NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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domenica 29 novembre 2015

I "Remedia amoris" di Ovidio, Parte I

Ovidio
Testo della conferenza tenuta il 28 novembre 2015 nel Liceo classico Properzio di Assisi


Sommario
Proemio del poemetto. Antologia dei Remedia amoris. E' bene togliere di mezzo l'otium.
Egisto amò e andò in rovina siccome non aveva niente da fare. Si possono coltivare i campi o andare a caccia. Il tovpo" della inutile mutatio locorum viene ribaltato. Il motivo dei favrmaka inutili. La donna che preferisce il venditore ambulante o il gladiatore all'uomo civile. Ovidio e Giovenale. Il tovpo" dell'invidia. L'elegia, come ciascun genere, ha il suo registro, i suoi temi e il suo metro. Un consiglio sbagliato. Il tema dell'impotenza e quello del piacere. Un assaggio del Satyricon. Conviene osservare i difetti dell'amante fino alla nausea. Confronto con lo stesso consiglio dato da Lucrezio nel IV libro de De rerum natira. Ovidio e D'Annunzio. E' opportuno avere più di un'amante. Ovidio, Meleagro, Properzio e Svevo il quale del resto dà il suggerimento opposto: "un'amante in due è l'amante meno compromettente". Consigli di simulazione. Il paraklausivquron anomalo di Ovidio.
 L'amore che insegue chi fugge e viceversa: Callimaco, Orazio, Ovidio, Goldoni, Dostoevkij, Proust, Pavese. Il fiore non colto è più bello e desiderabile: Ariosto, Tolstoj, Gozzano.
Chiodo schiaccia chiodo, ma quattro chiodi fanno una croce. Loca sola caveto. Bisogna evitare i luoghi isolati. Fillide, Arianna e la catena letteraria. Bisogna fare attenzione al contagio. Evitare la domina. Non parlare di lei. Rifiuto dell' odi et amo. E' meglio lasciarsi in pace, evitando giudici e avvocati. L'amor proprio. Guardarsi dalle lacrime delle donne che sono a buon mercato come le bugie. Apprezzamenti delle lacrime in Euripide. Non si devono rileggere le lettere del tempo dell'amore. E' bene allontanare le immagini. Il surrogato funereo di Laodamia e Admeto. Bisogna evitare i luoghi "consci" dell'amore perduto. Cenere, fuoco e amore in Ovidio e D'Annunzio. Un platonismo applicato ai Remedia. La ricchezza è un'occasione per l'amore sregolato, ma non per questo viene raccomandata la povertà. Rassegna dei poeti d'amore: Callimaco, Filita, Anacreonte, Tibullo, Properzio, Gallo. Leopardi su Ovidio.
Bisogna evitare la gelosia escludendo o ignorando la presenza di rivali. Non è il caso di mangiare cibi afrodisiaci: cipolla e rucola che fa saltare, gli stessi che invece vengono consigliati nell'Ars amatoria con l'aggiunta di altri: uova, miele e pinoli. Il vino nei Remedia e in Apuleio. Epilogo del poemetto. Il rimedio migliore è la moralizzazione del rapporto amoroso: Musil. Dalla donna che ci fa soffrire comunque si impara: Proust. Il rispetto: Moravia, Buzzati e Fromm. L'antistrofe del III Stasimo dell'Antigone di Sofocle.

Nell’Ars amatoria, Ovidio approva il cultus contrapposto alla rusticitas. Eppure cultus è una di quelle parole chiave con significati diversi, anche contrastanti: nei Remedia amoris il poeta, seguendo la lezione di Lucrezio, denuncia gli inganni del cultus, quindi consiglia all'uomo di arrivare improvisus e di sorprendere la donna inermem, non attrezzata. Eros si associa a Eris.

Appendice
Ovidio, il Medioevo e le letterature in volgare.
Sommario.
Consonanze tra Ovidio e la mentalità medievale. Il realismo conoscitivo che del resto risale a Tucidide.
 Il De amore di Andrea Cappellano.
Chrétien de Troyes: Erec e Enide. Il rovesciamento del topos ovidiano sulla desidia che favorisce l'adulterio.
Brunetto Latini: il Tesoretto.
 Dante e il De vulgari eloquentia.
Guido Cavalcanti e Guido Orlandi.
Petrarca: il De vita solitaria e il Secretum. Il Canzoniere e il mito portante di Dafne - Apollo.
Un cenno a Shakespeare.
Boccaccio: il Filocolo, l' Elegia di Madonna Fiammetta, il Decameron. Il libro del cortegiano.
Agnolo Poliziano e la Fabula di Orfeo.
L' Orlando furioso.
Calvino: la delicatezza di Perseo nelle Lezioni americane.


I Remedia amoris di Ovidio

I Remedia amoris appartengono all'ultimo periodo della prima parte della produzione ovidiana, quella elegiaco - amorosa che arriva al 2 d. C. Ebbene in questo poemetto di 814 versi (412 distici elegiaci) il poeta non tocca l'argomento della moralizzazione necessaria al benessere mentale ma insiste nel consigliare finzione e simulazione.
 L'amore è ancora una volta visto come una partita a scacchi[1].
 Pavese invece, e forse non del tutto a torto, sostiene: "L'amore è come la grazia di Dio - l'astuzia non serve"[2].

 L'Ars amatoria, in tre libri (1 a. C. - 2d. C.) , è un poema di precettistica erotica nel quale il praeceptor amoris (I, 17) , ossia l'autore stesso, "insegna a ricondurre tutti i momenti di una relazione d'amore alla strategia del maggior vantaggio possibile; perfino la sofferenza non viene esclusa purché sia ridotta, essa pure, a strumento dell'utile: per guadagnare il favore della puella sarà bene che il corteggiatore appaia sofferente: est tibi agendus amans imitandaque vulnera verbis (Ars amatoria 1, 609)"[3], devi fare la parte dell'innamorato e con le parole simulare le ferite. L’amore dunque come recita nell’Ars.
Che l'amore debba essere una simulazione è, dopo tutto, il credo della prostituta e viene professato direttamente dalla lena della Cistellaria di Plauto (203 a. C.) . Questa donna lena o Lena dice alla meretrice Selenia: "adsimulare amare oportet; nam si ames, extempulo/melius illi multo quem ames consulas quam rei tuae " (vv. 96 - 97) , bisogna fingere di amare, infatti se ami, tosto fai gli interessi di quello che ami piuttosto che i tuoi. Pertanto la raccomandazione della ruffiana è: "ne quem amas " (v. 118) , non innamorarti di nessuno. Cfr. il discorso di Lisia e il primo di Socrate nel Fedro platonico.
Quelli che amano davvero sono solo gli uomini bambini (H. Hesse in Siddharta)
"Tocchiamo così un punto cruciale della conversione che ha subìto l'elegia: dall'ideologia della sincerità a quella della finzione. L'elegia aveva fatto dell'autenticità la forma stessa del suo discorso; la didascalica ovidiana diffida della sincerità e delle passioni incontrollabili, e raccomanda invece l'arte di fingere. Come un attore, l'amante deve recitare il suo ruolo: est tibi agendus amans... Se la didascalica ovidiana costituisce la realizzazione di questo semplice programma (alla fine risulterà che è possibile un amore senza frustrazioni e patimenti) possiamo aggiungere che Ovidio non si accontenta di una dimostrazione 'affermativa' (" vi insegno come si ama") ma accetta anche la sfida di una prova in negativo ("se il vostro amore è sbagliato, vi insegno a liberarvene") ... Ciò che rispetto all'Ars distingue i Remedia sta nelle ragioni specifiche di un'opera che si propone come insegnamento di una terapia: si tratta di servirsi ora della riconosciuta parzialità del mondo elegiaco per indicare l'esistenza e i vantaggi di altri mondi verso cui uscire, in cui cercare rifugio e guarigione... l'argomentazione didascalica dei Remedia intende aggredire l'elegia in uno dei suoi fondamentali presupposti ideologici: il rifiuto della vita attiva, la scelta deliberata dell'otium desidiosum [4].


continua



[1] A game of chess (una partita a scacchi appunto) è il titolo della II sezione de La terra desolata di Eliot e allude proprio alla mancanza di schiettezza e moralità dei rapporti umani.
[2] Lettere, Bocca di Magra, agosto 1950.
[3]G. B. Conte, introduzione a Ovidio Rimedi contro l'amore, p. 32.
[4] Ozio neghittoso. Conte aggiunge in nota "di quello che era un motivo catulliano (51, 16 s. Otium, Catulle, tibi molestum est; /otio exsultas nimiumque gestis) l'elegia aveva fatto uno dei temi ricorrenti che corrispondono alla sua scelta fondamentale per la nequitia, e spesso con essa coincidono. 

venerdì 27 novembre 2015

IL SOLE TRAMONTA A ORIENTE, Assisi, 28 novembre 2015


Twitter, CCXXI antologia

Nuzzi
Subito prima del convegno di Assisi


Nuzzi ha la faccia che si merita e gli corrisponde. E' uno che sfregia verità, morale e bellezza

La Beccalossi è umanamente insopportabile. Come gallina sarebbe incommestibile. 

