Questa conferenza Si terrà venerdì 8 maggio 2015, alle 18, 30 nella biblioteca Scandellara di Bologna
Vediamo ora la morte di Petronio.
Il maestro di
eleganza della corte neroniana con i suoi successi suscitò l'invidia[1]
di Tigellino che lo accusò di essere amico di Scevino, uno dei congiurati
contro Nerone[2].
Petronio si uccise con la stessa neglegentia con la quale era vissuto: si
tagliò le vene, poi le legò di nuovo e le riaprì:"audiebatque referentis
nihil de immortalitate animae et sapientium placitis, sed levia carmina et
facilis versus. Servorum alios largitione, quosdam verberibus afecit. Iniit
epulas, somno indulsit, ut quamquam coacta mors fortuitae similis esset" (Annales,
XVI, 19), ascoltava gli amici che non gli raccontavano nulla sull'immortalità
dell'anima né gli riportavano massime filosofiche ma poesie leggere e versi
allegri. Tra gli schiavi alcuni premiò, altri fece frustare. Andò a cena e si
abbandonò al sonno, affinché la morte, sebbene imposta, sembrasse casuale.
"Di solito si
osserva che quelle poesie e quei versi ci riportano agli epigrammi di sapore
alessandrino contenuti nel Satyricon. Ma bisogna andare più in là. Nella
prospettiva degli Annales, i discorsi filosofici o gli argomenti eroici,
che il personaggio rifiuta, ci riporta del pari alla morte socratica di Seneca[3]
o a quella come sul campo di Lucano[4].
Non interessa sapere se il Petronio di Tacito, suicidandosi a quel modo, abbia
voluto o no scherzare sulle pose un po' scolastiche e retoriche dei due che si
erano uccisi l'anno prima…Importa far notare che per Tacito un rapporto tra quei
due generi di morte, e un rapporto di contrasto, esisteva, e che egli proprio
dal Satyricon, dalle polemiche più o meno esplicitamente in esso
contenute, poteva aver tratto l'ispirazione per quella più tragica e definitiva
polemica. E direi pure ricavata dal romanzo…la scena in cui Petronio, già aperta
la via al sangue, alcuni schiavi gratifica con elargizione, altri con sferzate.
C'è un qualche cosa di Trimalcionesco in tutto questo, quasi una volontà di
sbalordire con un gioco di contrasti, di mostrare ad un tempo due facce,
generosa l'una, spietata l'altra. E, a voler scendere più a fondo, un che di
Trimalcionesco, di quel Trimalcione proprio che da vivo fa il morto e per cui
vita e morte si risolvono in volontà di potenza e controllo di sé, lo si
potrebbe trovare in quel Petronio che si incide le vene, poi a capriccio le
lega, e poi le apre di nuovo, quasi a volersi sentire già morto o una volta
morto vivo ancora, con gli altri che certo lo piangono, spettacolo più che
realtà"[5].
"Nulla ci costringe a storcer
Petronio a interpretazioni, le quali lo portino via dall'epoca che unica sembra
addirglisi; epoca di grandiosità teatrale, di stravagante e grottesco
istrionismo, di guizzanti contrasti, di foschi bagliori, di orgia, in cui
dominano i saliti in potenza, i miserabili fatti signori, gente d'avventura, di
grossolanità e di perversa raffinatezza, i bassi fondi della società ammantati
di splendore e d'oro. In tal senso gli storici della letteratura discorrono per
Petronio di sfondo sociale del I secolo d. C. e più specialmente del tempo di
Nerone…Il Satyricon è una potente, tumultuosa rappresentazione della vita
secondo lo spirito del primissimo Impero, una visione umana di realistica
evidenza, di incisive intuizioni psicologiche, di spregiudicatezza picaresca "[6].
Questo testo frammentario e
composito si potrebbe ascrivere al genere del romanzo, ma anche ad altri.
"In un codice miscellaneo del sec.
XV, il Traguriensis o Parisinus 7989, gli estratti di Petronio
…sono indicati come "frammenti del quindicesimo e sedicesimo libro"
[7].
Secondo Fellini lo stato
frammentario in cui ci è giunta l'opera è la ragione principale del suo fascino:"Il
Satyricon è un testo misterioso prima di tutto perché è frammentario. Ma
il suo frammentarismo in un certo senso è emblematico. Emblematico del generale
frammentarismo del mondo antico quale appare a noi oggi"
[8].
Il regista di Rimini in un altro
libro racconta:"Durante la convalescenza dalla pleurite allergica avevo riletto
Petronio ed ero rimasto affascinato da un particolare che prima non avevo saputo
notare: le parti mancanti, cioè il buio, fra un episodio e l'altro. Già a
scuola, quando si studiavano i prepindarici, avevo cercato di riempire con
l'immaginazione il vuoto fra i vari frammenti…quella faccenda dei frammenti mi
affascinava davvero. Mi colpiva l'idea che la polvere dei secoli avesse
conservato il battito di un cuore ormai spento. Mi fece pensare alle colonne,
alle teste, agli occhi mancanti, ai nasi spezzati, a tutta la scenografia
cimiteriale dell'Appia antica o in generale ai musei archeologici"[9].
Romanzo e cinema contribuiscono
all'educazione:"E' nel romanzo, nel teatro, o nel film che si coglie che Homo
sapiens è nello stesso tempo indissolubilmente Homo demens. E' nel
romanzo, nel film, nel poema che l'esistenza manifesta la sua miseria e la sua
tragica grandezza, con il rischio dello scacco, dell'errore, della follia.
E' nella morte dei nostri eroi che facciamo le nostre prime esperienze della
morte. E' dunque nella letteratura che l'insegnamento sulla condizione
umana può prendere forma vivente e attiva per illuminare ciascuno sulla propria
vita"[10].
Per quanto riguarda le situazioni
estreme, anche estremamente scabrose, presenti in questo tipo di letteratura
"carnevalizzata", autorizzo la mia scelta attraverso un pedagogista segnalato da
Morin:"L'adolescente non ha bisogno di letteratura annacquata, cosiddetta per
ragazzi; come ha affermato Yves Bonnefoy:"Questi giovani esseri attendono che
dei grandi segni carichi di mistero e di gravità si levino di fronte a loro,
essi sanno bene che ben presto dovranno affrontare il mistero e la gravità della
vita"[11].
Dopo il regista e i pedagogisti
sentiamo un disciplinarista di primo livello:" La caratteristica formale più
evidente del Satyricon è l'alternanza di brani in prosa e brani in
poesia, il cosiddetto "prosimetro". Gli inserti metrici contrappuntano
continuamente la narrazione prosastica e risultano perfettamente integrati nel
racconto: continuano l'azione o la commentano, offrendo comunque elementi utili
a esplicitarne il significato"[12].
Un poco come le parti corali delle tragedie, aggiungo.
Nella letteratura italiana il
primo prosimetro è la Vita Nuova di Dante.
Un altro genere cui è stato
detto appartenga il Satyricon è la satira menippea[13]
che presenta il prosimetro e il travestimento derisorio di situazioni serie.
In latino abbiamo frammenti delle Saturae Menippeae di Varrone e l'Apokolokyntosis
[14] di
Seneca, l'inzuccamento del divo Claudio, ossia la derisione continua
dell'imperatore morto, presentato come brutto, scemo e crudele.
