futurus orator, cui in maxima celebritate et in media rei publicae luce vivendum est, adsuescat iam a tenero non reformīdare homines neque illa solitaria et velut umbratica vita pallescere. Excitanda mens est et adtollenda semper est, quae in eiusmodi secretis aut languescit et quendam velut in opaco situm ducit, aut contra tumescit inani persuasione; necesse est enim nimium tribuat sibi, qui se nemini comparat "[49] , prima di tutto il futuro oratore che deve vivere frequentando moltissime persone, e in mezzo alla luce della politica, si abitui  fin da ragazzo a non temere gli uomini e a non impallidire in quella vita solitaria e come umbratile. Va tenuta sveglia e sempre innalzata la mente che in solitudini di tal fatta o si infiacchisce e nella tenebra prende un certo puzzo di muffa, o al contrario si gonfia di vuoti convincimenti: è infatti inevitabile che attribuisca troppo a se stesso chi non si confronta con nessuno. Il maestro pallido desta una diffidenza o addirittura una ripugnanza istintiva, anche fisica nel giovane discepolo. Fidippide, il figlio di Strepsiade, rifiuta i cattivi educatori della scuola di Socrate anche per il loro colore giallastro, malsano:"aijboi', ponhroiv  g' oi\\jda. tou;" ajlazovna"-tou;" wjcriw'nta" tou;" ajnupodhvtou" levgei" (Nuvole, vv. 102-103), puah!, quei furfanti,  ho capito. Tu dici quelle facce pallide, gli scalzi.  ;         
Lo stile deve risaltare non per gli orpelli ma per una sua bella naturalezza:" grandis et, ut ita dicam, pudica oratio non est maculosa nec turgida, sed naturali pulchritudine exsurgit " ( Satyricon, 2, 6), l'orazione grande e, per così dire, pura, non è chiazzata né enfatica ma si eleva per bellezza naturale. L'orazione insomma deve essere non truccata e non artefatta, come non deve esserlo la donna[50].
Lo stile atticista dei commentarii di Cesare viene elogiato da Cicerone con queste parole: “nudi enim sunt, recti et venusti, omni ornatu orationis tamquam veste detracta” (Brutus, 262), infatti sono nudi, schietti e belli, senza alcun ornamento oratorio, come un corpo spogliato. 
" In una narrazione che dal grosso e pingue realismo ascende via via fino al terribile non esistono gonfiatezze; legge sua è l'eleganza, la vigile misura, e la legge sta scritta a caratteri indimenticabili in principio (2 6): grandis et , ut ita dicam, pudica oratio non est maculosa nec turgida, sed naturali pulchritudine exsurgit. Qui è il rovescio della letteratura convenzionale. Petronio, questo meraviglioso ascoltatore e contemplatore del reale umano, reagisce  contro la negazione sotto i primi Cesari affermatasi del buon senso e del buon gusto, contro il vuoto delle lettere, contro "il vanissimo strepito delle parole", contro "le bollicine melate di frasi e i detti e i fatti quasi sparsi di sesamo e papavero" (trad. Cesareo)"[51].
Secondo Funaioli tale reazione non può essere più tarda del primo impero:"Una così sana reazione nel III secolo? Ma c'è in quell'età che abbia in genere qualche vena e senso di scrittore nel mondo pagano? C'è fra gli Italici già dopo Tacito e Giovenale o, se piace, anche Svetonio, una fibra così vigorosamente individuale di artista, quando alla poesia o alla prosa del gentilesimo sono inaridite le interne fonti dell'essere?  Il disorientamento, si sa, è già vasto da Adriano in poi; da allora, nella poesia e nella prosa, è grettezza, angustia di purismo letterario, pedanteria, imitazione, disfacimento: almeno fra gli Italici, ché in provincia nuove energie si annunziano con Apuleio, poi sboccanti nel cristianesimo. Non a caso l'unico che avesse da dire qualcosa di suo e di sentito nella Roma del II secolo, M. Aurelio, scrisse in greco, nella lingua in cui meglio oramai si esprimevano le correnti ideali etiche e religiose avviatrici di quella fede che di lì a poco trasformò le anime e le lettere" (p. 114). 