Nucci abbaia contro Giulietto Chiesa. Forsennato latrò sì come cane, tanto il rancor gli fe' la testa torta.

Nemmeno come tubo di scarico funzionerebbero certi ciarloni televisivi: sono infatti sempre ingorgati.

La parola "guerra" viene equivocata da molti politici, e non solo italiani. Questa equivocazione è  più pericolosa che dare un senso unico alla parola oscena. Il senso unico, non equivoco, di terrorismo e  guerra è: “il mostro sanguinario che si fa beffe dei cadaveri di cui si nutre”

Cosa voglio? Cultura, Pace, Amore, quello figliolo di Venere Celeste (non quello Volgare). Nitimur in vetitum semper cupimusque negata.




giovanni ghiselli

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mercoledì 25 novembre 2015

Twitter, CCXX antologia

La nostra televisione


Non pochi invitati in televisione per commentare le stragi trasformano l'atroce in profitto proprio, e le loro assurdità in leggi della storia universale.

Sallusti ha una maschera spettrale, costruita dal risentimento. Sembra assetato di sangue. Dracula mi appare più sobrio e più lieto.

La brama di voti in Salvini si è sviluppata in maniera abnorme per superfetazione. Così le sue corde vocali arpeggiano stragi.

Un uso criminale e ripugnante dei bambini è il loro impiego negli spot pubblicitari. Chi lo fa, dovrebbe essere punito al pari dei pedofili

Anche questa sera Fazio sorrideva e sorrideva.
 Io la penso come  Amleto " one may smile, and smile, and be a villain" (I,5)

Contro i fuchi, i calamistri e tutti gli elementi ascitizi delle celebrazioni retoriche : io condanno ogni strage e mi impiego parlando e scrivendo in favore della pace, ma sono di Pesaro, non di Osimo,  né di Predazzo, né di Parigi. Il terrorismo non verrà sconfitto dalle parate retoriche vane, ma dalla cultura e dall’educazione. Né si sconfiggono i terroristi abbattendo gli aerei russi.

Molto bene il alla battaglia culturale e il no a una Libia bis di Renzi

La pubblicità è il falso istituzionalizzato. Tutto è falso: dalle lacrime ai sorrisi, dagli uomini alle donne, dai vecchi ai bambini abusati.  



giovanni ghiselli

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martedì 24 novembre 2015

Nietzsche, "La nascita della tragedia", XI parte

il recupero del Partenone

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C’è dunque l’ascoltatore estetico e quello socratico-critico incapace di comprendere il mito “immagine concentrata del mondo che come abbreviazione dell’apparenza non può fare a meno del miracolo” (p. 151). Senza mito ogni civiltà perde la sua sana e creativa forza di natura: solo un orizzonte circoscritto da miti può raccogliere in unità tutto un movimento di civiltà. Solo dal mito le forze della fantasia e del sogno apollineo vengono salvate dal loro vagare senza direzione.  Il mito garantisce la sua connessione con la religione, il suo crescere da rappresentanze mitiche. Le immagini del mito devono essere i demonici custodi, inosservati e presenti, sotto la cui vigilanza cresce l’anima del giovane e neppure lo Stato conosce leggi non scritte che siano più potenti del fondamento mitico.
Il socratismo tende alla distruzione del mito e a questo annichilimento segue l’educazione astratta, il costume astratto, il diritto astratto , il vagare senza regole della fantasia artistica non frenata da alcun mito patrio, una cultura che non ha un fondamento ma è condannata a nutrirsi affannosamente di tutte le culture. L’uomo senza miti, eternamente affamato, cerca radici in mezzo a tutti i passati. L’enorme bisogno storico della cultura moderna , l’affastellarsi di innumerevoli culture, l’insoddisfazione perenne dipende dalla perdita del mito, della patria mitica, del mitico grembo materno (p. 152).
Ma questa cultura non mitica non ha nulla a che vedere con la nobile essenza del nostro popolo (p. 152)

Veramente (ndr) Socrate non è ascrivibile a questa cultura antimitica.
Nel prologo del Fedro  Socrate dice a Fedro  che se non credesse al mito di Borea che rapì Orizia figlia del re Eretteo, come non ci credono oiJ sofoiv,  non sarebbe l’uomo strano (a[topo~) che è (229c). Potrei dire, facendo il sapiente sofizovmeno~, che un colpo di vento di Borea gettò Orizia giù dalle rupi  o dall’Areopago. E’ un’interpretazione ingegnosa, ma chi la fa, poi deve raddrizzare gli Ippocentauri, la Chimera, e Gorgoni e Pegasi e tutte le stranezze della natura. E per questo ci vuole molto tempo libero: ejmoi; de; pro;~ aujta; oujdamw`~ scolhv (229e).
Io non sono ancora in grado di conoscere me stesso kata; to; Delfiko;n gravmma, perciò mi sembra ridicolo geloi`on dhv moi faivnetai indagare cose che mi sono estranee- ta; ajllovtria skopei`n . Dunque dico addio a tali questioni, esamino me stesso skopw` ejmautovn, per vedere se per caso io non sia una bestia più intricata e più invasa da brame di Tifone o se sono un essere vivente (zw`/on) più mite e semplice,  partecipe per natura di una sorte divina e priva di superbia fumosa (Fedro, 230a)

Tutte le nostre speranze tendono a riscoprire, sotto questa vita civilizzata una forza antichissima, magnifica e intimamente sana, quella forza da cui è scaturita la Riforma tedesca  dal cui corale cominciò a risuonare la musica tedesca (p. 153).
Ora dobbiamo attenerci alle nostre luminose guide, i Greci. Da loro abbiamo imparato l’apollineo e il dionisiaco e il tramonto della tragedia è dovuto al disgiungersi di questi due istinti artistici originari. La fine della tragedia si accorda con una degenerazione del carattere greco e questo mostra come l’arte e il popolo, il mito e il costume, la tragedia e lo Stato siano connessi. Il tramonto della tragedia fu nello stesso tempo il tramonto del mito (p. 154)
Congiungendo al mito il presente, questo appariva sub specie aeterni, e in questo fiume del senza tempo si tuffavano lo Stato e l’arte. Un popolo e anche un uomo vale solo in quanto sa imprimere nelle sue vicende l’impronta dell’eterno. Il contrario avviene quando un popolo comincia concepirsi storicamente e ad abbattere il mito (cfr. il to; mh; muqw`de~ di Tucidide I, 22, 4).
La tragedia greca ostacolò soprattutto la distruzione del mito. Quindi intervenne una febbrile ricerca che accumulò superstizioni e miti raccattati da ogni parte; in mezzo a questo il Greco si arrestò e mascherò quella febbre con serenità greca divenendo greculo oppure si stordì in qualche cupa superstizione orientale. In età moderna continua la stessa mostruosa mondanizzazione, un avido accalcarsi a tavole straniere, una frivola divinizzazione del presente tutto sub specie saeculi , sempre con la distruzione del mito. Trapiantare un mito straniero significa danneggiare l’albero. Lo spirito tedesco deve rigettare gli elementi trapiantati che consumano l’albero ammalato e intristito o snaturato in un morboso lussureggiare. La vittoria cruenta nell’ultima guerra può far pensare che abbiamo cominciato a espellere l’elemento neolatino.

Cfr. Scopenhauer sul francese: questo miserrimo gergo romanzo, questa pessima mutilazione di parole latine, con la peculiarità di un disgustoso suono nasale, come pure il singhiozzante accento così indicibilmente ripugnante sull’ultima sillaba. Invoco il biasimo dell’Europa tutta contro gli spudoratissimi fanfaroni che la definiscono langue classique (Parerga e Paralipomena. p. 723).
I primi che lottarono su questa via furono Lutero e i nostri grandi artisti e poeti. Ma soprattutto il Tedesco deve ascoltare il richiamo dell’uccello dionisiaco che si libra su di lui.