Interessanti sono alcune
considerazioni di M. Bachtin sulla satira menippea che il critico russo
(1895-1975) considera parte della "letteratura carnevalizzata". Bachtin
ascrive a questo tipo di letteratura ""il dialogo socratico" il quale" come
genere determinato ebbe vita breve, ma nel suo processo di disgregazione si
formarono altri generi dialogici, tra cui la satira menippea. Ma non la si può,
naturalmente, considerare come un puro prodotto della decomposizione del
"dialogo socratico" (come a volte si fa) poiché le sue radici affondano
direttamente nel folclore carnevalesco…Niente altro che una satira menippea
sviluppata fino ai limiti del romanzo è il Satyricon di Petronio…La"
satira menippea divenne uno dei principali portatori del sentimento carnevalesco
nella letteratura fino ai nostri giorni…La satira menippea è caratterizzata
dalla eccezionale libertà di invenzione narrativa e filosofica…La particolarità
più importante del genere della menippea è che la più audace e sfrenata fantasia
è qui internamente motivata, giustificata, illuminata da un fine puramente
filosofico-ideale: quello di creare situazioni eccezionali per provocare
e sperimentare l'idea-parola filosofica, la verità, impersonata nella
figura del saggio che cerca questa verità. Sottolineiamo che la fantasia serve
qui non per la incarnazione positiva della verità, ma per la sua ricerca,
provocazione e, soprattutto per la sua sperimentazione…Caratteristico della
menippea è il largo uso di generi inseriti: novelle, lettere, orazioni, simposi
ecc.; è caratteristica la mescolanza di discorso in prosa e in versi…Queste
particolarità di genere della menippea non rinacquero semplicemente, ma si
rinnovarono nella creazione di Dostoevskij…Ma la differenza principale è che
l'antica menippea non conosce ancora la polifonia"[15].
Un nesso tra il dialogo
socratico-platonico e il romanzo viene suggerito anche da Nietzsche:"il dialogo
platonico fu per così dire la barca su cui la poesia antica naufraga si salvò
con tutte le sue creature: stipate in uno stretto spazio e paurosamente
sottomesse all'unico timoniere Socrate, entrarono ora in un nuovo mondo, che non
poté mai saziarsi di guardare la fantastica immagine di questo corteo.
Realmente Platone ha fornito a tutta la posterità il modello di una nuova forma
d'arte, il modello del romanzo: questo si può definire come una
favola esopica infinitamente sviluppata, in cui la poesia vive rispetto alla
filosofia dialettica in un rapporto gerarchico simile a quello in cui per molti
secoli la stessa filosofia ha vissuto rispetto alla teologia, cioè come
ancilla. Questa fu la nuova posizione della poesia, in cui Platone la spinse
sotto la pressione del demonico Socrate"[16].
Ma torniamo per un momento a
Bachtin:" La principale azione carnevalesca è probabilmente la burlesca
incoronazione e successiva scoronazione del re del carnevale… Il carnevale
è la festa del tempo che tutto distrugge e tutto rinnova"[17].
Aggiungerei che l'itinerario
incoronazione/scoronazione, oltre che burlesco può essere tragico. Si può
pensare al film Ludwig di Visconti con la storia del "lunatico re"
di Baviera
[18]
o ancor meglio all' Edipo re di Sofocle che si capovolge due volte:
da bambino abbandonato e trovatello a re, da re a mostro deforme e
mendicante:"Dalla mendicità essenziale scaturisce l'impeto ascensionale che
porta al desiderio di incoronarsi. E in quel cammino inesorabile appare una
barriera, un "tabu" del quale forse conserva una traccia il mito di Edipo re. Si
tratta del primo superuomo, di colui che ingenuamente vuole incoronarsi. Edipo
sapeva ogni cosa, tranne chi fosse. La tragedia ce lo mostra mentre chiede chi
sia, cioè, di chi sia figlio. La tragedia sorge dal riconoscimento.
Riconoscimento che è abbattimento"[19].
In questa prospettiva Edipo può essere accostato a Trimalchione, come del resto
a qualsiasi altro social climber, oppure a certe donne di Tacito fanatiche del
potere imperiale[20]:"Solo quando
comanda, l'uomo si sente redento dalla sua sostanziale condizione di dover
mendicare ciò di cui ha bisogno. Poiché, se l'uomo possedesse un essere, come le
altre creature, non dovrebbe sentire quell'imperiosa necessità di apparire come
colui che autorizza e concede. La regalità non nasce dal fatto che gli uomini
hanno bisogno di essere comandati, ma dal fatto che l'uomo ha bisogno di
comandare, trasformare la sua povertà originaria in potere; coprire la propria
nudità, quella nudità che non può esibire rivestendola di splendore; e cingere
la sua testa indifesa con una corona"[21].
Sentiamo l'imperatore Adriano
della Yourcenar: "Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani,
per tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per
essere interamente me stesso, prima di morire…Ho compreso che ben pochi
realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro
opere interrotte. Quell'ossessione di una vita mancata concentrava i miei
pensieri su di un punto, li fissava come un ascesso. La mia sete di potere agiva
come quella dell'amore, che impedisce all'innamorato di mangiare, di dormire, di
pensare, di amare perfino, sino a che non siano stati compiuti certi riti"[22].
"Niente altro che una satira
menippea sviluppata fino ai limiti del romanzo è il Satyricon di Petronio…La
satira menippea divenne uno dei principali portatori del sentimento carnevalesco
nella letteratura fino ai nostri giorni…La particolarità più importante del
genere della menippea è che la più audace e sfrenata fantasia è qui internamente
motivata, giustificata, illuminata da un fine puramente filosofico-ideale:
quello di creare situazioni eccezionali per provocare e
sperimentare l'idea-parola filosofica, la verità…Sottolineiamo che la fantasia
serve qui non per la incarnazione positiva della verità, ma per la sua
ricerca, provocazione e, soprattutto per la sua sperimentazione . A
questo fine i personaggi della satira menippea salgono in cielo, scendono
agli inferi, visitano la luna, vagano attraverso paesi assolutamente fantastici,
si trovano in situazioni di vita eccezionali"[23].
Per il nostro lavoro non ha
troppa importanza definire il genere di appartenenza di questo lungo e splendido
frammento; comunque possiamo dire che nel Satyricon compaiono,
parodiati, diversi temi presenti nel romanzo greco. Molti di questi
risalgono all' epos[24],
in particolare alla madre di tutti romanzi, che è l'Odissea: per
esempio la separazione degli amanti i quali poi si riuniscono. Nel romanzo
ellenistico si tratta di due giovani di sesso diverso, mentre qui, nel
travestimento derisorio del poema omerico fatta da Petronio, c'è un "triangolo"
omosessuale; nell'Odissea c'è l'ira divina che perseguita il
protagonista; ebbene la collera del nume nella parodia di Petronio diventa la
gravis ira Priapi (139), ossia del dio dell'erezione, un dio grande,
forse il più grande dell'opera, il quale provoca l'impotenza del personaggio
principale, Encolpio. Questo è un nome parlante, anche troppo, poiché viene
spiegato in diversi modi: jEnkovlpio"
è colui che sta in seno (kovlpo"),
l'insinuante, o, al contrario, l'infantilmente ingenuo. "Il narratore Encolpio è
quello che si definisce oggi un "antieroe": abbastanza giovane, ben educato,
codardo, e amorale. Conformemente alle teorie dominanti (e forse alla pratica)
della Roma imperiale, è sessualmente ambivalente, un fattore intorno al quale
ruota molta parte della trama. Nella storia ha una parte quanto gli altri
personaggi, e non è il narratore onniscente e disinteressato familiare al
lettore moderno di romanzieri come Conrad"[25].