"Si era caduti dall'antica grandezza, poiché ci si era discostati dall'imitazione dei classici: tesi puristica, che è poi quella di un Seneca il Retore e di un Quintilano. Oppure, passando dai pregiudizi letterari a quelli morali, poiché ci si era allontanati dall'antica virtù e ci si era immersi nella crapula: e in proposito da Catone in poi c'è tutta una letteratura. O infine, trasferito il problema dalla terra al cielo, poiché gli uomini non erano più religiosi[52]: e qui i termini di confronto sono Persio e Giovenale"[53].
Le retorica asiana aveva già ricevuto critiche, pur blande, dallo stesso Cicerone "rodiese" il quale sostiene che l'eloquenza, lasciata Atene[54], andò peregrinando per tutta l'Asia, e da questa contaminazione derivarono gli "Asiatici oratores non contemnendi quidem nec celeritate nec copia, sed parum pressi et nimis redundantes " (Brutus, 51), gli oratori dell'indirizzo asiano non trascurabili certo, per quanto riguarda la vivacità e la facondia, ma poco concisi, e sovrabbondanti. Migliori dunque i Rodiesi e più simili agli Attici:"Rhodii saniores et Atticorum similiores".
Molto più critico verso la retorica asiana è Dionisio di Alicarnasso. Lo storiografo e maestro di retorica trasferitosi a Roma nel 30 a. C.  nello scritto Sui retori antichi  condanna  l'eloquenza del tempo successivo ad Alessandro Magno considerata insopportabile per la teatralità: "l'eloquenza misia o frigia, l'etera venuta di recente da taluni fondi dell'Asia",  riuscì a scacciare la moglie legittima, ossia l'eloquenza attica  (1-3).
 Su questa linea di condanna si trova Encolpio:"Nuper ventosa haec et enormis loquacitas Athenas ex Asia commigravit  animosque iuvenum ad magna surgentes veluti pestilenti quodam sidere adflavit, semelque corrupta regula, eloquentia stetit et obmutuit. Ad summam, quis postea, Thucydidis, quis Hyperidis ad famam processit?" (2, 7-8), poco fa questa colossale  logorrea piena di vento è tornata ad Atene dall'Asia e ha soffiato, come da un astro latore di morbi, sugli animi dei giovani che si alzano verso le cose grandi, e una volta corrotti i princìpi, l'eloquenza si arrestò e ammutolì. Insomma chi, dopo questo, si avvicinò alla fama di Tucidide, chi di Iperide?[55].
Anche la poesia è decaduta:"ac ne carmen quidem sani coloris enituit sed omnia quasi eodem cibo pasta non potuerunt usque ad senectutem canescere" (2, 8), e neppure la poesia brillò del colore della salute ma tutte le opere alimentate per così dire dal medesimo cibo non riuscirono a incanutire fino alla vecchiaia. Nel paese guasto l'alimento della scuola, della poesia, della vita non può che essere avariato e quindi la corruzione è diffusa dappertutto.
Infine la pittura, argomento sul quale Petronio tornerà:" pictura quoque non alium exitum fecit, postquam Aegyptiorum audacia tam magnae artis compendiariam invenit " (2, 9), anche la pittura non ha avuto risultato diverso dopoché la sfrontatezza degli Egiziani ha trovato la scorciatoia di un'arte tanto grande. Intanto notiamo il biasimo dell'audacia che nei tradizionalisti non manca mai. La tecnica compendiaria viene di solito attribuita al cosidetto terzo stile pompeiano. Si può vedere un esempio di tale tecnica nella casa dei Vettii[56]. "Non bisogna confondere, come spesso s'è fatto, questa pittura compendiaria , cioè rapida ed evocativa,  con il moderno impressionismo, che tende a rendere con assoluta immediatezza un'emozione visiva. Consideriamo, scegliendo a caso, il gruppo di Ermafrodito e Sileno, nella casa dei Vettii. Il discorso pittorico è rapido, ha una cadenza accentata, vivace; ma scorre su uno schema del tutto convenzionale. E' una pittura a macchia…Nel giardino della Villa di Livia a Roma[57], si ha un "inventario" di piante, raffigurate a memoria: il pittore conosce la forma di ogni singolo albero o arbusto e la descrive con sicurezza; ma ciò che viene precisato con rapidi tratti di colore non sono le cose che l'artista vede, bensì le nozioni che ha di esse. Non dunque lo spettacolo della natura, ma le immagini della mente prendono forma e si fanno evidenti nell'arte; e la tecnica rapida e per cenni, compendiaria, non è una tecnica creata per rendere con immediatezza le emozioni visive ma per tradurre visivamente quelle immagini. Si spiega così come questa tecnica diventi anche più rapida e intensa nella pittura cristiana delle catacombe, le cui immagini puramente simboliche non hanno alcun rapporto con la realtà oggettiva"[58].