Capitolo XXIV (pp. 156-161)

Il contenuto del mito tragico è innanzitutto, un accadimento epico con la glorificazione dell’eroe che lotta. La sofferenza dell’eroe esemplifica la saggezza del Sileno che comprende il brutto e il disarmonico.  Ma l’arte non è solo imitazione della realtà naturale, bensì è pure un supplemento metafisico della realtà di natura, postole accanto per superarla. Il mito tragico ha questa funzione trasfiguratrice che deve suscitare un piacere estetico prima che morale. Ebbene il mito tragico deve convincerci che perfino il brutto e il disarmonico sono parte di un gioco artistico che la volontà gioca con se stessa nell’eterna pienezza del sui godimento. La dissonanza musicale ci fa capire questo fenomeno originario dell’arte dionisiaca. Il fenomeno dionisiaco ci rivela che il gioco di costruzione e distribuzione del mondo individuale è l’efflusso di una gioia primordiale, come si può capire anche dal frammento di Eraclito: “aijw;n pai`~ ejsti paivzwn, pesseuvwn, paidio;~ hJ basilhivh (D. 48).dunque la forza formatrice del mondo “viene paragonata da Eraclito l’oscuro a un fanciullo che giocando disponga pietre qua e là, innalzi mucchi di sabbia e di nuovo li disperda (p. 160) aijwvn (cfr, ajeiv e lat. eevum, è il tempo, la vita, l’eternità.
Musica e mito sono parenti. Quando decade uno si intristisce anche l’altra. L’ottomismo socratico comporta un’esistenza senza miti, un’arte abbassatasi a divertire, una vita guidata da concetti. Ma lo spirito tedesco che riposava in un inaccessibile abisso, intatto nella sua splendida salute, simile a un cavaliere dolcemente assopito, fa salire fino a noi il canto dionisiaco. Questo canto un giorno annienterà i nani maligni e desterà Brunilde


Capitolo XXV (pp. 161-163)

Musica e mito tragico provengono da un dominio artistico al di là dell’apollineo, e giustificano l’esistenza del peggiore dei mondi.  Il dionisiaco suscita all’esistenza tutto il mondo dell’apparenza anche l’orrido, e quindi è necessario l’apollineo. La dissonanza se si facesse uomo che di fatto è dissonanza, ha bisogno per vivere di una magnifica illusione che lo copra con il velo della bellezza. Questpoè il fine artistico di Apollo che illudendo con la bella apparenza rende la vita degna di essere vissuta.

-Cfr. Foscolo: “All’amica risanata (1802, Antonietta Fagnani Arese): “sorgon così tue dive/membra dall’egro talamo,/e in te beltà rivive,/l’aurea beltate ond’ebbero/ristoro unico a’ mali/le nate a vaneggiar menti mortali”.-

La forza di trasfigurazione apollinea abbellisce il sostrato dionisiaco del mondo. Le rigogliose espressioni di bellezza intervengono proprio dove le forze dionisiache si levano più impetuosamente
Se potessimo tornare nella Grecia più antica, vedendo uomini dall’incedere solenne, dai movimenti leggiadri, esclameremmo: “Beato popolo degli Elleni! Come deve essere stato grande tra voi Dioniso, se il dio di Delo ritiene necessari tali incantesimi per guarire la vostra follia ditirambica!” (p. 162)
Ma un vecchio ateniese guardando con il sublime occhio di Eschilo potrebbe replicare: aggiungi però questo, tu bizzarro straniero: quanto dovette soffrire questo popolo per diventare così bello!” (cfr. tw`/ pavqei mavqo~, Agamennone, 177).

Sulla sofferenza positiva Nietzsche si esprime in Di là dal bene e dal male[1]:"il grado gerarchico di un uomo è quasi determinato dal grado di profondità cui è capace di giungere la sofferenza degli uomini,-la sua raccapricciante certezza…di sapere di più grazie alle sue sofferenze" (p. 200).
F. Dostoevskij in Ricordi del sottosuolo (del 1864) scrive:" io sono convinto che l’uomo non rinuncerà mai alla vera, autentica sofferenza, e cioè alla distruzione e al caos. Giacché la sofferenza è la vera origine della coscienza…  In realtà io continuo a pormi una domanda oziosa: che cos'è meglio, una felicità da quattro soldi o delle sublimi sofferenze? Dite su, che cos'è meglio?" (p. 234 e p. 320).


fine

giovanni ghiselli



[1] Del 1875

domenica 22 novembre 2015

Nietzsche, "La nascita della tragedia", X parte

Leighton, Tristan and Isolde (1902)

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Capitolo XIX (pp. 124-133)

La cultura socratica si può anche chiamare cultura dell’opera. Innanzitutto Nietzsche ricorda lo stile del recitativo. Il cantante più che cantare parla accentuando il pathos. Il recitativo è la mescolanza dell’esposizione epica e di quella lirica, una conglutinazione però del tutto esteriore, come un mosaico. Gli inventori del recitativo credettero di svelare con quello stilo rappresentativo il mistero della musica antica, quello di un Orfeo o di un Anfione. Si considerò quello stile la rinascita della musica greca. Il recitativo fu considerato il linguaggio riscoperto dell’uomo primitivo idillicamente o eroicamente buono. Ma la genesi di questa nuova forma d’arte è la soddisfazione di un bisogno non estetico, ossia la volontà di concepire come buono l’uomo primitivo. L’opera è edificata sugli stessi principi della cultura alessandrina, è un prodotto dell’uomo teoretico, del critico profano, non dell’artista. Che si debba capire la parola è una pretesa degli ascoltatori non musicali. E’ rozza l’opinione che la parola debba prevalere. L’uomo colto del Rinascimento si fece ricondurre alla tragedia greca da questa sua cultura operistica. Ma l’uomo idillico, il pastore che eternamente canta deriva dall’ottimismo che ha come base la  cultura socratica ma di lì degenera ancora esalando un profumo dolciastro. Dall’opera dunque deriva il facile piacere per una realtà idillica, ma si tratta di uno sciocco baloccarsi. L’opera è un essere bamboleggiante che deriva dalla serenità alessandrina e non ha nulla a che vedere con la terribilità della natura.
Il mondo parassitario dell’opera non è nutrito dai succhi dell’arte vera. L’uomo eschileo sta alla serenità alessandrina, come l’opera moderna alla tragedia. Eppure nell’epoca attuale sta risvegliandosi lo spirito dionisiaco. Eracle non è rimasto per sempre infiacchito nella voluttuosa soggezione a Onfale (cfr. Trachinie, v. 70).

Nelle Trachinie di Sofocle, Illo dice alla madre Deianira che Eracle, padre e marito dei due,” la scorsa stagione per tutto il tempo ha faticato al servizio di una donna di Lidia-Ludh`/ gunaikiv fasiv nin lavtrin ponei`n (v. 70).