Paolo Fedeli insiste sul rapporto
tra epos e romanzo che ne raccoglie la successione quasi come un figlio:"Già in
Hegel, dall'Estetica ai Lineamenti di filosofia del diritto, la
nascita del romanzo moderno s'identifica con la definitiva scomparsa dell'epos
ed è necessaria conseguenza del succedersi delle epoche universali"[26].
Leggiamo qualche parola di Hegel che definisce il romanzo "la moderna epopea
borghese". Il filosofo dell'idealismo prosegue mettendo in luce analogie e
diversità tra epica e romanzo:"Qui ricompare da un lato la ricchezza e la
multilateralità degli interessi, delle condizioni, dei caratteri, dei rapporti
di vita, il vasto sfondo di un mondo totale ed insieme la manifestazione epica
di avvenimenti. Quel che manca è però la condizione del mondo originariamente
poetica da cui si origina l'epos vero e proprio. Il romanzo nel senso moderno
presuppone una realtà già ordinata a prosa, sul cui terreno esso, nella
propria cerchia e riguardo sia alla vivacità degli avvenimenti che agli
individui e al loro destino, cerca di ridare alla poesia, nei limiti in cui ciò
è possibile con i presupposti dati, il diritto da lei perduto. Perciò una delle
collisioni più comuni e più adatte per il romanzo è il conflitto della poesia
del cuore con la prosa contrastante dei rapporti e l'accidentalità delle
circostanze esterne"[27].
Altra componente riconoscibile in
questa "miscela originalissima di forme letterarie"[28]
è la fabula milesia, ossia la novella licenziosa introdotta nelle
lettere latine in età sillana da Cornelio Sisenna che tradusse i
Milhsiakavvv di Aristide di Mileto
(II sec. a. C.). Appartengono a questo genere la storia della "Matrona di Efeso"
(111-112) e quella del fanciullo di Pergamo (85-87) di cui ci occuperemo più
avanti.
“All’origine di quell’interessante
filone letterario che culminò nel Romanzo Greco, troviamo le Favole Milesie.
Pare si trattasse di gaie novelle nello stile che poi sarà tipico del Boccaccio.
Un proptotipo di queste storie è quella dell’inconsolabile vedova di Efeso…”[29].
“La tradizione dei classici è
stata veramente avara con la letteratura di genere sfizioso. Per esempio, non ci
sono pervenute le Milesie di Aristide di Mileto, quelle tradotte in
latino da Cornelio Sisenna. Se le avessimo saremmo veramente a cavallo. Pare
infatti che i Romani se le portassero nelle loro sarcinae, durante la
campagna di Crasso contro i Parti[30];
cosa che potrebbe contribuire a spiegare perché fossero stati sconfitti nella
battaglia di Carre. I Parti, dopo la vittoria, si presere gioco dei Romani,
perché neppure in guerra “riuscivano ad astenersi da certe letture”. Il sarcasmo
dei vincitori ci conferma ovviamente nella convinzione che queste Milesie
dovevano essere cosine veramente sfiziose”[31].
"In conclusione, credo che ormai
si debba ammettere che i rapporti con la fabula Milesia e con la satira
menippea individuano e privilegiano solo due componenti del romanzo: la
mescolanza di prosa e versi da un lato e il carattere licenzioso e dissacratorio
di alcune novelle dall'altro. Nonostante l'indubbia importanza di tali
componenti, né l'una né l'altra ci aiutano a decifrare il romanzo nel suo
complesso. C'è da chiedersi, addirittura, se il titolo stesso del romanzo di
Petronio non sia una creazione posteriore di chi volle sottolineare un rapporto
privilegiato proprio con la satira menippea.
La tradizione manoscritta di
Petronio oscilla fra Petronii Arbitri Satyricon, Petronii Arbitri Satirarum
libri, Petronii Arbitri satyri fragmenta, Satirici libri. Su tutti i
titoli grava il sospetto di formulazione non originaria, proprio perché tutti
inquadrano in un genere letterario, la satira menippea, l'opera petroniana: in
tal modo si sarà pensato di giustificare il fenomeno più appariscente che ne
caratterizza la struttura: l'alternanza di prosa e versi. Alla luce, però, dei
recenti ritrovamenti papiracei (il cosiddetto romanzo di Iolao), che hanno
mostrato come il prosimetrum fosse adottato-non solo sotto forma di
citazione dotta-anche nel romanzo greco, è possibile recuperare anche per questo
aspetto una linea di continuità fra la produzione romanzesca ellenistica e
quella petroniana: ciò ci permette di risalire in modo ancora più agevole al
grande archetipo del romanzo d'amore, d'avventura e di viaggi, costituito dall'Odissea"[32].
Il Satyricon dunque va
letto in relazione ai suoi modelli greci che sono diversi, non escluso
quello sublime della tragedia; rispetto a questi però le situazioni
originarie vengono ridicolizzate, o addirittura rovesciate attraverso
l'azione degli antieroi che si agitano nel paese guasto dell'età neroniana. Il
protagonista di A Rebours di Huysmans, l'esteta Des Esseintes,
disgustato del mondo, trova in Petronio uno dei vertici della letteratura latina
che del resto viene in grandissima parte stroncata e rifiutata. Riferisco alcuni
giudizi poiché riguardano autori che vengono studiati nei Licei e sono anche
fortemente contrastivi con quelli sentiti o dati. Quindi lo studente potrà dare
il suo giudizio (krivnein),
facendosi kritikov" .
"Virgilio…gli appariva non
solo uno dei più esosi pedanti, ma anche uno dei più sinistri rompiscatole
che l'antichità abbia mai prodotto. I suoi pastori, usciti pur mo' dal bagno e
azzimati di tutto punto, che si scaricano a vicenda sul capo filastrocche di
versi sentenziosi e gelati; il suo Orfeo ch'egli paragona a un usignolo in
lacrime; il suo Aristeo che piagnucola per delle api; il suo Enea,
questo personaggio indeciso e ondeggiante che si muove come un'ombra
cinese, con mosse da marionetta".
Virgilio avrebbe per giunta compiuto "impudenti plagi di
cui fan le spese Omero, Teocrito, Ennio, Lucrezio"; la metrica sarebbe stata
"tolta in prestito alla perfezionata officina di Catullo". In
conclusione:"quella miseria dell'epiteto omerico che torna ogni momento e non
dice nulla, non evoca nulla; tutto quell'indigente vocabolario sordo e piatto,
lo mettevano alla tortura".
Ovidio non è trattato
meglio: le sue "cacate" esercitavano sullo schifiltoso anacoreta un fascino "dei
più modesti e sordi".
"Una sconfinata avversione provava
per le grazie elefantesche di Orazio, per il balbettio di
questo insopportabile centochili che fa lo smorfioso con lazzi di vecchio
saltimbanco infarinato".
Cicerone, "il Cece" lo
annoiava per "la greve compattezza del suo stile carnoso, ben nutrito ma
degenerato in grasso, privo d'osso e di midolla…né molto più di Cicerone lo
entusiasmava Cesare, famoso pel suo laconismo; perché l'eccesso contrario
diventava in questo aridità da caporalmaggiore, secchezza da appunto,
stitichezza incredibile e sconveniente". Sallustio, pur sopravvalutato
dai "falsi letterati" era "meno sbiadito degli altri; Tito Livio,
patetico e pomposo; Seneca, turgido e scialbo; Svetonio,
linfatico ed embrionale".