E' insomma una pittura lontana dal realismo rimpianto da Encolpio. "Anche nel ritratto si parte da "tipi"…Nelle tavolette che, tra I e V secolo, si ponevano in Egitto sulla mummia nei sarcofagi (detti ritratti del Fayum), la persona è rappresentata per lo più frontalmente, con grandi occhi spalancati per dare l'idea della vita; ma solo l'accentuazione di qualche tratto fisionomico richiama la figura reale del defunto. E', come si vede, un procedimento che non parte dal "vero" ma, muovendo dall'idea o dal tipo, tende ad accostarsi al vero: un procedimento, cioè, che va dal generale al particolare senza tuttavia implicare una presa diretta del reale"[59]. Fra tali ritratti viene mostrato quello di Paquio Proculo e sua moglie che provenie da una casa di Pompei e risale al I sec. d. C.
"Certo che sul piano delle idee, se non della scrittura, Petronio è un uomo d'altri tempi. L'alessandrinismo per lui è già del tutto al di qua della barriera. Per le lettere il problema non è toccato, ma lo è invece per la pittura, quando egli, per bocca di Encolpio, parla con disprezzo della pittura degli egittizzanti, con allusione scoperta al terzo stile pompeiano, e di una scorciatoia per l'arte, che attraverso un luogo di Plinio il Vecchio su Filosseno si riferisce chiaramente a quel periodo delle arti figurative. E la pittura, l'alessandrina, è paragonata all'oratoria che con essa fiorì, quella asiana, negata in blocco sempre da Encolpio nella sua violenta requisitoria in proposito e scusata solo sul piano della convenienza da Agamennone nella sua replica. E altrettanto per la poesia, ché nei riguardi della polemica più viva e recente, quella tra Lucano e Virgilio, egli, intermediario Eumolpo, tiene le parti del secondo. Né tuttavia della decadenza egli cerca una spiegazione storica e concreta, al modo dell'autore del "Sublime" o di quello del "Dialogo"[60]. Più avanti Ciaffi torna sull'argomento per avallare la datazione neroniana del Satyricon:" Nel primo episodio del racconto, quello della scuola di retorica, l'esercitazione pronunziata da Encolpio e la risposta a lui rivolta dal maestro si concentrano intorno a un problema, crisi dell'eloquenza e sue cause, che è tipico della società intellettuale del I sec., dall'anonimo autore del "Sublime" a Quintiliano[61], da Quintiliano all'autore del "Dialogo". Ma il tempo tanto più si delimita, se dall'eloquenza passiamo alla poesia. La requisitoria pronunziata da Eumolpo in via per Crotone contro il nuovo indirizzo anti-virgiliano dell'epica, che sacrifica il mito alla storia, non si può che riferire a Lucano…Né altra è la determinazione cronologica, se passiamo dalla letteratura alle arti figurative. Encolpio, sulla fine della dissertazione da cui siamo partiti, dopo aver detto che con una scuola del genere non ci sono più né oratori né storici né poeti, aggiunge:"Ed anche la pittura non finì altrimenti , da quando gli egittizzanti con la loro improntitudine trovarono una scorciatoia per tanta arte"[62]. Ora questa "improntitudine degli egittizzanti", che ridusse la via dell'arte a una "scorciatoia", mi sembra corrispondere al terzo stile di Pompei, che a Pompei si chiuse, proprio nella regione della città greca, con il terremoto del 63, e che anche noi chiamiamo egittizzante, perché vi dominano elementi ornamentali tolti dal repertorio di quell'ambiente geografico e culturale, quali fiori di loto e papiro, motivi a volute, teste di sfinge, ecc."   (pp. 54-55)
Quindi è il maestro di retorica Agamennone che parla, da esperto, dello stato, non buono, della scuola. Egli è uno che ha sudato nella scuola (ipse in schola sudaverat, 4, 1).