Dal fondo dionisiaco dello spirito tedesco è uscita una forza terribile e inesplicabile per la cultura socratica: la musica tedesca dal potente corso solare: da Bach a Beethoven a Wagner. E’ un demone che scaturisce da insondabili profondità e il socratismo non può batterlo partendo dai merletti e dagli arabeschi della melodia operistica. Dalla stessa sorgente della musica tedesca deriva la filosofia di Kant e di Schopehauer che è la sapienza dionisiaca espressa in concetti  Ora sembra che procediamo in ordine inverso rispetto ai Greci: dall’età Alessandrina al periodo della tragedia. Lo spirito tedesco ora può presentarsi davanti ai popoli ardito e libero senza la briglia di una civiltà romanza, purché sia disposto a imparare dai Greci, imparare dai quali è già un’alta gloria e una rarità che distingue (p. 133).
Goethe, Schiller e Winckelmann hanno condotto una nobilissima lotta per la cultura. Eppure gli sforzi di molti per giungere al nocciolo della cultura greca non sono efficaci. Si sente una retorica priva di effetto sull’armonia greca, la bellezza greca, la serenità greca.
La cultura degli istituti superiori va scemando ed è il giornalista il cartaceo schiavo del giorno che riporta la vittoria sull’insegnante superiore il quale oramai si muove anch’egli nell’eloquio giornalistico.
Una cultura così debole odia la vera arte poiché da essa vede la sua fine . Eppure la debole e gracile cultura attuale è l’esaurimento di quella socratico-alessandrina.  Nemmeno Goethe e Schiller riuscirono a forzare la porta stregata che conduce alla montagna incantata ellenica, non sono andati oltre il nostalgico sguardo che l’Ifigenia goethiana manda dalla barbarica Tauride alla patria oltre il mare. Ma la musica tragica è risorta. Solo nella rinascita dell’antichità ellenica troviamo la speranza per un rinnovamento e una purificazione dello spirito tedesco attraverso la magia di fuoco della musica (p. 136)     
Nella cultura attuale c’è solo polvere, sabbia, irrigidimento. Schopenhauer, cui mancò ogni speranza,  che volle la verità. è paragonabile al Cavaliere con la morte e il diavolo di Dürer (incisione a bulino del 1513) imperturbato dai suoi orrendi compagni solo col destriero e il cane.
La magia dionisiaca però afferra come un turbine tutto ciò che è spento, marcio, rotto, appassito, e come un avvoltoio lo porta in alto. In mezzo a questa sovrabbondanza di vita, di dolore, di piacere, c’è la tragedia che narra delle Madri dell’essere.
Il tempo dell’uomo socratico è finito: inghirlandatevi di edera, prendete in mano il tirso e non meravigliatevi se la tigre e la pantera si accovacciano carezzevolmente ai vostri piedi.
Su Kant, Nietzsche cambierà idea: “Del resto Solone può fare parte dei “veri filosofi che sono dominatori e legislatori”. I vari Kant e Hegel sono “operai della filosofia” i quali “ hanno il compito di accertare e ridurre in formule una vasta gamma di valutazioni”[1].
In Crepuscolo degli idoli o come si filosofa col martello (del 1888), Nietzsche scrive: “La mancanza di realismo, la fuga dalla realtà è decadenza:"Separare in un mondo "vero" e in un mondo "apparente", sia alla maniera del cristianesimo, sia alla maniera di Kant (in ultima analisi, uno scaltro cristiano), è soltanto una suggestione della décadence - un sintomo di vita declinante…L'artista tragico non è pessimista-egli dice precisamente anche a tutto quanto è problematico e orrido, egli è dionisiaco"[2]
Quindi: “Eraclito avrà eternamente ragione in questo, che l’essere è una vuota finzione. Il mondo “apparente” è l’unico: il “mondo vero” è soltanto un’aggiunta menzognera” (p. 19).


Capitolo XXI (pp. 137-145)

Solo dai Greci dunque si può imparare. Il popolo delle guerre persiane è anche quello dei misteri tragici. Il dionisiaco può portare all’indifferenza verso la politica, ma Apollo è il formatore di Stati e il genio del principium individuationis. Ebbene lo Stato e il senso della patria non possono vivere senza l’affermazione della personalità individuale. Dallo stato orgiastico parte la strada che porta al buddismo indiano che è tollerato poiché aspira al nulla.
Dove invece gli istinti politici hanno un valore assoluto si prende una stradadi estrema mondanizzazione la cui espressione più grandiosa e spaventosa è l’imperium romano.
I Greci posti tra l’India e Roma riuscirono a trovare in classica purezza una terza forma (p. 138), non per un lungo uso proprio, ma per l’immortalità. I beniamini degli dèi muoiono giovani, ma poi vivono in eterno con gli dèi. I Greci ebbero istinti dionisiaci e politici molto forti, eppure non si esaurirono né in una meditazione estatica, né in una logorante caccia alla potenza del mondo. Raggiunsero invece quella magnifica mescolanza quale può avere un nobile vino che infiammi e disponga insieme alla contemplazione.
Una mikth; paideiva potrei dire (ndr).
 La tragedia è il compendio di tutte le salutari forze profilattiche di un popolo.
Mito e musica portano a un presentimento di gioia suprema attraverso la rovina e la negazione (cfr. Edipo a Colono).  Lo spettatore crede di sentire l’intimo abisso delle cose che gli parla.
La musica, come p. e. quella del terzo atto di Tristano e Isotta, può condurre a negare l’esistenza individuale in quanto dà voce alla volontà universale. Ma la forza apollinea ripristina l’individuo quasi frantumato e quello che sembrava un roco sospiro del centro dell’essere ci appare invece come Tristano che dice: “Oed’ und leer das Meer”, deserto e vuoto è il mare (Cfr. The Waste Land, 42 che cita anche Tristan und Isolde I, 5-8)
Vediamo l’eroe quando il mondo apollineo ci strappa all’universalità dionisiaca e ci affascina per gli individui  cui incatena il nostro sentimento di pietà e ci solleva dall’orgiastico annullamento do sé. La musica anzi dà l’illusione di poter vedere meglio. La musica è la vera idea del mondo, il dramma solo un riflesso di questa idea.
La contrapposizione anima-corpo è falsa, mentre quella vera è tra apparenza e cosa in sé. Nel complesso della tragedia, Dioniso ha il sopravvento, eppure il risultato è la fratellanza tra le due divinità. Lo spettatore vede l’eroe tragico in epica chiarezza e bellezza, e tuttavia gode del suo annientamento. Mentre rabbrividisce per i dolori dell’eroe, presagisce una gioia suprema. Il mondo dell’apparenza giunge agli estremi limiti poi si rifugia in grembo alla vera e unica realtà. N. cita ancora Tristano e Isotta (atto III) dove, secondo il metafisico canto del cigno, la gioia suprema è annegare e sprofondare nel flutto.
Lo spettatore veramente estetico immagina che l’artista tragico simile alla divinità dell’individuatio, crea le sue figure, poi però con il suo enorme istinto dionisiaco ingoia tutto questo mondo di apparenze, per fare intuire attraverso la sua distruzione una gioia primigenia in grembo all’uno originario. I cultori di estetica non sanno dire nulla di questo ritorno alla patria originaria, e invece dicono che il vero elemento tragico è la lotta dell’eroe con il destino (cfr. A. W. Schlegel), la vittoria dell’ordinamento morale del mondo o lo scaricarsi di affetti prodotto dalla tragedia (cfr. Aristotele, Poetica). Questi non sono uomini esteticamente eccitabili (p. 147).
Al massimo sono esseri morali davanti alla tragedia
Schlegel: “Gli antichi vedevano nel Destino una divinità tetraeimplacabile, abitatrice d’una sfera inaccessibile e mnolto al di sopra a quella degli Dei ( Corso di letteratura drammatica, p 57)
Nessuno ha spiegato invece l’attività estetica degli spettatori.
La catarsi di Aristotele sembra una scarica patologica di cui non è chiaro se sia da annoverare tra i fenomeni della medicina o quelli della morale (p. 148). Questo dubbio richiama una singolare intuizione di Goethe il quale scrisse a Schiller (9 dicembre 1797) di non riuscire a elaborare una situazione tragica senza un vivo interesse patologico; ed era un altro privilegio degli antichi “che per loro anche le cose più patetiche fossero solo un gioco estetico”, Nella tragedia musicale appunto le cose più patetiche diventano un gioco estetico.
L’ascoltatore estetico non è il critico “con pretese a metà morali a metà erudite”. Il critico è un essere pretenziosamente arido e incapace di godimento. I giornali predispongono il pubblico a questo atteggiamento. Gli autori dovettero adeguarsi a tale pubblico invocando l’ordine morale del mondo. Oppure l’autore presentava nel dramma l’attualità politica e sociale, in modo che lo spettatore provasse passioni simili a quelle che si provano davanti alla tribuna oratoria del parlamento o del tribunale.
Schiller volle impiegare il teatro come istituto per la formazione morale del popolo, ma questa tendenza è superata.
Il critico prendeva il sopravvento nel teatro, il giornalista nella scuola, la stampa nella società, e l’arte degenerava mentre la critica estetica veniva utilizzata come tessuto connettivo di una socievolezza egoistica il cui senso viene fatto capire dalla parabola dei porcospini di Schopenhauer , sicché si chiacchiera dell’arte e non la si considera.

In Parerga e Paralipomena II, p. 884 i porcospini trovarono una moderata distanza reciproca per non sentire freddo e non pungersi.
Così gli uomini provano bisogno di compagnia per il vuoto della loro interiorità e disgusto del prossimo. La distanza media con la cortesia e le buone maniere rende possibile la coesistenza.
“Colui però che possiede molto calore interno preferisce rinunciare alla società, per non dare né ricevere sensazioni sgradevoli”.



continua



[1] Di là dal bene e dal male, Noi dotti.
[2] Crepuscolo degli idoli, p. 21.

sabato 21 novembre 2015

Sommario della conferenza di oggi e di quelle future

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Sommario di due prossime conferenze. Argomenti del percorso

All’hotel “letterario” Victoria di Trieste, in via Alfredo Oriani 2, tra Largo Barriera Vecchia e piazza Garibaldi, alle 17 del giorno 21 di novembre, un sabato, ci sarà la ‘lectio magistralis’ del prof. Gianni Ghiselli, dell’università di Bologna, per l’inaugurazione del “Centrum latinitatis Tergesti”, filiale del “Centrum latinitatis Europae”.