Si salva Tacito:"il più
nerboruto tuttavia nella sua voluta concisione, il più aspro, il più muscoloso
di tutti costoro".
Lucano in parte se la cava
ma "L'autore che amava davvero, che gli faceva bandire per sempre dalle
sue letture le roboanti tirate di Lucano, era Petronio. Ecco finalmente
un acuto osservatore, un fine analista, un pittore meraviglioso…Questo romanzo
verista, questa fetta di vita romana tagliata nel vivo, che non si preoccupa,
checché si dica, né di riformare né di satireggiare i costumi; che fa a meno
d'una conclusione e d'una morale; questa storia senza intreccio, dove non
succede nulla, che mette in scena le avventure della selvaggina di Sodoma
che analizza con imperturbabile acutezza gioie e dolori di codesti amori e di
codeste coppie; che senza che l'autore faccia mai capolino, senza che si lasci
andare a un solo commento, senza che approvi o maledica gli atti o i pensieri
dei suoi personaggi, dipinge in una lingua da orafo i vizi d'una civiltà
decrepita, d'un impero che si va sfasciando-conquideva Des Essaintes, il
quale nella raffinatezza dello stile, nell'acutezza dell'osservazione, nel fermo
piglio con cui la narrazione veniva condotta, intravvedeva singolari parentele,
curiose analogie con i pochi romanzi del tempo suo che non gli dispiacevano"[33].
Noi andremo cercando i brani
collegabili al tema dell'amore, in particolare dell' amore adulterato,
notando il ribaltamento e la degradazione delle situazioni erotiche, soprattutto
per quanto riguarda il sentimento e il desiderio amoroso :" I have lost my
passion: why should I need to keep it/Since what is kept must be adulterated? ,
ho perduto la mia passione: perché dovrei conservarla, se ciò che si
conserva deve diventare adulterato?-potrebbe dire il giovane Encolpio, come
Gerontion (vv.61-62), il vecchio, di T. S. Eliot, che non fu alle
Termopili. Riporteremo anche le considerazioni sulla scuola, dato che il
narratore è uno scholasticus.
Inoltre cercheremo analogie con
il mondo contemporaneo ubi- dove, altrettanto-"sola pecunia regnat"
(14) solo il denaro comanda, e tutto il resto è venale, si compra e si vende.
Tale era la situazione all'inizio del breve regno di Galba[34]
secondo Tacito:"Venalia cuncta, praepotentes liberti, servorum manus subitis
avidae " (Historiae , I, 7), tutto era in vendita, assai potenti i
liberti, caterve di schiavi avide per i repentini cambiamenti. Non poteva durare
a lungo l'imperatore, non solo perché vecchio ma anche perché aveva dichiarato:"legi
a se militem, non emi " (I, 5) che lui i soldati li arruolava non li
comprava. La divinità unica non cambia nella società ottocentesca descritta da
Balzac:"E non rappresntava egli[35]
il solo dio moderno in cui si abbia fede, il Denaro in tutta la sua potenza,
espresso da una sola fisionomia?"[36].
Secondo Mazzarino il
Satyricon rappresenta l' ultima fase dell'età giulio-claudia appunto, un’età
piena di contraddizioni:" movimento e turbolenza delle classi servili (gli
schiavi, che già sotto Caligola si erano avvezzi ad accusare i loro domini,
e che per il prevalere di dottrine stoiche ed orientali acquistano coscienza dei
loro diritti, devono essere tenuti a freno con rigidi provvedimenti);
rinnovamento sociale, di cui sono un aspetto i molti Trimalchioni. il
romanzo petroniano, il già citato Satyricon è l'epopea di questo mondo
in cui i contrasti, lungi dal placarsi, danno vita e colore alla società che si
viene formando o già in parte s'è formata; in cui i parvenus, i
Trimalchioni insomma, tipicamente contrastano con la vecchia classe dirigente, e
pur con essa si appaiano, per quanto riguarda le inattese e capricciose
richieste di luxus ( Tacito, che probabilmente non ha letto mai il
romanzo, credeva di sapere che il mondo del Satyricon fosse parodia degli
uomini stessi di Nerone); in cui la nova simplicitas, che arieggia la
cultura degli Epicurei, schiettamente contrasta con la rigida severità
dello stoicismo di un Trasea, ed entrambe, variamente penetrate nelle classi
dirigenti, comunque rappresentano la tradizionale cultura ellenistico-romana, di
fronte al proselitismo orientale e particolarmente giudaico o cristiano"[37].
"Sotto Nerone, Il padovano Trasea
Peto, "la virtù in persona", come lo definì Tacito[38],
si uccise[39]
accusato di lesa maestà: aveva scritto una monografia su Catone Uticense"[40].
Il triangolo amoroso del
Satyricon dunque è formato da due giovani avventurieri non digiuni di
lettere[41]:
Encolpio, il personaggio narrante, uno scholasticus come si è
detto, un frequentatore di scuole, Ascilto, più rozzo e spregiudicato, e
da un ragazzino sedicenne Gitone conteso dai due. "Petronio, con questi
suoi personaggi, e con l'irrefrenabile dinamismo del suo narrare, anticipa
per un verso le figure dei medievali clerici vagantes,
o intellettuali vagabondi, dall'altro il romanzo picaresco[42]
spagnolo. Ma il suo romanzo possiede una carica erotica intensa, che può
raggiungere l'oscenità, sempre riscattata, tuttavia, da una girandola di trovate
linguistiche, o dall'improvviso verificarsi di eventi che stemperano nella
beffa, nell'ironia e talvolta nella malinconia la crudezza del contesto[43]".
All'inizio del testo che ci è
arrivato (il libro XV quasi completo con la Cena Trimalchionis, e parti
del XIV e del XVI su un totale di 20 o 24 libri, come l'Odissea)
troviamo una discussione nel portico di una scuola tra Encolpio e il retore
Agamennone sulle cause della corruzione dell'eloquenza.
Encolpio denuncia la
separazione della scuola dalla vita:"
et ideo ego adulescentulos
existimo in scholis stultissimos fieri, quia nihil ex his, quae in usu habemus
aut audiunt aut vident, sed piratas cum catenis in litore stantes, sed tyrannos
edicta scribentes, quibus imperent filiis ut patrum suorum capita praecidant,
sed responsa in pestilentiam data, ut virgines tres aut plures immolentur, sed
mellitos verborum globulos et omnia dicta factaque quasi papavere et sesamo
sparsa " (1, 3), e perciò io penso che i ragazzi nelle scuole diventino
stupidissimi, poiché niente ascoltano o vedono di quello che è utile nella vita,
ma pirati che stanno in agguato sulla spiaggia con le catene, ma tiranni che
scrivono editti con i quali ordinano ai figli di tagliare le teste dei loro
padri, ma responsi dati contro la pestilenza che si sacrifichino tre vergini o
più, ma polpette di parole tonde e mielate e tutte le espressioni e le azioni
quasi condite di papavero e sesamo.
E' la critica della scissione tra
letteratura e vita che si ritrova in Marziale:"Non
hic Centauros, non Gorgonas Harpyasque/invenies: hominem pagina nostra sapit
"(X, 4), non qui troverai Centauri, Gorgoni e Arpie: la nostra pagina sa di
uomo. "Controluce questo negativo rivela un positivo petroniano:"Io penso
che questi ragazzi a scuola si rimbecilliscono perché non odono né vedono nulla
di ciò che abbiamo sottomano". E' un j'accuse in nome della
concretezza e del realismo, il nocciolo della poetica petroniana"[44].