Continua

Giovanni Ghiselli

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[1] L'invidia degli uomini.
E' un sentimento molto diffuso. Lo stesso ostracismo secondo Plutarco è un'istituzione con la quale gli Ateniesi cacciavano in esilio quelli tra i cittadini che superavano gli altri per fama e potenza, e con questo placavano più l'invidia che la paura:"paramuqouvmenoi to;n fqovnon ma'llon hj; to;n fovbon" (Vita di Alcibiade, 13, 6)
L'invidia colpisce i poeti più grandi, afferma Ovidio:"Ingenium magni livor detractat Homeri " (Remedia amoris, v. 365) l'invidia deprezza il genio del grande Omero, come ha cercato di infamare il capolavoro di Virgilio:"Et tua sacrilegae laniarunt carmina linguae " Remedia amoris, v. 367), e lingue sacrileghe dilaniarono i tuoi carmi. Insomma l'invidia cerca di colpire le cime:"Summa petit livor; perflant altissima venti,/summa petunt dextra fulmina missa Iovis " Remedia amoris, vv. 369-370) l'invidia mira verso l'alto; i venti soffiano sulle vette più alte, i fulmini scagliati dalla destra di Giove mirano alle sommità.
 All'invidia dei detrattori Telchìni in effetti deve replicare Callimaco nel prologo degli Aitia , e, ancora più esplicitamente il poeta di Cirene ribatte con alcuni esametri  dell'Inno II  ad Apollo :
L' Invidia disse di nascosto agli orecchi di Apollo ("oJ Fqovno" jApovllwno" ejp& ou[ata lavqrio" ei'jpen", v. 100):
" non ammiro il cantore che non canta temi grandi quanto il mare".
Apollo respinse l'Invidia con il piede("to;n Fqovnon wJpovllwn podiv t& h[lasen", v. 103) e parlò così:
"grande è la corrente del fiume di Assiria, ma molta
lordura della terra e molta spazzatura trascina sull'acqua.
Le api portano l'acqua a Demetra non da ogni parte
ma quella che pura e incontaminata zampilla
da sacra sorgente piccola vena, fiore sublime".
Un'immagine del genere troviamo nel Cimbelino  di Shakespeare:"I mari sovrani generano mostri; i poveri tributari, i fiumi, danno invece alla nostra mensa pesci squisiti"(IV, 2).
Il grande fiume pieno di scorie è il grande poema quale Le Argonautiche  di Apollonio Rodio.
 Tornando a Tacito  l'invidia di Tigellino architetta la rovina di Petronio, "elegantiae arbiter ", principe del buon gusto della corte di Nerone il despota che "nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobavisset ", niente considerava piacevole e raffinato in quell'abbondanza, se non ciò che Petronio gli avesse approvato, "unde invidia Tigellini quasi adversus aemulum et scientia voluptatum potiorem "[1], di qui l'invidia di Tigellino come contro un rivale più forte nella conoscenza dei piaceri. Nell' incipit dell'Agricola  Tacito aveva riflettuto sull'invidia in generale, chiamandolo, con l'ignoranza del bene, vizio comune ai piccoli e ai grandi stati: "vitium parvis magnisque civitatibus commune  ".
  In effetti Dante individua questo vizio  soprattutto nelle corti:" La meretrice che mai dall'ospizio/di Cesare non torse li occhi putti,/ morte comune, delle corti vizio", Inferno , XIII, vv. 64-66.
  A. Schopenhauer in Parerga e paralipomena  fa una descrizione adatta al caso di Alcibiade:" alla gloria dei meriti di alta specie si oppone l'invidia ;  l'invidia che vi si oppone fin dai primi passi, perfino quando si tratta di meriti di infimo grado e non si ritira fino all'ultimo; perciò appunto l'invidia contribuisce parecchio a peggiorare il corso del mondo, e Ariosto con ragione definisce la vita come
questa assai più oscura che serena
vita mortal, tutta d'invidia piena (Orlando furioso, IV, 1).
L'invidia è appunto l'anima dell'alleanza dovunque fiorente e tacitamente stipulata, senza previa intesa, di tutti i mediocri contro il singolo individuo eccellente di qualsiasi specie"[1].
Concludo con le parole di Salieri davanti al genio di Mozart traendole dal microdramma di Puskin che sono andato a leggere dopo avere visto il film Amadeus  di Forman: "
Sono invidioso. Invidio; con tormento,
Profondamente, invidio. O cielo! dunque
Dov'è giustizia, quando il sacro dono,
Quando il genio immortale non compenso
D'amore ardente, non di dedizione,
Di sudori, di zelo, è, di preghiere.
Mi illumina la testa d'un ozioso
Vagabondo, d'un folle?...O Mozart, Mozart" (Mozart e Salieri).
[2] Cfr. Annales, XV, 49.
[3] Annales, XV, 62
[4] Annales, XV, 70.
[5] V. Ciaffi, op. cit., p. 58.
[6] G. Funaioli, Studi di letteratura antica, Zanichelli, Bologna, 1047, p. 114.
[7] V. Ciaffi (a cura di) Satyricon di Petronio, Utet, Torino, 1967, p. 9.
[8] F. Fellini, Fare un film, p. 101.
[9] F. Fellini, Intervista sul cinema, p. 136.
[10] E. Morin, La testa ben fatta, p. 48.
[11] E. Morin, op. cit., p. 48.
[12] G. B. Conte, Scriptorium Classicum 6, p. 9.
[13] Denominazione dovuta al filosofo cinico Menippo di Gadara, del III secolo a. C.
[14] Del 54 d. C., l'anno della morte dell'imperatore Claudio.
[15] M. Bachtin, Dostoevskij, pp. 147 sgg.
[16] La nascita della tragedia, p. 95.
[17] M. Bachtin, Dostoevskij, p. 162.
[18] To whose hands have you sent the lunatic King? Speak ( Shakespeare, Re Lear , III, 7) in mano a chi avete messo il re matto? Parlate.