Sarà presente il prof. Rainer Weissengruber quale presidente a livello europeo dell’associazione. Coordinerà la riunione il prof. Aldo Antolli che indicherà il programma e le finalità che il CLT si propone per mantenere viva la cultura latina nella nostra città. Tutti gli interessati sono invitati portando la loro esperienza e la loro cultura.


Sommario di  La nascita della tragedia (1872) di Nietzsche. Lo presenterò in una conferenza a Trieste  (Hotel Victoria) sabato 21 novembre dalle 17.
Lo completerò lunedì 23 novembre nella biblioteca Ginzburg di Bologna, dalle 18.

Postfazione.
 Tentativo di un’autocritica del 1886
L’autore fa un’abiura delle formule schopenhauriane e kantiane del suo scritto giovanile. Soprattutto non crede più che la tragedia insegni la rassegnazione e fornisca una consolazione metafisica.
Rimangono valide invece due intuizioni.
 In Ecce homo[1] il filosofo le rivendica “ innovazioni decisive: intanto la comprensione del fenomeno dionisiaco fra i Greci-il libro ne dà la prima psicologia, vedendo in esso la radice una di tutta l’arte greca.
L’altra è la comprensione del socratismo: Socrate come strumento della disgregazione greca, riconosciuto per la prima volta come tipico décadent. “Razionalità” contro istinto. La “razionalità” a ogni costo come violenza pericolosa che mina la vita!”[2].
Inoltre la giustificazione estetica della vita

La nascita della tragedia

I Capitolo
Apollineo e Dionisiaco.
Apollineo: sogno, principium individuationis, volontà di potenza, conosci te stesso, nulla di troppo, scultura, architettura, immagini dell’epos
Dionisiaco: ebbrezza, sentimento dell’unità, musica.
Apollo impone la misura anche in maniera rigida, Dioniso la spezza e manda la gente in strada a tamburellare ditirambi (cfr. il Maggiore Barbara di Bernard Shaw del 1905).
L’inno alla gioia di Beethoven e le parole di Schiller evocano il dionisiaco. (Nona sinfonia, quarto movimento)

II capitolo
Dioniso viene dall’Asia, ma là il suo culto era un orrendo miscuglio di crudeltà e voluttà., Quando giunge in Grecia, diventa fenomeno artistico.

III capitolo
Il mondo olimpico di Apollo è preceduto dalla sapienza silenica.
Excursus sulla sapienza silenica:  Erodoto, Teognide, Bacchilide, Sofocle, Euripide, Leopardi, Menandro, Lucrezio, Cicerone, Seneca, Petronio, T.S. Eliot
Nel canto dei morti dell’Odissea (XI) c’è il rovesciamento della sapienza silenica. L’indice dei libri e dei passi proibiti nella Repubblica di Platone.

IV Capitolo
La sapienza silenica e l’apollineo riscontrabili pure nella Trasfigurazione di Raffaello. Il titanico e il barbarico compaiono anche nelle varie gigantomachie: dalle metope del Partendone, al fregio dell’altare di Pergamo, e nella centauro-lapitomachia del maestro di Olimpia dove del resto compare anche Apollo che li domina.
Nella civiltà greca abbiamo dunque diverse fasi. Queste trovano la sintesi nella tragedia greca

V Capitolo
Omero e Archiloco: i due archetipi della poesia greca. L’artista non può essere soggettivo

VI Capitolo
Il linguaggio teso della lirica. ( cfr. Leopardi su Pindaro)

VII Capitolo
La tragedia nasce dal coro. Interpretazioni del coro. Schlegel, Schiller, Leopardi, Manzoni. L’arte ci salva dalla buddistica negazione della volontà. Trasforma l’atroce in sublime e il grottesco in comico.

VIII Capitolo
Il satiro è il simbolo dell’onnipotenza sessuale della natura. Degenerazione del satiro è il pastore falso e agghindato della poesia ellenistica e latina.
Il drammaturgo quando scrive, si immedesima in altre persone. Cfr. Leopardi

IX Capitolo
La chiarezza delle figure apollinee sono macchie luminose che ci appaiono dopo che abbiamo guardato nel fondo terribile della natura dove c’è un’orrenda notte.
Edipo è l’eroe della passività (nell’Edipo a Colono). Invece quando agiva ha sconvolto la natura confondendo le generazioni.
Prometeo invece è l’eroe dell’attività. Il suo è un peccato attivo e pure rivendicato dallo stesso Titano.

X Capitolo
Dioniso è un dio che lotta e soffre il dolore dell’individuazione. Nonno di Panopoli (V sec. Dionisiache)  racconta che fu fatto a pezzi dai Titani.
Del resto Dioniso ha la doppia natura di un demone crudele e selvaggio (le Baccanti di Euripide) e di un dio mite e dolce (Iliade VI) Nelle Rane è addirittura un buffone e un vigliacco. Varietà dei personaggi nei miti.
L’individuazione è dolorosa e l’arte ci dà la speranza di una ripristinata unità. Nel Prometeo liberato infatti la cultura titanica viene riportata dal Tartaro alla luce. Come nelle Eumenidi. Con Eschilo il mito si risolleva dalla pretesa di renderlo storico e di ucciderlo. Ma poi arrivò il sacrilego Euripide

XI Capitolo
Gli autori della commedia nuova, Filemone Difilo e Menandro, quali epigoni di Euripide compirono l’opera di annientamento del mondo eroico della tragedia.
Nelle Rane di Aristofane c’è un dibattito letterario sulla tragedia. Euripide si vanta di averla snellita liberandola dalla enfatica corpulenza della quale la aveva oberata Eschilo. Dalle Rane parte la linea critica che prosegue con A. W. Schlegel e Nietzsche.
Euripide ha portato lo spettatore sulla scena. Predomina il quinto stato: quello dello schiavo. Euripide non ebbe successo siccome non rispettava il pubblico.

XII Capitolo
Eppure con le Baccanti il tragediografo ebbe una resipiscenza, come il personaggio Cadmo del dramma. Ma per entrambi era troppo tardi (ojyev, 1344).
La potenza demoniaca che uccise Dioniso era quella di Socrate e il suo profeta fu Euripide. Nelle sue tragedie non c’è né l’apollineo come calma contemplazione, né il dionisiaco come sentimento dell’unità.
Euripide portò nell’estetica il socratismo etico: tutto deve essere razionale e cosciente per essere bello invece che per essere buono, come in Socrate.
Ma Fedra nell’Ippolito (380-385) dice il contrario. Secondo Dodds, Euripide è addirittura il poeta dell’irrazionalismo.
Il prologo euripideo e il suo deus ex machina esemplificano questa sua volontà di razionalizzazione.
“Il grande e ardimentoso Euripide osò fare sentire la parola di Anassagora attraverso la maschera tragica” (La filosofia nell’età tragica dei greci, del 1873)
Platone parla per lo più ironicamente della maniva dei poeti secondo Nitetzsche. Ma non è assolutamente così nelFedro.

XIII Capitolo
Socrate collaborò con Euripide nel comporre le tragedie (Diogene Laerzio II, 5, 18). I due contribuirono a corrompere il popolo.
Leopardi considera Socrate un sofista sebbene Platone lo presenti come il “bello e casto parlatore, l’odiator de’ calamistri e de’ fuchi e d’ogni ornamento ascitizio e d’ogni affettazione (Zibaldone 3474).
Socrate biasima quanti agiscono per istinto.
Socrate è il nemico dell’istinto, come un demone che con un maligno pugno di ghiacchio distrugge il mondo ridente (cfr. il Faust di Goethe, I parte, Studio)
Socrate è il non mistico la cui natura logica è per superfetazione sviluppata in maniera abnorme. Il suo demone lo dissuadeva sempre, non lo spingeva mai in avanti (Platone, Apologia di Socrate, 31).

XIV Capitolo
Il  grande occhio ciclopico di Socrate puntò la tragedia e vi trovò l’irrazionale
Capiva solo la favola esopica che mise in versi.
Il suo allievo Platone nella Repubblica (377 sgg.) compila un indice dei libri e dei passi proibiti, soprattutto relativamente al mito (di Omero ed Esiodo in particolare). Nel Timeo, Platone afferma che il dio non può essere che buono. Platone sentiva una necessità artistica: bruciò le sue poesie e creò una sua forma d’arte: il dialogo. Ma qui la poesia diventa ancilla della filosofia.
Il coro decade già con Sofocle: non è più il personaggio principale ma uno dei tanti.