L'hominem di Marziale può essere avvicinato alla prima parola dell'Odissea,
anche se a[ndra è come significato
specifico più assimilabile a virum.
Petronio, epicureo,
atticista e classicista, dichiara che la vita contiene situazioni più
interessanti di tutte le scuole di retorica.
"Petronio è pittore del vero, e
ridà l'accento stesso della vita degli umili divenuti grandi; la saporosa
loquela di ogni giorno, sciolta dalle rigide leggi della scuola, la ridà
adattata ai temperamenti e alla cultura degli interlocutori del romanzo, con una
festività, una lepidezza, una proprietà, una efficacia che sono una meraviglia.
Non egli parla: fa parlare "[45].
Il discorso di Encolpio infatti è
anche un rifiuto del retoricume stucchevole e oblioso. "Tutta retorica. Vesciche
piene d'aria"[46].
In particolare Encolpio mette
sotto accusa il cattivo gusto dello stile asiano grasso e bolso, dando voce
all'atticismo di Petronio:"qui inter haec nutriuntur, non magis sapere
possunt, quam bene olere qui in culina habitant. pace vestra liceat dixisse,
primi omnium eloquentiam perdidistis. levibus enim atque inanibus sonis
ludibria quaedam excitando effecistis ut corpus orationis enervaretur et caderet
" (2, 1- 2), quelli che vengono nutriti in mezzo a questi banchetti, non
possono avere un gusto migliore del profumo di quelli che abitano in cucina. Con
vostra pace mi sia concesso di avere affermato che voi per primi avete rovinato
l'eloquenza. Infatti con suoni leggeri e vani, suscitando certi giochi di
parole, avete fatto in modo che il corpo dell'orazione si afflosciasse e
cadesse.
E' questo il correlativo
stilistico dell'ira di Priapo. Infatti si può dire della bellezza quanto
Sofocle afferma della aJjlhvqeia in
uno dei versi conclusivi dell'Antigone :"ojrqo;n
aJlhvqei ' ajeiv" (v. 1195),
la verità è sempre una cosa dritta. Nel prologo dell'Edipo re (v.39) il
sacerdote chiede aiuto al sovrano contro la peste e la sterilità, sia della
terra sia delle donne, in quanto, afferma,"levgh/
nomivzh/ q j hJmi'n ojrqw'sai bivon", sei detto e sei ritenuto quello
che ci ha raddrizzato la vita.
Dritta è anche la virtù: “et
haec recta est: flexuram non recipit” (Seneca Ep., 71, 20)
Quindi Encolpio mette sotto accusa
il tipo dello studioso, estraneo alla vita, lo stesso che Nietzsche definirà
"l'eterno affamato, il "critico" senza piacere e senza forza, l'uomo
alessandrino, che è in fondo un bibliotecario e un emendatore, e si acceca
miseramente sulla polvere dei libri e degli errori di stampa"[47].
Il protagonista del Satyricon lo contrappone ai grandi tragici:"nondum
iuvenes declamationibus continebantur, cum Sophocles aut Euripides invenerunt
verba quibus deberent loqui, nondum umbraticus doctor ingenia deleverat,
cum Pindarus novemque lyrici Homericis versibus canere timuerunt. et ne poetas
solum ad testimonium citem, certe neque Platona neque Demosthenen ad hoc genus
exercitationis accessisse video " (2, 3-5), ancora i giovani non erano
chiusi nelle vuote declamazioni, quando Sofocle e Euripide trovarono le parole
con le quali dovevano parlare, non c'era ancora un erudito cresciuto nell'ombra
a scempiare gli ingegni, quando Pindaro e i nove lirici
[48], si peritarono
a cantare in versi omerici. E per non far venire solo i poeti come testimoni, di
certo non trovo che Platone né Demostene si sono abbassati a questo genere di
esercitazione.
Anche il classicista
Quintiliano vuole escludere l'ombra, la solitudine e la muffa
dall'educazione del ragazzo che sarà un buon oratore:"Ante omnia futurus
orator, cui in maxima celebritate et in media rei publicae luce vivendum est,
adsuescat iam a tenero non reformīdare homines neque illa solitaria et velut
umbratica vita pallescere. Excitanda mens est et adtollenda semper est, quae
in eiusmodi secretis aut languescit et quendam velut in opaco situm ducit, aut
contra tumescit inani persuasione; necesse est enim nimium tribuat sibi, qui se
nemini comparat "[49]
, prima di tutto il futuro oratore che deve vivere frequentando moltissime
persone, e in mezzo alla luce della politica, si abitui fin da ragazzo a non
temere gli uomini e a non impallidire in quella vita solitaria e come umbratile.
Va tenuta sveglia e sempre innalzata la mente che in solitudini di tal fatta o
si infiacchisce e nella tenebra prende un certo puzzo di muffa, o al contrario
si gonfia di vuoti convincimenti: è infatti inevitabile che attribuisca troppo a
se stesso chi non si confronta con nessuno. Il maestro pallido desta una
diffidenza o addirittura una ripugnanza istintiva, anche fisica nel giovane
discepolo. Fidippide, il figlio di Strepsiade, rifiuta i cattivi educatori della
scuola di Socrate anche per il loro colore giallastro, malsano:"aijboi',
ponhroiv g'
oi\\jda. tou;" ajlazovna"-tou;" wjcriw'nta"
tou;" ajnupodhvtou" levgei" (Nuvole, vv. 102-103), puah!, quei
furfanti, ho capito. Tu dici quelle facce pallide, gli scalzi.
;
Lo stile deve risaltare non per
gli orpelli ma per una sua bella naturalezza:" grandis et, ut ita dicam,
pudica oratio non est maculosa nec turgida, sed naturali pulchritudine exsurgit
" ( Satyricon, 2, 6), l'orazione grande e, per così dire, pura, non è
chiazzata né enfatica ma si eleva per bellezza naturale. L'orazione insomma deve
essere non truccata e non artefatta, come non deve esserlo la donna[50].
Lo stile atticista dei
commentarii di Cesare viene elogiato da Cicerone con queste parole: “nudi
enim sunt, recti et venusti, omni ornatu orationis tamquam veste detracta” (Brutus,
262), infatti sono nudi, schietti e belli, senza alcun ornamento oratorio, come
un corpo spogliato.
" In una narrazione che dal grosso
e pingue realismo ascende via via fino al terribile non esistono gonfiatezze;
legge sua è l'eleganza, la vigile misura, e la legge sta scritta a caratteri
indimenticabili in principio (2 6): grandis et , ut ita dicam, pudica oratio
non est maculosa nec turgida, sed naturali pulchritudine exsurgit. Qui è il
rovescio della letteratura convenzionale. Petronio, questo meraviglioso
ascoltatore e contemplatore del reale umano, reagisce contro la negazione sotto
i primi Cesari affermatasi del buon senso e del buon gusto, contro il vuoto
delle lettere, contro "il vanissimo strepito delle parole", contro "le bollicine
melate di frasi e i detti e i fatti quasi sparsi di sesamo e papavero" (trad.
Cesareo)"[51].