[19] M. Zambrano, L'uomo e il divino, p. 142.
[20] In particolare Agrippina, la madre di Nerone. La incontreremo più avanti in tutta la sua terribilità, nel suo essere atrox .
[21] M. Zambrano, op. cit., p. 143.
[22] M. Yourcenar, Memorie di Adriano, pp. 84-85.
[23] M. Bachtin, Dostoevskij, p. 149.
[24]  Direi, contro altri interpreti fautori di una datazione più bassa, che i temi comuni discendono direttamente al Satyricon  dall'epos in quanto i romanzi greci a noi pervenuti sono successivi all'età di Petronio e Nerone.
E' pur vero quanto afferma P. Fedeli:"Petronio verrebbe ad essere anteriore agli autori greci di romanzi, che vedrebbero invece in Apuleio un loro contemporaneo. Com'è noto, successivi reperti papiracei hanno notevolmente alzato la cronologia delle prime testimonianze romanzesche ( i frammenti papiracei del Romanzo di Nino, infatti, sono del I sec. a. C.)…Forse la teoria che ha retto meglio all'urto dei tempi è la più antica e la più semplice (e probabilmente per questo essa è stata riproposta nelle epoche più diverse): il romanzo sarebbe sorto sulle ceneri dell'epos". (Lo spazio letterario di Roma antica, vol.I, p. 345).
V. Ciaffi, contro il Paratore (Il Satyricon di Petronio, Firenze 1933 I, pp. 144-146 e il Marmorale La questione petroniana, Bari, 1948, pp. 31-34), sostiene che un'estensione assai ampia del Satyricon non è incompatibile con quella di altri romanzi greci e latini:"Se le "Metamorfosi" di Apuleio e le "Etiopiche" di Eliodoro, quelle in undici libri e queste in dieci, sono tra quanti ne giunsero fino a noi i romanzi più estesi del mondo greco e romano, le "meraviglie di là da Tule" di Antonio Diogene e le "Babiloniche" di Giamblico, da noi, come si sa, non conosciute direttamente, ma attraverso i riassunti che Fozio ne ha lasciato, avevano ben altra portata narrativa, se quelle erano in ventiquattro libri, in sedici almeno queste. E non vale obiettare che nell'uno e nell'altro caso ridotta era forse la misura del libro, poiché vasta e complessa in proporzione è la materia compendiata dal patriarca" (op. cit., p. 10).
[25] J. P. Sullivan, Il "Satyricon" di Petronio , p. 26.
[26] Lo spazio letterario di Roma antica, vol.I, p. 346. 
[27] G. W. F. Hegel, Estetica, Tomo II., p. 1447.
[28] G. B. Conte, Scriptorium Classicum 6, p. 9
[29] G. Murray, Le origini dell’Epica greca, p. 341.
[30] Plutarco, Vita di Crasso, 32.
[31] M. Bettini, I classici nell’età dell’indiscrezione, p. 64.
[32] P. Fedeli, , Lo spazio letterario di Roma antica, vol I, p. 348.
[33] J.K. Huysmans, Controcorrente, p. 43 e sgg.
[34] Dal giugno del 68 al gennaio del 69.
[35] Il vecchio avaro Grandet.
[36] H. de Balzac, Eugenia Grandet, p. 44.
[37] S. Mazzarino, L'impero romano, I, pp. 230-231.
[38] Nero virtutem ipsam excindere concupivit interfecto Thrasea Peto (Annales, XVI, 21), Nerone volle recidere la virtù stessa con l'ammazzare Trasea Peto. 
[39] Nel 66 d. C.
[40] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 3, p. 64.
[41] "Et tu litteras scis et ego" dice Encolpio ad Ascilto nel decimo capitolo, siamo tutti e due letterati.
[42]  Comparso in Spagna nel Cinquecento. Racconta le avventure di personaggi di infima estrazione sociale: picaro significa "furfante", "pitocco". Un esempio: l'anonimo Lazarillo de Tormes del 1554.
[43] Luca Canali, L'erotico e il grottesco nel Satyricon, p. 5
[44] Luca Canali, L'erotico e il grottesco nel Satyricon, p. 4.
[45] G. Funaioli, op. cit., p. 14.
[46] J. Joyce, Ulisse, p. 172.
[47]Nietzsche, La nascita della tragedia ,  trad. it. Adelphi, Milano, 1977, p. 123.
[48] Il canone alessandrino dei nove lirici più importanti comprendeva Saffo, Alceo, Anacreonte (lirica monodica), Simonide, Bacchilide, Pindaro, Alcmane, Stesicoro, Ibico (lirica corale). Li abbiamo menzionati quasi tutti come poeti d'amore e maestri dei latini.
[49] Institutio oratoria I, 2, 18.
[50] Si può pensare alla storia di Eracle al bivio riportata dai Memorabili di Senofonte (II, 1, 21-34)
[51] G. Funaiolo, op. cit. p. 114.
[52] Cfr. 44, 18: "quia nos religiosi non sumus, agri iacent", poiché non abbiamo religione, i campi sono abbandonati.-
[53] V. Ciaffi, op. cit., p. 49.
[54] Con allusione a Eschine: l'oratore ateniese andò in esilio a Rodi dopo che la sua orazione pronunciata Contro Ctesifonte ,  il quale aveva proposto una corona di merito a Demostene, fu respinta dai giudici favorevoli a quella di  Demostene Per la corona (330 a. C.).
[55] Oratore ateniese coetaneo di Eschine, fu con Demostene nel partito antimacedone. Fu fatto uccidere da Antipatro nel 322 a. C. Viene ricordato da Cicerone tra gli oratori capaci di parlare atticamente (attice dicere ) entusiasmando il pubblico, con Pericle, Eschine e soprattutto Demostene ( Brutus , 290).
[56] Poco dopo la metà del I sec. d. C.
[57] Metà del I sec. d. C.
[58] G. C. Argan, Storia dell'arte italiana, 1, p. 161.
[59] G. C. Argan, op. cit., p. 162.
[60] V. Ciaffi, op. cit. p. 48. Vedremo più avanti le spiegazioni dell'Anonimo e di Tacito.
[61] Che scrisse un De causis corruptae eloquentiae, perduto
[62] 2, 9.