XV Capitolo
L’ombra di Socrate si è allungata sulla posterità come si estendono le ombre al tramonto. Poi la civetta di Minerva spicca il volo. E’ allora che la civetta di Minerva spicca il volo. Comunque i Greci sono ancora gli aurighi della nostra cultura.
Socrate distrusse la tragedia e fu il mistagogo della scienza, iniziò l’umanità ai suoi misteri.
Ma la scienza giunta al suo limite riporta al mito (cfr. il buco nero)

XVI Capitolo
La musica è l’immagine della stessa volontà, non dell’apparenza che compare nel velo di Maya. L’eroe è la più alta immagine dell’apparenza e la sua morte non cì addolora perché egli è solo apparenza, e la vita eterna della volontà non viene toccata dalla sua distruzione

XVII Capitolo
L’arte dionisiaca dunque ci dà una consolazione metafisica.
I Greci sono eterni fanciulli (cfr.Platone, Timeo, 22b) e non sanno quale sublime giocattolo abbiano creato poi distrutto. E’ stato l’ottimismo della scienza a uccidere la tragedia. Del resto la scienza quando raggiunge il limite estremo torna al mito, quindi alla tragedia (Cfr. Il Frankestein di Mary Shelley). Eschilo rappresenta scontri di civiltà (matriarcato contrp patriarcato che prevale). Sofocle limita la visuale allo scontro di caratteri interi raffigurati con finezza psicologica. Euripide si limita a tratti caratteristici, e, infine, i suoi epigoni della commedia attica rappresentano solo maschere con un’unica espressione. Sofocle nell’Edipo a Colono annuncia  la consolazione metafisica (v. 394).  Euripide la sostituisce con il deus ex machina.

XVIII Capitolo
A Socrate, Euripide, e alla Commedia nuova, segue e consegue la cultura alessandrina dell’uomo teoretico. Una cltura che a lungo andare disgusta chi la pratica, come si vede nel Faust di Goethe, tragedia e personaggio. Una cultura che per durare necessita di una classe di schiavi. Una cultura che accumula sapere senza giungere alla sapienza (cfr. Euripide, Baccanti, 395). Essa che elimina lo stupore, e non è capace di benedire la vita in tutta la sua durezza e crudeltà, come la tragedia. Già l’Edipo di Sofocle la anticipa l’uomo teoretico esaltando la propria gnwvmh (Edipo re, 398) ma Sofocle lo confuta. La cultura alessandrina non potenzia la natura di chi la crea e non sa trattare come vivo ciò che è vivo. Mortifica piuttosto. Le manca la capacità di creare e der Wille zum Leben, la volontà di vita.

XIX Capitolo
L’opinione che la parola debba prevalere sulla musica, come avviene nel recitativo, è rozza. Nel Rinascimento, alla fine del ‘500 invero nella Camerata fiorentina Bardi, nasce il melodramma. Ma il suo protagonista è l’uomo idillico, il pastore che deriva dalla cultura ottimistica socratico alessandrina ed esala un profumo dolciastro. Un essere bamboleggiante. Ma con la musica tedesca di Bach, Beethoven e Wagner risorge la tragedia antica. Eracle non rimane sempre infiacchito nella voluttuosa soggezione a Onfale (cfr. Trachinie, 70)

XX Capitolo
 Winckelmann con la sua edle Einfalt und stille Grösse (Storia dell’arte antica, 1764) non è giunto al nocciolo della cultura greca.  Nemmeno Schiller e  Goethe  sono saliti sulla montagna incantate ellenica,  der Zauberberg. Sono rimasti allo sguardo nostalgico di Ifigenia confinata in Tauride.
Nella cultura attuale Schopenhauer è paragonabile al cavaliere dell’incisione a bulino di Dürer ( 1513) che procede imperturbato dai suoi orrendi compagni-la morte e il diavolo-, solo con il destriero e il cane .

XXI Capitolo
Apollo è il formatore di Stati, Dioniso induce all’estasi. Partendo da Apollo si può giungere alla volontà di potenza imperialistica dei Romani, partendo da Dioniso al buddismo indiano che aspira al nulla. Ebbene i Greci posti tra Oriente e Occidente non si esaurirono in una meditazione estatica né in una caccia alla potenza del mondo. La loro è una mikth; paideiva, mista di apollineo e dionisiaco.
La musica sembra negare l’esistenza individuale in quanto dà voce alla volontà universale. Ma la forza apollinea ripristina l’individuo.
 Tristano dice “Oed’ und leer das Meer” (Tristan und Isolde, I, 5-8). L’apollineo ci solleva dall’orgiastico annullamento di sé. Alla fine prevale Dioniso ma Apollo non sparisce e i due dèi sono affratellati

XXII Capitolo
Schlegel sostiene che il vero elemento tragico è la lotta dell’eroe contro il destino tetro e implacabile. Aristotele che effetto della tragedia sia una scarica di pathos, una scarica patologica, quasi un fenomeno della medicina. Queste sono pretese mezze morali, mezze erudite di critici non estetici. Ma lo spettatore estetico, sensibile all’arte vede l’artista tragico che simile ad Apollo crea figure, poi con il suo enorme istinto dionisiaco le ingoia. Al critico saccente e inestetico si  affianca il gazzettiere, il professore funzionario della scuola, e la critica viene strumentalizzata come tessuto connettivo di una socievolezza egoistica tipo quella dei porcospini della parabola di Scopenhauer.

XXIII Capitolo
Il mito
Lo spettatore socratico-critico non è in grado di comprendere il mito, immagine concentrata del mondo. Senza il mito ogni civiltà perde la sua sana forza creativa. All’annichilimento del mito segue un’educazione astratta, un costume astratto, un diritto astratto (cfr. quello che dice il centauro Chirone nel film Medea di Pasolini.
A dire il vero Socrate non è ascrivibile a questa cultura antimitica: cfr. il prologo del Fedro 230a)
Sotto questa vita civilizzata si cela una forza antichissima e sana dalla quale è scaturita la Riforma tedesca, come primo richiamo dionisiaco
(ma cfr. Ecce homo: “il monaco fatale ha restaurato il cristianesimo questa negazione della volontà di vita diventata religione”).
Ora bisogna tornare ai Greci, al mito e alla tragedia. Il mito collegato al presente lo fa apparire sub specie aeterni. Un popolo e pure un uomo valgono solo se sanno imprimere alle loro vicende l’impronta dell’eterno.
La vittoria nell’ultima guerra può fare pensare che abbiamo cominciato a espellere l’elemento neo latino.

XXIV Capitolo
L’arte non è solo mimesi della natura: è anche un supplemento metafisico della realtà naturale. Il mito tragico ci fa capire che perfino l’orrore è parte di un gioco artistico, quello di cui ci parla il frammento di Eraclito aijw;n pai`~ ejsti paivzwn, pesseuvwn, paido;~ hJ basilhivh (D. 48). Dunque la forza formatrice del mondo “viene paragonata da Eraclito l’oscuro a un fanciullo che giocando disponga pietre qua e là, innalzi mucchi di sabbia e di nuovo li disperda (p. 160) aijwvn (cfr, ajeiv e lat.aevum, è il tempo, la vita, l’eternità.
L’ottimismo socratico porta a una vita senza miti, guidata dai concetti. Ma lo spirito tedesco si sta risvegliando

XXV Capitolo
Il dionisiaco suscita all’esistenza anche l’orrido, e dunque è necessario l’apollineo che rende la vita degna di essere vissuta.
Cfr. Foscolo: “All’amica risanata (1802, Antonietta Fagnani Arese): “sorgon così tue dive/membra dall’egro talamo,/e in te beltà rivive,/l’aurea beltate ond’ebbero/ristoro unico a’ mali/le nate a vaneggiar menti mortali”.-

La forza di trasfigurazione apollinea abbellisce il sostrato dionisiaco del mondo. Le rigogliose espressioni di bellezza intervengono proprio dove le forze dionisiache si levano più impetuosamente
Se potessimo tornare nella Grecia più antica, vedendo uomini dall’incedere solenne, dai movimenti leggiadri, esclameremmo: “Beato popolo degli Elleni! Come deve essere stato grande tra voi Dioniso, se il dio di Delo ritiene necessari tali incantesimi per guarire la vostra follia ditirambica!” (p. 162)
Ma un vecchio ateniese guardando con il sublime occhio di Eschilo potrebbe replicare: aggiungi però questo, tu bizzarro straniero:quanto dovette soffrire questo popolo per diventare così bello!” (cfr. tw`/ pavqei mavqo~, Agamennone, 177).  


giovanni ghiselli 20 novembre 2015 





[1] Del 1888.
[2] F. Nietzsche, Ecce homo, La nascita della tragedia,  p.  49.

venerdì 20 novembre 2015

Nietzsche, "La nascita della tragedia", IX parte

Atlantide

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Capitolo XVII (pp. 111-118)

L’arte dionisiaca dà una consolazione metafisica che ci strappa al congegno delle forme mutevoli. Noi superiamo la nostra individualità e, come il poeta lirico, ci identifichiamo con quell’unico essere vivente e comprendiamo la necessità dell’annientamento delle apparenze data la sovrabbondanza delle forme che si urtano e si incalzano alla vita. Nella tragedia gli eroi parlano più superficialmente di quanto non agiscano, come Amleto del resto.