Secondo Funaioli tale reazione non
può essere più tarda del primo impero:"Una così sana reazione nel III secolo? Ma
c'è in quell'età che abbia in genere qualche vena e senso di scrittore nel mondo
pagano? C'è fra gli Italici già dopo Tacito e Giovenale o, se piace, anche
Svetonio, una fibra così vigorosamente individuale di artista, quando alla
poesia o alla prosa del gentilesimo sono inaridite le interne fonti
dell'essere? Il disorientamento, si sa, è già vasto da Adriano in poi; da
allora, nella poesia e nella prosa, è grettezza, angustia di purismo letterario,
pedanteria, imitazione, disfacimento: almeno fra gli Italici, ché in provincia
nuove energie si annunziano con Apuleio, poi sboccanti nel cristianesimo. Non a
caso l'unico che avesse da dire qualcosa di suo e di sentito nella Roma del II
secolo, M. Aurelio, scrisse in greco, nella lingua in cui meglio oramai si
esprimevano le correnti ideali etiche e religiose avviatrici di quella fede che
di lì a poco trasformò le anime e le lettere" (p. 114).
"Si era caduti dall'antica
grandezza, poiché ci si era discostati dall'imitazione dei classici: tesi
puristica, che è poi quella di un Seneca il Retore e di un Quintilano. Oppure,
passando dai pregiudizi letterari a quelli morali, poiché ci si era allontanati
dall'antica virtù e ci si era immersi nella crapula: e in proposito da Catone in
poi c'è tutta una letteratura. O infine, trasferito il problema dalla terra al
cielo, poiché gli uomini non erano più religiosi[52]:
e qui i termini di confronto sono Persio e Giovenale"[53].
Le retorica asiana aveva già
ricevuto critiche, pur blande, dallo stesso Cicerone "rodiese" il quale
sostiene che l'eloquenza, lasciata Atene[54],
andò peregrinando per tutta l'Asia, e da questa contaminazione derivarono gli "Asiatici
oratores non contemnendi quidem nec celeritate nec copia, sed parum pressi et
nimis redundantes " (Brutus, 51), gli oratori dell'indirizzo asiano
non trascurabili certo, per quanto riguarda la vivacità e la facondia, ma poco
concisi, e sovrabbondanti. Migliori dunque i Rodiesi e più simili agli Attici:"Rhodii
saniores et Atticorum similiores".
Molto più critico verso la
retorica asiana è Dionisio di Alicarnasso. Lo storiografo e maestro di
retorica trasferitosi a Roma nel 30 a. C. nello scritto Sui retori antichi
condanna l'eloquenza del tempo successivo ad Alessandro Magno considerata
insopportabile per la teatralità: "l'eloquenza misia o frigia, l'etera venuta
di recente da taluni fondi dell'Asia", riuscì a scacciare la moglie
legittima, ossia l'eloquenza attica (1-3).
Su questa linea di condanna si
trova Encolpio:"Nuper ventosa haec et enormis loquacitas Athenas ex Asia
commigravit animosque iuvenum ad magna surgentes veluti pestilenti quodam
sidere adflavit, semelque corrupta regula, eloquentia stetit et obmutuit.
Ad summam, quis postea, Thucydidis, quis Hyperidis ad famam
processit?" (2, 7-8), poco fa questa
colossale logorrea piena di vento è tornata ad Atene dall'Asia e ha soffiato,
come da un astro latore di morbi, sugli animi dei giovani che si alzano verso le
cose grandi, e una volta corrotti i princìpi, l'eloquenza si arrestò e ammutolì.
Insomma chi, dopo questo, si avvicinò alla fama di Tucidide, chi di Iperide?[55].
Anche la poesia è decaduta:"ac
ne carmen quidem sani coloris enituit sed omnia quasi eodem cibo pasta non
potuerunt usque ad senectutem canescere" (2, 8), e neppure la poesia brillò
del colore della salute ma tutte le opere alimentate per così dire dal medesimo
cibo non riuscirono a incanutire fino alla vecchiaia. Nel paese guasto
l'alimento della scuola, della poesia, della vita non può che essere avariato e
quindi la corruzione è diffusa dappertutto.
Infine la pittura, argomento sul
quale Petronio tornerà:" pictura quoque non alium exitum fecit, postquam
Aegyptiorum audacia tam magnae artis compendiariam invenit " (2, 9), anche
la pittura non ha avuto risultato diverso dopoché la sfrontatezza degli Egiziani
ha trovato la scorciatoia di un'arte tanto grande. Intanto notiamo il biasimo
dell'audacia che nei tradizionalisti non manca mai. La tecnica
compendiaria viene di solito attribuita al cosidetto terzo stile
pompeiano. Si può vedere un esempio di tale tecnica nella casa dei Vettii[56].
"Non bisogna confondere, come spesso s'è fatto, questa pittura
compendiaria , cioè rapida ed evocativa, con il moderno
impressionismo, che tende a rendere con assoluta immediatezza un'emozione
visiva. Consideriamo, scegliendo a caso, il gruppo di Ermafrodito e Sileno,
nella casa dei Vettii. Il discorso pittorico è rapido, ha una cadenza accentata,
vivace; ma scorre su uno schema del tutto convenzionale. E' una pittura a
macchia…Nel giardino della Villa di Livia a Roma[57],
si ha un "inventario" di piante, raffigurate a memoria: il pittore conosce la
forma di ogni singolo albero o arbusto e la descrive con sicurezza; ma ciò che
viene precisato con rapidi tratti di colore non sono le cose che l'artista vede,
bensì le nozioni che ha di esse. Non dunque lo spettacolo della natura,
ma le immagini della mente prendono forma e si fanno evidenti nell'arte; e la
tecnica rapida e per cenni, compendiaria, non è una tecnica
creata per rendere con immediatezza le emozioni visive ma per tradurre
visivamente quelle immagini. Si spiega così come questa tecnica diventi anche
più rapida e intensa nella pittura cristiana delle catacombe, le cui immagini
puramente simboliche non hanno alcun rapporto con la realtà oggettiva"[58].
E' insomma una pittura lontana
dal realismo rimpianto da Encolpio. "Anche nel ritratto si parte da
"tipi"…Nelle tavolette che, tra I e V secolo, si ponevano in Egitto sulla mummia
nei sarcofagi (detti ritratti del Fayum), la persona è rappresentata per
lo più frontalmente, con grandi occhi spalancati per dare l'idea della vita; ma
solo l'accentuazione di qualche tratto fisionomico richiama la figura reale del
defunto. E', come si vede, un procedimento che non parte dal "vero" ma, muovendo
dall'idea o dal tipo, tende ad accostarsi al vero: un procedimento, cioè, che va
dal generale al particolare senza tuttavia implicare una presa diretta del
reale"[59].
Fra tali ritratti viene mostrato quello di Paquio Proculo e sua moglie che
provenie da una casa di Pompei e risale al I sec. d. C.
"Certo che sul piano delle idee,
se non della scrittura, Petronio è un uomo d'altri tempi. L'alessandrinismo per
lui è già del tutto al di qua della barriera. Per le lettere il problema non è
toccato, ma lo è invece per la pittura, quando egli, per bocca di Encolpio,
parla con disprezzo della pittura degli egittizzanti, con allusione scoperta al
terzo stile pompeiano, e di una scorciatoia per l'arte, che attraverso un luogo
di Plinio il Vecchio su Filosseno si riferisce chiaramente a quel periodo delle
arti figurative. E la pittura, l'alessandrina, è paragonata all'oratoria che con
essa fiorì, quella asiana, negata in blocco sempre da Encolpio nella sua
violenta requisitoria in proposito e scusata solo sul piano della convenienza da
Agamennone nella sua replica. E altrettanto per la poesia, ché nei riguardi
della polemica più viva e recente, quella tra Lucano e Virgilio, egli,
intermediario Eumolpo, tiene le parti del secondo. Né tuttavia della decadenza
egli cerca una spiegazione storica e concreta, al modo dell'autore del "Sublime"
o di quello del "Dialogo"[60].