lunedì 27 aprile 2015

Umanesimo e compassione

Settembrini, l’ umanista “chiacchierone pieno di frasi”[1] di La Montagna Incantata, il “loquace razionalista e umanista”[2] distingue una  u{bri~ buona da un'altra cattiva, e santifica quella di Prometeo in quanto essa è amica dell'umanità:"  E che cos’era l’umanesimo? Era amore per l’umanità, nient’altro, e perciò era anche politica…Prometeo! Era stato lui il primo umanista, identico a quel Satana cui Carducci aveva dedicato il suo inno”[3]. Il “vecchio anticlericale bolognese”[4] celebra Satana per il suo essersi ribellato a un despota oscurantista: “Salute, O Satana/ O ribellione,/O forza vindice/Della ragione!”[5].

Ma l'"Hybris" della ragione contro le oscure potenze è altissima umanità, e se chiama su di sé la vendetta di dèi invidiosi...questa è sempre una rovina onorata. Anche l'azione di Prometeo era "Hybris" e il suo tormento sulla roccia scita noi lo consideriamo il martirio più santo. Ma come siamo invece di fronte all'altra "Hybris", a quella contraria alla ragione, all'"Hybris" della inimicizia contro la schiatta umana?"[6].
Possono esserci dunque due u{brei~, come due e[ride~.

Amore per l’umanità dunque che troviamo già in Omero. Sentiamo  quello che dicono Nausicaa a Odisseo e Eumeo sempre a Odisseo
La principessa dei Feaci Nausicaa, nel VI canto dell’Odissea (207-208) vuole  aiutare Ulisse giunto naufrago nell’isola di Scheria e   dice queste parole alle ancelle in fuga spaventate dall’aspetto di Odisseo  : “  to;n nu`n crh; komevein: pro;~ ga;r Dio;~ eijsin a[pante~-xei`noiv te ptwcoiv te, dovsi~ d j ojlivgh te fivlh te”, questo è un misero naufrago e dobbiamo curarcene: da Zeus infatti vengono tutti gli stranieri e i poveri, e un dono pur piccolo è caro
  Le stesse parole (Odissea, XIV, 57-59)  dice Eumeo il guardiano dei porci di Itaca quando Ulisse gli si presenta travestito da mendicante, irriconoscibile, e il porcaio lo accoglie ospitalmente spiegandogli che non è suo costume maltrattare lo straniero (xei`non ajtimh`sai), nemmeno quando ne arriva uno kakivwn più malconcio di lui.
  Eumeo dunque aiuta e onora Odisseo, che presentatosi come un pezzente e irriconoscibile, suscita la sua compassione:"aujtovn t j ejleaivrwn"(v.389), perché ho compassione di te, gli dice.
 Bisognerebbe che Salvini e la gente come lui leggessero i classici.

Non dissimile è la situazione di Edipo giunto a Colono cieco e vagabondo, per giunta malfamato. Teseo, il re di Atene, lo aiuta poiché, dice “so di essere uomo”(Edipo a Colono, v. 567).
Il sapere di essere uomo che cosa comporta?
Significa incontrare una creatura mezza distrutta come è Edipo cieco, esule e mendico, provarne pietà, incoraggiarla ponendo domande, chiedendo di che cosa abbia bisogno: “kaiv s  j oijktivsa"-qevlw  jperevsqai[7], duvsmor j Oijdivpou, tivna-povlew" ejpevsth" prostroph;n ejmou' t  j e[cwn,-aujtov" te chj sh; duvsmoro" parastavti"", (Edipo a Colono, vv. 556-559), e sentendo compassione, voglio domandarti, infelice Edipo, con quale preghiera per la città e per me ti sei fermato qui, tu e l’infelice che ti aiuta.
Quindi vuol dire ascoltare, mettersi nei panni del supplice e comprendere con simpatia poiché siamo tutti effimeri, sottoposti al dolore e destinati alla morte.
" Fammi sapere-continua Teseo- infatti dovresti raccontarmi misfatti atroci perché mi sottraessi; poiché so che anche io sono stato allevato da straniero, come te, e in terra straniera ho affrontato più di ogni altro uomo lotte rischiose per la mia vita, sicché non rifuggirei dal salvare nessuno straniero, come ora sei tu, in quanto so di essere uomo (e[xoid  j ajnh;r w[n, v. 567) e so che del domani nessun attimo appartiene più a me che a te"(vv.560-568).
A queste parole si può accostare l’homo sum di Terenzio :"Homo sum: humani nil a me alienum puto "[8].

Secondo Milan Kundera, la compassione è il motivo principale, o il motore di tanti miti, come di certi amori:" Egli provò allora un inspiegabile amore per quella ragazza sconosciuta; gli sembrava che fosse un bambino che qualcuno avesse messo in una cesta spalmata di pece e affidato alla corrente di un fiume perché Tomáš lo tirasse sulla riva del suo letto… Di nuovo gli venne fatto di pensare che Tereza era un bambino messo da qualcuno in una cesta spalmata di pece e affidato alla corrente. Non si può certo lasciare che una cesta con dentro un bambino vada alla deriva sulle acque agitate di un fiume! Se la figlia del Faraone non avesse tratto dalle acque la cesta con il piccolo Mosè, non ci sarebbero stati l’Antico Testamento e tutta la nostra civiltà. Quanti miti antichi hanno inizio con qualcuno che salva un bambino abbandonato! Se Polibo non avesse accolto presso di sé il giovane Edipo, Sofocle non avrebbe scritto la sua tragedia più bella!"[9].