I Greci sono, come dicono i sacerdoti egizi, gli eterni fanciulli e nell’arte tragica non sanno quale sublime giocattolo sia nato nelle loro mani.
Lo racconta Platone nel Timeo.
Quando Solone era in Egitto, un sacerdote molto vecchio gli disse: “Solone, voi Greci siete sempre fanciulli, e un Greco vecchio non esiste: “  \W Sovlwn, Sovlwn,   {Ellhne" ajei; paidev" ejste, gevrwn  d j   {Ellhn oujk e[stin (22b).
 Essi non hanno ricordo delle vicende più antiche a causa dei diluvi che periodicamente ne sconvolgono la civiltà. Il diluvio celeste lascia sopravvivere solo gli ignari di lettere e di Muse, sicché si perde il ricordo dei tempi antichi.

Storicizzando i diluvi, possiamo dire che la vittoria della barbarie spazza via la classe colta. Si pensi ai nobili rimproverati da Augusto perché non si sposavano e non facevano figli.
Gli Ateniesi novemila anni prima avevano le stesse leggi degli Egiziani e si opposero all’imperialismo di Atlantide ma poi ci fu una catastrofe per la quale i guerrieri di Atene sprofondarono dentro la terra e Atlantide fu assorbita dal mare (Timeo, 25d).
Nel Crizia sono descritte Atlantide e Atene come città rette da dèi: la prima da Posidone, Atene da Atena ed Efesto. In Atlantide però si estinse l’elemento divino ed essa diventò gonfia di ingiustizia e di prepotenza (121b). Allora Giove, compresa la degenerazione della stirpe, decise di punirla.

La tragedia dunque dopo Euripide sparisce ma la concezione dionisiaca del mondo sopravvive nei misteri. Fu l’ottimismo della scienza a uccidere la tragedia e la scienza deve raggiungere i limiti estremi perché la tragedia rinasca.
Cfr. Il Prometeo incatenato di Eschilo, il Frankestein  di Mary Shelley e La coscienza di Zeno di Svevo.
 La scienza uccide il mito e senza mito non c’è poesia. Il nuovo ditirambo attico presentava una musica che riproduceva non la volontà stessa ma l’apparenza.
Era una musica intimamente degenerata. Aristofane colse nel segno riunendo nello stesso sentimento di odio Socrate, Euripide e i nuovi ditirambi attici la cui musica era ridotta in maniera scellerata a immagine imitatoria dell’apparenza e fu privata della sua forza creatrice di miti. Con il nuovo ditirambo la musica è divenuta una meschina immagine dell’apparenza, più povera dell’apparenza stessa.
Allora una battaglia diviene rumore di marcia e clangore di segnali. La musica è diventata schiava dell’apparenza. Euripide che aveva una natura non musicale era partigiano della nuova musica ditirambica.

Con Sofocle inizia l’affermarsi della rappresentazione dei caratteri e della raffinatezza psicologica. Il carattere non è più un tipo eterno  e lo spettatore non sente più il mito ma la verità naturalistica e la forza di imitazione dell’artista. C’è il piacere e il gusto del singolo preparato anatomico. Sofocle per lo meno dipinge ancora caratteri interi. Euripide dipinge solo grandi tratti caratteristici che si rivelano in violente passioni; nella commedia attica nuova ci sono soltanto maschere con una sola espressione: vecchi frivoli, lenoni gabbati, schiavi scaltri in instancabile ripetizione. La musica diventa uno stimolante per nervi ottusi e consunti o musica descrittiva.
L’Edipo a Colono di Sofocle però mostra ancora nel modo più puro l’accento di una conciliazione proveniente da un altro mondo.  Ismene dice al padre: nu`n ga;r qeoiv sj ojrqou`si, provsqe d’  w[llusan (394)
Ma dopo Sofocle non c’è più consolazione metafisica, bensì l’eroe che fa un buon matrimonio o, come il gladiatore, viene prima scorticato poi riceve la libertà. E al posto della consolazione metafisica subentra il
deus ex machina. La consolazione metafisica degenera in culto segreto. La serenità greca diventa voglia di vivere senile e improduttiva. L’aspetto più nobile di questa tarda serenità è la serenità dell’uomo teoretico che dissolve comunque il mito e utilizza il dio delle macchine e dei crogiuoli.
 E’ il credere a una correzione del mondo per mezzo del sapere , credere a una vita guidata dalla scienza. Una canuta o calva assennatezza.


Capitolo XVIII (pp. 118-124)

Ci sono tre gradi di illusione: quello socratico della conoscenza, quello dell’arte e la consolazione metafisica per cui la vita eterna continua a fluire indistruttibile sotto il vortice dei fenomeni. Sono le nature più nobilmente dotate che cercano queste illusioni. Costituiscono la cultura e, a seconda delle proporzioni o delle mescolanze, abbiamo una cultura socratica o artistica o tragica, o, con esemplificazioni storiche, una cultura  alessandrina o ellenica o buddhistica.
Socrate è il prototipo della cultura alessandrina e dell’uomo teoretico dotato di grandi forze conoscitive e posto al servizio della scienza (p. 119)
L’uomo di cultura diventa un personaggio erudito.
Faust si precipita attraverso tutte le discipline dedito alla magia e al diavolo per brama di sapere, ma è insoddisfatto ed è l’uomo moderno che comincia a sentire i limiti di quel piacere socratico per la conoscenza e dal vasto mare del sapere anela a una costa (p. 120).
Per l’uomo moderno, l’uomo non teoretico è qualcosa di incredibile e di stupefacente, tanto che Goethe scrisse a Eckermann a proposito di Napoleone: “Sì, mio caro, c’è anche una produttività nelle azioni”.

La cultura alessandrina ha bisogno, per durare, di una classe di schiavi di cui del resto nega la necessità, e va incontro alla distruzione quando questa classe barbarica di schiavi ha imparato a considerare la sua esistenza come un’ingiustizia. Le grandi nature capiscono i limiti della  conoscenza e della scienza. Kant e Schopenhauer hanno sconfitto l’ottimismo che si cela nella logica. Tale ottimismo si appoggia su aeternae veritates che crede insospettabili e crede nella conoscibililità di tutti gli enigmi del mondo e considera lo spazio, il tempo, la causalità quali leggi assolute, mentre Kant le considera strumenti - (forme a priori della sensibilità umana Critica della ragion pura (1781, in originale Kritik der reinen Vernunft) - dell’apparenza elevata a suprema realtà al posto della vera essenza delle cose rendendo questa in conoscibile e, come dice Schopenhauer, addormentando ancora più profondamente uno che sogna.
La cultura tragica eleva a meta suprema non la scienza ma la sapienza che, diversamente dalle scienze,  guarda l’immagine totale del mondo e ne raccoglie l’eterna sofferenza come sofferenza propria (p. 122)    
To; sofo;n d  j ouj sofiva (Baccanti, v. 395):  La sofiva è lo scopo di quella cultura che Nietzsche chiama tragica:" la sua principale caratteristica consiste nell'elevare a meta suprema, in luogo della scienza, la sapienza". La sapienza si tuffa nel fiume della vita. La scienza al contrario è il fine dell'uomo teoretico il quale "non osa più affidarsi al terribile fiume  dell'esistenza: angosciosamente egli corre su e giù lungo la riva"[1] .
“La scienza lavora incessantemente a quel grande colombario dei concetti, cimitero delle intuizioni”[2].
Cfr. la grammatica grande sepolcreto delle regole e delle eccezioni, cimitero della lingua e della letteratura.
“Vi sono coloro che promettono di risolvere una questione come quella omerica, prendendo spunto dalle preposizioni, e credono di tirar su la verità dal pozzo servendosi di ajnav e katav. (Sull’avvenire delle nostre scuole, 1872, p. 71)