Più avanti Ciaffi torna sull'argomento per avallare la datazione neroniana del
Satyricon:" Nel primo episodio del racconto, quello della scuola di
retorica, l'esercitazione pronunziata da Encolpio e la risposta a lui rivolta
dal maestro si concentrano intorno a un problema, crisi dell'eloquenza e sue
cause, che è tipico della società intellettuale del I sec., dall'anonimo autore
del "Sublime" a Quintiliano[61],
da Quintiliano all'autore del "Dialogo". Ma il tempo tanto più si delimita, se
dall'eloquenza passiamo alla poesia. La requisitoria pronunziata da Eumolpo in
via per Crotone contro il nuovo indirizzo anti-virgiliano dell'epica, che
sacrifica il mito alla storia, non si può che riferire a Lucano…Né altra è la
determinazione cronologica, se passiamo dalla letteratura alle arti figurative.
Encolpio, sulla fine della dissertazione da cui siamo partiti, dopo aver detto
che con una scuola del genere non ci sono più né oratori né storici né poeti,
aggiunge:"Ed anche la pittura non finì altrimenti , da quando gli egittizzanti
con la loro improntitudine trovarono una scorciatoia per tanta arte"[62].
Ora questa "improntitudine degli egittizzanti", che ridusse la via dell'arte a
una "scorciatoia", mi sembra corrispondere al terzo stile di Pompei, che a
Pompei si chiuse, proprio nella regione della città greca, con il terremoto del
63, e che anche noi chiamiamo egittizzante, perché vi dominano elementi
ornamentali tolti dal repertorio di quell'ambiente geografico e culturale, quali
fiori di loto e papiro, motivi a volute, teste di sfinge, ecc." (pp. 54-55)
Quindi è il maestro di retorica
Agamennone che parla, da esperto, dello stato, non buono, della scuola.
Egli è uno che ha sudato nella scuola (ipse in schola sudaverat, 4,
1).
Continua
Giovanni Ghiselli
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[1] L'invidia degli
uomini.
E' un sentimento molto diffuso. Lo
stesso ostracismo secondo Plutarco è un'istituzione con la quale gli
Ateniesi cacciavano in esilio quelli tra i cittadini che superavano gli
altri per fama e potenza, e con questo placavano più l'invidia che la
paura:"paramuqouvmenoi to;n fqovnon ma'llon hj; to;n fovbon" (Vita di
Alcibiade, 13, 6)
L'invidia colpisce i poeti più grandi,
afferma Ovidio:"Ingenium magni livor detractat Homeri " (Remedia
amoris, v. 365) l'invidia deprezza il genio del grande Omero, come
ha cercato di infamare il capolavoro di Virgilio:"Et tua sacrilegae
laniarunt carmina linguae " Remedia amoris, v. 367), e lingue
sacrileghe dilaniarono i tuoi carmi. Insomma l'invidia cerca di colpire
le cime:"Summa petit livor; perflant altissima venti,/summa petunt
dextra fulmina missa Iovis " Remedia amoris, vv. 369-370)
l'invidia mira verso l'alto; i venti soffiano sulle vette più alte, i
fulmini scagliati dalla destra di Giove mirano alle sommità.
All'invidia dei detrattori Telchìni
in effetti deve replicare Callimaco nel prologo degli Aitia
, e, ancora più esplicitamente il poeta di Cirene ribatte con alcuni
esametri dell'Inno II ad Apollo :
L' Invidia disse di nascosto agli
orecchi di Apollo ("oJ Fqovno" jApovllwno" ejp& ou[ata lavqrio" ei'jpen",
v. 100):
" non ammiro il cantore che non canta
temi grandi quanto il mare".
Apollo respinse l'Invidia con il
piede("to;n Fqovnon wJpovllwn podiv t& h[lasen", v. 103) e parlò così:
"grande è la corrente del fiume di
Assiria, ma molta
lordura della terra e molta spazzatura
trascina sull'acqua.
Le api portano l'acqua a Demetra non
da ogni parte
ma quella che pura e incontaminata
zampilla
da sacra sorgente piccola vena, fiore
sublime".
Un'immagine del genere troviamo nel
Cimbelino di Shakespeare:"I mari sovrani generano mostri; i poveri
tributari, i fiumi, danno invece alla nostra mensa pesci squisiti"(IV,
2).
Il grande fiume pieno di scorie è il
grande poema quale Le Argonautiche di Apollonio Rodio.
Tornando a Tacito l'invidia
di Tigellino architetta la rovina di Petronio, "elegantiae arbiter
", principe del buon gusto della corte di Nerone il despota che "nihil
amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobavisset
", niente considerava piacevole e raffinato in quell'abbondanza, se non
ciò che Petronio gli avesse approvato, "unde invidia Tigellini quasi
adversus aemulum et scientia voluptatum potiorem "[1],
di qui l'invidia di Tigellino come contro un rivale più forte nella
conoscenza dei piaceri. Nell' incipit dell'Agricola Tacito aveva
riflettuto sull'invidia in generale, chiamandolo, con l'ignoranza del
bene, vizio comune ai piccoli e ai grandi stati: "vitium parvis
magnisque civitatibus commune ".
In effetti Dante individua
questo vizio soprattutto nelle corti:" La meretrice che mai
dall'ospizio/di Cesare non torse li occhi putti,/ morte comune, delle
corti vizio", Inferno , XIII, vv. 64-66.
A. Schopenhauer in Parerga e
paralipomena fa una descrizione adatta al caso di Alcibiade:" alla
gloria dei meriti di alta specie si oppone l'invidia ; l'invidia
che vi si oppone fin dai primi passi, perfino quando si tratta di meriti
di infimo grado e non si ritira fino all'ultimo; perciò appunto
l'invidia contribuisce parecchio a peggiorare il corso del mondo, e
Ariosto con ragione definisce la vita come
questa assai più oscura che serena
vita mortal, tutta d'invidia piena (Orlando
furioso, IV, 1).
L'invidia è appunto l'anima
dell'alleanza dovunque fiorente e tacitamente stipulata, senza previa
intesa, di tutti i mediocri contro il singolo individuo eccellente di
qualsiasi specie"[1].
Concludo con le parole di Salieri
davanti al genio di Mozart traendole dal microdramma di Puskin che sono
andato a leggere dopo avere visto il film Amadeus di Forman: "
Sono invidioso. Invidio; con tormento,
Profondamente, invidio. O cielo!
dunque
Dov'è giustizia, quando il sacro dono,
Quando il genio immortale non compenso
D'amore ardente, non di dedizione,
Di sudori, di zelo, è, di preghiere.
Mi illumina la testa d'un ozioso
Vagabondo, d'un folle?...O Mozart,
Mozart" (Mozart e Salieri).
[2] Cfr.
Annales, XV, 49.
[5] V. Ciaffi, op. cit.,
p. 58.
[6] G. Funaioli, Studi
di letteratura antica, Zanichelli, Bologna, 1047, p. 114.