Nel quarto episodio dell’Edipo re, Sofocle contrappone la crudeltà dei genitori alla compassione del servo tebano che non ha eseguito il loro ordine di uccidere il bambino "katoiktivsa" " (v. 1178), in quanto ne ho avuto compassione, spiega.
P.P. Pasolini nel suo film Edipo re  sottolinea questa risposta con un primo piano del vecchio pastore tebano che dice di non avere  fatto morire la creatura:"per pietà".
Per lo stesso motivo, e anche lui per grandi mali,  si salvò Cipselo, il bambino che sarebbe diventato tiranno di Corinto, e padre di Periandro.
Erodoto racconta che per sorte divina il piccolo sorrise all'uomo dei Bacchiadi che lo aveva afferrato con l'intenzione di ammazzarlo. Questo se ne accorse, e un qualche sentimento di compassione lo trattenne dall'ucciderlo (oi\kto~ ti" i[scei ajpoktei'nai,V,92).
Del resto anche Enea viene salvato dalla compassione, quella di Didone che pure non viene in alcun modo ricompensata dall’esule troiano.
In Virgilio c'è una regina, che prima di decadere a donna abbandonata esprime questo tw/' pavqei mavqo" :" non ignara mali miseris  succurrere disco ", Eneide, I, 630, non ignara del male imparo a soccorrere gli sventurati.
Un soccorso che verrà mal ricompensato dal “pius”  Enea, antenato di Augusto, secondo il poeta cortigiano Virgilio.
L’autore che scrive per piacere al despota non può avere lo spessore etico, e neppure estetico, di chi scrive con la prospettiva di un popolo che lo legge o lo ascolta, come avevano i tre  auctores maximi: Eschilo, Sofocle, Euripide e Aristofane
 L’ humanitas  della compassione viene affermata  dalle prime parole del Decameron :"Umana cosa è l'aver compassione degli afflitti" [10].

La misericordia non è virtù ignorata né trascurata dai classici e lo sviluppatissimo senso estetico dei Greci non aveva atrofizzato quello etico:  è del tutto falso dunque che la morale cattolica sia l'unica  vera e buona come afferma Manzoni, per esempio, quando sostiene che  " essa è la sola santa e ragionata in ogni sua parte"[11].
Nelle Trachinie, Deianira prova una compassione piena di spavento (oi\kto~ deinov" , v. 298), anche per se stessa, vedendo le ragazze di Ecalia portate schiave da Eracle, e pensando ai mutamenti della sorte. Quella che suscita in lei la pietà più grande però è la splendidissima Iole poiché le sembra l'unica che abbia coscienza del suo stato (vv. 311-312).
Cleopatra prima di morire dice al suo tesoriere Seleuco che l'ha denunciata a Ottaviano: "wert thou a man, thou wouldst have mercy on me" [12],  se tu fossi un uomo, avresti pietà di me.

Nello splendido film di Stanley Kubrick, Paths of glory, Orizzonti di gloria (1957), l’avvocato difensore e comandante dei  soldati accusati ingiustamente di codardia, poi fucilati, conclude la sua arringa indirizzando, invano, alla corte marziale questo appello: “I can’t believe that the noblest impulse of man, his compassion for another, can be completely dead here. Therefore, I humbley beg you, show mercy to these men”, io non posso credere che il più nobile impulso dell’uomo, la compassione per il prossimo, sia completamente morta qui. Perciò, vi prego umilmente, mostrate pietà verso questi uomini. 

All'opposto della chiusura nell'ego c'è l' Antigone di Sofocle che afferma il suo amore per l'umanità :" ou[toi sunevcqein ajlla; sumfilei'n e[fun", (v. 523), certamente non sono nata per condividere l'odio, ma l'amore. "Esiste un umanesimo greco, al quale dobbiamo opere come l'Antigone  di Sofocle, una delle più alte tragedie ispirate a quest'atteggiamento; in essa, Antigone rappresenta l'umanesimo e Creonte le leggi disumane che sono opera dell'uomo"[13].
Umanesimo del resto è anche amore di se stesso e rispetto della propria identità alla quale Antigone non vuole rinunciare. E’ la filautiva dell’eroe
La ragazza non teme l’isolamento: Quando Ismene impaurita le fa notare : "tu hai il cuore caldo per dei cadaveri gelati" (v. 88), ella risponde : " ajll j oi\d  j ajrevskous j oi|" mavlisq  j aJdei'n me crhv" (Antigone, v. 89), ma so di essere gradita a quelli cui soprattutto bisogna che io piaccia". Sembra ricordare il “diventa quello che sei” di Pindaro[14], la somma del suo pensiero educativo.
Né ha paura della morte la ragazza. Infatti aggiunge: “ma lascia che io e la pazzia che spira da me/soffriamo questa prova tremenda: io non soffrirò/nulla di così grave da non morire nobilmente" ((w{ste mh; ouj kalw'" qanei'n, Antigone, v97). 
Il kalw'~ qanei'n è l’aspirazione di eroi (Aiace di Sofocle[15]) ed eroine (Polissena nell’Ecuba [16], Ifigenia nell’Ifigenia in Aulide di Euripide) della tragedia. Nella storiografia abbiamo la Cleopatra di Plutarco[17]  ripresa quasi parola per parola da quella di Shakespeare che lo leggeva nella traduzione di Thomas North[18].