“All’idea di classicità, Nietzsche sostituisce in definitiva quella di tragicità: la civiltà greca non è una civiltà classica ma piuttosto una civiltà tragica”[3].
Vale la pena di riferirne anche l'esegesi di T. Mann:"A questa tragica saggezza, che benedice la vita in tutta la sua falsità, durezza e crudeltà, Nietzsche ha dato il nome di Dioniso"[4]. Su questa opposizione sapere/sapienza riferisco, di seconda mano, Eliot che pure è uno dei miei massimi maestri:"Eliot affermava:"Qual è la conoscenza che noi perdiamo nell'informazione e qualè la sapienza (wisdom) che perdiamo nella conoscenza?"[5].
 Interessante a questo proposito è un elogio dello stupore di H. Hesse:"Per stupirci siamo qui!" dice un verso di Goethe. Tutto inizia con questa stupefazione e con essa termina, tuttavia non è un cammino vano. Sia che io ammiri un musco, un cristallo, un fiore, un maggiolino d'oro, sia che guardi un cielo solcato dalle nuvole, un mare con il pacato gigantesco respiro della sua risacca, l'ala di una farfalla con la trama ordinata delle sue costole vitree…in quello stesso istante io ho abbandonato e dimentico il mondo avido e cieco dell'umana necessità e, anziché pensare a comandare, acquistare, sfruttare, combattere o organizzare, non faccio altro, per quell'istante, che provare la "stupefazione" goethiana e, contemporaneamente, non divengo solo fratello di Goethe e di tutti i poeti e saggi, ma sono anche fratello del cosmo vivente che contemplo e sperimento: della farfalla, del coleottero, della nuvola, del fiume e del monte. Percorrendo la via dello stupore, sono infatti sfuggito per un attimo al mondo delle differenziazioni e sono entrato in quello dell'unità, dove ogni cosa o creatura dice all'altro: Tat twam asi ("Sei Tu")...non vogliamo lamentarci che nelle nostre università non si insegni a percorrere le strade più semplici per conseguire la saggezza e che, al posto dello stupore, si insegni l'esatto contrario: a contare e a misurare invece che perdersi nell'estasi, l'oggettività invece della malia, il rigido attenersi alle differenziazioni anziché subire l'attrazione del Tutto e Uno. Le università non sono scuole di saggezza, sono scuole di sapere, ma tacitamente postulano come conosciuto ciò che esse non possono insegnare: la capacità di osservare, la stupefazione goethiana, e i loro spiriti migliori non conoscono altra finalità più nobile che costituire un altro gradino perché Goethe e altri nuovi saggi si manifestino di nuovo"[6].
Seneca sostiene che la sapienza è l’unica libertà:  “Sapientia quae sola libertas est[7].
 Il sapere non vale nulla, non è sapienza quando non riconosce sopra di sé il sacro e il divino  che inspiegabilmente lega"con amore in un volume ciò che per l'universo si squaderna". Agostino afferma: “Ecce pietas est sapientia[8].
E' il caso di Edipo re  che crede di azzeccarci con l'intelligenza senza avere imparato nulla dagli uccelli ("gnwvmh/ kurhvsa" oujd& ajp& oijwnw'n maqwvn", v. 398) e fallisce. "Coloro che hanno interpretato l'Edipo re  secondo il modulo della "tragedia di conoscenza" hanno postulato che Sofocle abbia voluto rappresentare due tipi di conoscenza differenti per mezzi e possibilità, dal cui incontro-scontro risulterebbe il senso stesso del dramma. Si è parlato di un "sapere umano" e un "sapere divino"[9], di una conoscenza umana sensitiva e fondata sull'apparenza ed una conoscenza divina vera, cioè dovxa e ajlhvqeia, illusione e saggezza[10]. Edipo sulla scena sofoclea rappresenterebbe l'uomo raziocinante che si basa sulla conoscenza dei sensi e del proprio intelletto e che agisce di conseguenza, ma le coincidenze degli eventi fanno sì che alla fine tutte le sue costruzioni intellettuali si rivelano fallaci, mentre il sapere degli dei, incontrollabile e spesso incomprensibile per gli uomini, risulta essere l'unico sapere veritiero...In realtà, quello di Edipo non è un generico "sapere umano", ma rappresenta allusivamente il sapere di alcune correnti di sapere razionalistiche dell'epoca, e analogamente non si deve parlare tanto di generico "sapere divino", quanto piuttosto di sapere oracolare delfico, con le sue peculiari modalità espressive e celebrante un dato sistema di valori etici"[11]
Insomma la gnwvmh è fallace e gli uomini non possono comprendere tutto. Non solo le vie della divinità sono imperscrutabili ma anche quelle dell'incoscio.
Il motivo antiintellettualistico, ricorrente nell'Edipo, avrà un'infinità di riprese: da Euripide, il "filosofo della scena", quando giunge alla stanchezza postfilosofica delle Baccanti , al movimento dello Sturm und Drang ("il mio cuore-annota Werther  il 9 maggio 1772-è l'unica cosa della quale sono superbo...Quello che io so, lo può sapere chiunque, ma il mio cuore lo possiedo io solo". ), fino a Elias Canetti il quale in La provincia dell'uomo  afferma che "L'ignoranza non deve impoverirsi con il sapere...Per ogni risposta deve saltare fuori una domanda che prima dormiva appiattata...Le sole risposte inaridiscono il corpo e il respiro"(pp. 1600-1601).
E' il  profeta  a nutrire la forza della verità (Edipo re, v.356) che non è potenza economica né militare, ma nemmeno cerebrale, anzi è consapevolezza dei limiti angusti che racchiudono le nostre facoltà intellettive.
Nell'episodio di Aconzio e Cidippe , una famosissima storia d'amore compresa nel terzo libro degli Aitia, poi imitata da Ovidio nelle Heroides  (XXI lettera: Cidippe ad Aconzio) il poeta di Cirene afferma che l'ampiezza e la varietà del conoscere è un bene soltanto se conferisce a chi lo possiede e lo usa la capacità di padroneggiare la lingua:
" il molto sapere è un grave male, per chiunque non è padrone
della lingua: è proprio come per un bambino avere un coltello"(fr.75 Pf, vv. 8-9).

L’uomo della cultura tragica è un uccisore di draghi che si lancia verso l’immenso, volge le spalle alle mollezze dell’ottimismo e desidera un’arte nuova, l’arte della consolazione metafisica e la tragedia come l’Elena che spetta a lui.
Tale uomo grida con Faust
“E non dovrei, con la più anelante violenza
Trarre in vita la forma unica fra tutte?”
L’uomo teoretico si spaventa delle conseguenze da lui prodotte e non osa più affidarsi al terribile fiume ghiacciato dell’esistenza ma corre su e giù lungo la riva. La concezione ottimistica l’ha rammollito. L’uomo moderno teoretico rimane l’eterno affamato, il critico senza piacere e senza forza, l’uomo alessandrino che è in fondo un bibliotecario e un emendatore che si accieca miseramente sulla polvere dei libri e sugli errori di stampa. (p. 123)
"La cultura comincia proprio dal punto in cui sa trattare ciò che è vivo come qualcosa di vivo"[12].  

“L’artista tragico non è pessimista-dice appunto sì a ogni cosa problematica e anche terribile, è dionisiaco” (Crepuscolo degli idoli o come si filosofa col martello, 1888,  p. 22)
“Giacché soltanto nei misteri dionisiaci, nella psicologia dello stato dionisiaco si esprime il fatto fondamentale dell’istinto ellenico-la sua “volontà di vivere”. Che cosa si garantivano i Greci con questi misteri? La vita eterna, l’eterno ritorno della vita…il trionfante sì alla vita oltre la morte”[13].
Wille zum Leben, volontà di vivere.


continua




[1] La nascita della tragedia , p. 122 e p. 123.
[2] G. Vattimo, Op. cit., p. 159.
[3] G. Vattimo, Op.cit., p. 69.
[4] T. Mann, Nobiltà dello Spirito, p. 814.
[5] E. Morin, op. cit., p. 45.
[6]H. Hesse,  La bellezza della farfalla , in Hesse L'arte dell'ozio , pp. 401-402.
[7] Seneca, Ep., 37, 4. 
[8] Confessiones, 5, 5, ecco la sapienza è pietà.
[9]Diller 1950.
[10]Cfr. su questa linea soprattutto Reinhardt 1933, trad. it. pp. 111-52; Bowra 1944, p. 162-211; Champlin 1969.
[11]G. Ugolini, Sofocle e Atene , p. 161.
[12] F. Nietzsche, Sull'avvenire delle nostre scuole, 1872,  p. 43.
[13] Crepuscolo degli idoli, p. 128.