[7] V. Ciaffi (a cura di)
Satyricon di Petronio, Utet, Torino, 1967, p. 9.
[8] F. Fellini, Fare un
film, p. 101.
[9] F. Fellini,
Intervista sul cinema, p. 136.
[10] E. Morin, La testa
ben fatta, p. 48.
[11] E. Morin, op. cit.,
p. 48.
[12] G. B. Conte,
Scriptorium Classicum 6, p. 9.
[13] Denominazione dovuta
al filosofo cinico Menippo di Gadara, del III secolo a. C.
[14] Del 54 d. C., l'anno
della morte dell'imperatore Claudio.
[15] M.
Bachtin, Dostoevskij, pp. 147 sgg.
[16] La nascita della
tragedia, p. 95.
[17] M.
Bachtin, Dostoevskij, p. 162.
[18]
To whose hands have you sent the lunatic King?
Speak ( Shakespeare, Re Lear , III, 7) in mano a chi
avete messo il re matto? Parlate.
[19] M. Zambrano,
L'uomo e il divino, p. 142.
[20] In particolare
Agrippina, la madre di Nerone. La incontreremo più avanti in tutta la
sua terribilità, nel suo essere atrox .
[21] M. Zambrano, op.
cit., p. 143.
[22] M. Yourcenar,
Memorie di Adriano, pp. 84-85.
[23] M.
Bachtin, Dostoevskij, p. 149.
[24] Direi, contro altri
interpreti fautori di una datazione più bassa, che i temi comuni
discendono direttamente al Satyricon dall'epos in quanto i
romanzi greci a noi pervenuti sono successivi all'età di Petronio e
Nerone.
E' pur vero quanto afferma P.
Fedeli:"Petronio verrebbe ad essere anteriore agli autori greci di
romanzi, che vedrebbero invece in Apuleio un loro contemporaneo. Com'è
noto, successivi reperti papiracei hanno notevolmente alzato la
cronologia delle prime testimonianze romanzesche ( i frammenti papiracei
del Romanzo di Nino, infatti, sono del I sec. a. C.)…Forse la
teoria che ha retto meglio all'urto dei tempi è la più antica e la più
semplice (e probabilmente per questo essa è stata riproposta nelle
epoche più diverse): il romanzo sarebbe sorto sulle ceneri dell'epos". (Lo
spazio letterario di Roma antica, vol.I, p. 345).
V. Ciaffi, contro il Paratore
(Il Satyricon di Petronio, Firenze 1933 I, pp. 144-146 e il
Marmorale La questione petroniana, Bari, 1948, pp. 31-34),
sostiene che un'estensione assai ampia del Satyricon non è
incompatibile con quella di altri romanzi greci e latini:"Se le
"Metamorfosi" di Apuleio e le "Etiopiche" di Eliodoro, quelle in undici
libri e queste in dieci, sono tra quanti ne giunsero fino a noi i
romanzi più estesi del mondo greco e romano, le "meraviglie di là da
Tule" di Antonio Diogene e le "Babiloniche" di Giamblico, da noi, come
si sa, non conosciute direttamente, ma attraverso i riassunti che Fozio
ne ha lasciato, avevano ben altra portata narrativa, se quelle erano in
ventiquattro libri, in sedici almeno queste. E non vale obiettare che
nell'uno e nell'altro caso ridotta era forse la misura del libro, poiché
vasta e complessa in proporzione è la materia compendiata dal patriarca"
(op. cit., p. 10).
[25] J. P. Sullivan, Il
"Satyricon" di Petronio , p. 26.
[26] Lo spazio
letterario di Roma antica, vol.I, p. 346.
[27] G. W. F. Hegel,
Estetica, Tomo II., p. 1447.
[28] G. B. Conte,
Scriptorium Classicum 6, p. 9
[29] G. Murray, Le
origini dell’Epica greca, p. 341.
[30] Plutarco, Vita di
Crasso, 32.
[31] M. Bettini, I
classici nell’età dell’indiscrezione, p. 64.
[32] P. Fedeli, , Lo
spazio letterario di Roma antica, vol I, p. 348.
[33] J.K. Huysmans,
Controcorrente, p. 43 e sgg.
[34] Dal giugno del 68 al
gennaio del 69.
[35] Il vecchio avaro
Grandet.
[36] H. de Balzac,
Eugenia Grandet, p. 44.
[37] S. Mazzarino,
L'impero romano, I, pp. 230-231.
[38] Nero virtutem
ipsam excindere concupivit interfecto Thrasea Peto (Annales,
XVI, 21), Nerone volle recidere la virtù stessa con l'ammazzare Trasea
Peto.
[39] Nel 66 d. C.
[40] S. Mazzarino, Il
pensiero storico classico, 3, p. 64.
[41] "Et tu litteras
scis et ego" dice Encolpio ad Ascilto nel decimo capitolo, siamo
tutti e due letterati.
[42] Comparso in Spagna
nel Cinquecento. Racconta le avventure di personaggi di infima
estrazione sociale: picaro significa "furfante", "pitocco". Un esempio:
l'anonimo Lazarillo de Tormes del 1554.
[43] Luca Canali, L'erotico
e il grottesco nel Satyricon, p. 5
[44] Luca Canali, L'erotico
e il grottesco nel Satyricon, p. 4.
[45] G. Funaioli, op.
cit., p. 14.
[46] J. Joyce, Ulisse,
p. 172.
[47]Nietzsche, La
nascita della tragedia , trad. it. Adelphi, Milano, 1977, p. 123.
[48] Il canone
alessandrino dei nove lirici più importanti comprendeva Saffo, Alceo,
Anacreonte (lirica monodica), Simonide, Bacchilide, Pindaro, Alcmane,
Stesicoro, Ibico (lirica corale). Li abbiamo menzionati quasi tutti come
poeti d'amore e maestri dei latini.
[49] Institutio
oratoria I, 2, 18.
[50] Si può pensare alla
storia di Eracle al bivio riportata dai Memorabili di
Senofonte (II, 1, 21-34)
[51] G. Funaiolo, op. cit.
p. 114.
[52] Cfr. 44, 18: "quia
nos religiosi non sumus, agri iacent", poiché non abbiamo religione,
i campi sono abbandonati.-
[53] V. Ciaffi, op. cit.,
p. 49.
[54] Con allusione a
Eschine: l'oratore ateniese andò in esilio a Rodi dopo che la sua
orazione pronunciata Contro Ctesifonte , il quale aveva proposto
una corona di merito a Demostene, fu respinta dai giudici favorevoli a
quella di Demostene Per la corona (330 a. C.).
[55] Oratore ateniese
coetaneo di Eschine, fu con Demostene nel partito antimacedone. Fu fatto
uccidere da Antipatro nel 322 a. C. Viene ricordato da Cicerone tra gli
oratori capaci di parlare atticamente (attice dicere )
entusiasmando il pubblico, con Pericle, Eschine e soprattutto Demostene
( Brutus , 290).
[56] Poco dopo la metà del
I sec. d. C.
[57] Metà del I sec. d. C.
[58] G. C. Argan,
Storia dell'arte italiana, 1, p. 161.
[59] G.
C. Argan, op. cit., p. 162.
[60] V. Ciaffi, op. cit.
p. 48. Vedremo più avanti le spiegazioni dell'Anonimo e di Tacito.
[61] Che scrisse un De
causis corruptae eloquentiae, perduto
[62] 2, 9.