   Non bisogna trascurare la componente estetica della civiltà ellenica che si distingue dalle altre anche per il culto della bellezza; secondo Nietzsche i Greci hanno vinto l'orrore del caos e rovesciato la triste sapienza silenica, la quale rifiuta la vita, attraverso la giustificazione estetica dell'esistenza umana, creata dall’arte: "Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell'esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L'enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, l'avvoltoio del grande amico degli uomini Prometeo, il destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe degli Atridi, che costringe Oreste al matricidio, insomma tutta la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i melanconici Etruschi, fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dei olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi: questo evento noi dobbiamo senz'altro immaginarlo così, che dall'originario ordinamento divino titanico del terrore fu sviluppato attraverso quell'impulso apollineo di bellezza, in lenti passaggi, l'ordinamento divino olimpico della gioia, allo stesso modo che le rose spuntano da spinosi cespugli… Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi-la sola teodicea soddisfacente! L'esistenza sotto il chiaro sole di dèi simili viene sentita come ciò che è in sé desiderabile, e il vero dolore degli uomini omerici si riferisce al dipartirsi da essa, soprattutto al dipartirsene presto: sicché di loro si potrebbe dire, invertendo la saggezza silenica, " la cosa peggiore di tutte è per essi morire presto, la cosa in secondo luogo peggiore è di morire comunque un giorno". Se una volta risuona il lamento, ciò avviene per Achille dalla breve vita, per l'avvicendarsi e il mutare della stirpe umana come le foglie[19], per il tramonto dell'età degli eroi. Non è indegno neanche del più grande eroe bramare di vivere ancora, fosse pure come un lavoratore a giornata[20]. Nello stadio apollineo la "volontà" desidera quest'esistenza così impetuosamente, l'uomo omerico si sente con essa così unificato, che perfino il lamento si trasforma in un inno in sua lode"[21].


     Neottolemo, il figlio schietto dello schietto Achille, svaluta il suvmferon (utile) e apprezza il kalovn (bello, e bello morale) contrapponendosi al subdolo Odisseo del Filottete :" bouvlomai  d' , a[nax, kalw'"-drw'n ejxamartei'n ma'llon h]  nika'n kakw'" " (vv. 94-95), preferisco, sire, fallire agendo con nobiltà che avere successo nella volgarità.

Giovanni Ghiselli

p. s.
Ne parlerò durante la conferenza di Siracusa
Il blog-giovanni ghiselli bog  è arrivato a 232757

[1] T. Mann, La Montagna incantata , vol. II,  p. 148.
[2] T. Mann, Introduzione alla “Montagna incantata” , in T. Mann, Nobiltà dello spirito e altri saggi, p. 1517.
[3] T. Mann, La montagna magica, p. 231
[4] Ibidem, p. 231.
[5] A Satana, vv. 97-100.
[6] T. Mann, La Montagna incantata , vol. II,  p. 18.
[7] Aferesi da ejperevsqai, infinito aoristo da ejpeivromai, “domando”
[8] Heautontimorumenos  ,77.
[9] L'insostenibile leggerezza dell'essere (del 1984),  p. 14 e p.19.
[10] Che nella fattispecie sono in particolare le donne innamorate.
[11] Osservazioni sulla morale cattolica (del 1819), Prefazione
[12] Shakespeare, Antonio e Cleopatra, V, 2.
[13] E. Fromm, La disobbedienza e altri saggi , p. 63.
[14] gevnoio oi|o~ ejssiv" (Pitica II  v. 72).
[15] il Telamonio prima di suicidarsi per non sopravvivere alla degradazione :"ajll j h] kalw'" zh'n  h] kalw'" teqnhkevnai- to;n eujgenh' crhv" ma il nobile deve  vivere con stile, o con stile morire. (vv.479-480).
[16] La principessa troiana dice alla madre: per chi non è abituato a mali oltraggiosi è meglio morire: "to; ga;r zh'n mh; kalw'" mevga" povno"" (v.378), infatti vivere senza bellezza è un grande tormento.
[17] La bellezza e la dignità della morte vengono anteposte alla degradazione della vita da Cleopatra, l'ultima dei Tolomei: lo capisce l'ancella Carmione la quale, al soldato che, vedendo il cadavere della regina, le ha domandato : "kala; tau'ta Cavrmion ;" è bello questo?, risponde con il suo ultimo fiato: "kavllista me;n ou\n kai; prevponta th'/ tosouvtwn ajpogovnw/ basilevwn" (Plutarco, Vita di Antonio, 85, 8), è bellissimo e si confà a una donna che discende da re tanto grandi.
[18] Lo stesso personaggio dell'Antonio e Cleopatra di Shakespeare, all'ottuso guardiano (First Guard) che le ha posto la medesima domanda retorica (Charmian, is this well done?) , replica : "It is well done, and fitting for a princess-Descended of so many royal kings. Ah, soldier! (5, 2)", è ben fatto e adatto a una sovrana discesa da tanti nobili re. Ah soldato!
[19] Cfr. Iliade, VI, 146:"oi[h per fuvllwn genehv, toivh de; kai; ajndrw'n", proprio quale  la stirpe delle foglie, tale è anche quella degli uomini. (n. d. r.)
[20] Cfr. Odissea , XI, vv. 488-491. (n. d. r.)
[21] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 33.