mercoledì 26 giugno 2019

La "Lisistrata" di Aristofane. Parte 3


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Cleonice domanda “e se gli uomini ci piantano?"
Lisistrata “dovremo scuoiare una cagna scuoiata" (per l’olisbo consumato).
Cleonice disprezza tali memimhmevna – imitazioni, dicendo che sono insulsaggini fluariva (159). Poi aggiunge che i mariti potrebbero anche forzarle, ma Lisistrata le insegna che non c’è piacere per coloro che fanno certe cose per forza “ouj ga;r e[ni touvtoi" hJdonh; toi'" pro;" bivan” (163). E l’uomo non potrà provare piacere se non c’è quello della donna.
 Lampitò annuncia che le donne spartane sapranno persuadere gli uomini a fare la pace. Ma la folla del popolo ateniese tw'n jAsanaivwn rJuavceton - dialetto laconico - chi potrà persuaderla a non fare sciocchezze?
Lisistrata risponde che ci penseranno loro.
Lampitò ne dubita e ricorda la smania imperialistica degli Ateniesi maschi.
Lisistrata replica: “noi donne oggi stesso occuperemo l’acropoli - katalhyovmeqa ga;r th;n ajkrovpolin thvmeron - 176”. Le anziane lo stanno già facendo anzi.
Lisistrata propone un giuramento sullo scudo, come quello descritto da Eschilo nei Sette a Tebe (42 ss.).
E’ nel racconto che fa il Messaggero a Eteocle a proposito degli a[ndre" eJptav (42).

Cleonice non è d’accordo sullo scudo che evoca la guerra. Bisogna piuttosto giurare su una coppa di non versare mai acqua nel vino.
Lampitò approva. Lisistrata versa il vino nella coppa come se fosse sangue di un porco sacrificato.
Poi la caporiona detta le parole del giuramento che Cleonice ripete: oujk e[stin oujdei;" ou[te moico;" out j ajnh;r (213), ripetute da Cleonice, nessuno mai né ganzo né marito.
Lisistrata completa o{sti" pro;" ejme; provseisin ejstukwv", levge (214), si avvicinerà mai a me con l’erezione, ripeti - stuvw, ho un’erezione - Cleonice ripete pur mentre le si piegano le ginocchia.
E passerò la vita in casa ajtaurwvth (217, cfr. taurovw, trasformo in toro) senza essere montata.

cfr. Medea quando nel prologo la nutrice racconta
“Già infatti l'ho vista mentre fissava con furia taurina 92 tauroumevnhn
questi bambini, come se avesse in animo di fare qualcosa; e non cesserà
dall'ira, lo so bene, prima di avere assalito qualcuno.
Spero almeno lo faccia con i nemici, non con i suoi cari. 95.

Lisistrata poi suggerisce “ben vestita e imbellettata”
Perché il marito fiammeggi, arda per me con tutta la forza - o{pw" a[n aJnh;r ejpitufh'/ mavlistav mou - 222 Senza però compiacerlo mai.
Se poi mi prende a forza contro il mio volere - eja;n dev m’ a[kousan biavzhtai biva/, io sarò maldisposta e non mi muoverò.
E non alzerò le scarpette persiane fino al soffitto (229) indica i piedi vezzosamente calzati.
Cleonice deve ripetere tutto e alla fine giurare sotto la maledizione che, se trasgredirà, la coppa le si riempia di acqua.
Dopo Cleonice giurano tutte.
Poi si sente il clamore delle donne che hanno occupato l’acropoli
Lisistrata e Cleonice si muovono per andare a mettere i chiavistelli

Parodo vv. 254 - 386
 Un coro di vecchi che hanno sulle spalle il peso di un tronco di olivo verde
Il Semicoro I esordisce notando che ejn tw'/ makrw'/ bivw/ povll j a[elpt j e[nestin (256), in una lunga vita molte sono le cose inattese.

Un topos presente in molti testi, tra i quali la Medea di Euripide che finisce con questi versi:
Di molti casi Zeus è dispensatore sull’Olimpo
molti eventi in modo imprevisto compiono gli dèi;
e i fatti aspettati non vennero portati a compimento,
mentre per quelli inaspettati un dio trovò la via.
Così è andata a finire questa azione (1415 - 1419)

La conclusione dell'Alcesti, dell'Andromaca , dell'Elena e delle Baccanti è uguale a questa della Medea, tranne che per il primo verso degli ultimi cinque : " pollai; morfai; tw'n daimonivwn" (Alcesti , v. 1159; Andromaca, v. 1284; Elena, v. 1688; Baccanti, v. 1388), "molte sono le forme della divinità". L'Ippolito si conclude con la constatazione, da parte della Corifea che su Trezene inaspettatamente, ajevlptw~ (v. 1463) è caduto addosso un dolore comune che provocherà un fluire continuo di lacrime.

L’imprevisto è che le donne a}" ejbovskomen - kat j oi\kon ejmfane;" kakovn, che nutrivamo in casa, male ben noto, si sono impadronite dell’Acropoli e hanno bloccato i propilei con chiavistelli e serrami (265).
Il Corifeo fa fretta agli altri vecchi (wJ" tavcista) perché lo seguano nel portare i tronchi dove verranno ammucchiati per bruciare le donne.

Il Semicoro II esprime la paura tipica degli eroi: quella della derisione, un oltraggio da evitare a costo del suicidio (cfr. Aiace di Sofocle) e dell’assassinio perfino dei figli.

(cfr. Medea di Euripide 404 - 407)
Vedi quello che subisci? non devi dare motivo di derisione
 ai discendenti di Sisifo per queste nozze di Giasone,
tu che sei nata da nobile padre e discendi dal Sole.

Il semicoro II dunque giura: no, per Demetra, finché sono vivo io non si faranno beffe di me - ouj ejmou' zw'nto" ejgcanou'ntai (ejgcaivnw, spalanco la bocca per sfghignazzare).
Quindi i vecchi ricordano che nemmeno il re di Sparta Cleomene che occupò l’acropoli nel 502 la passò liscia, anzi dopo due anni di assedio con quel suo spartano darsi arie Lakwniko;n pnevwn - 276 - dovette andarsene peloso - ajparavtilto" - parativllw - (e cfr. l’essere depilate invece delle donne) e sudicio non lavato da sei anni e{x ejtw'n a[louto" (280).
Il Corifeo ricorda di nuovo l’impresa e aggiunge che a maggior ragione ora saranno capaci di trattenere da tale ardimento queste donne odiose a Euripide e a tutti gli dèi - tasdi; de; ta;" Eujripivdh/ qeoi'" te pa'sin ejcqrav" (283).

Cfr. Le Tesmoforiazuse dello stesso anno. Il personaggio Euripide dice al suo parente: “le donne hanno tramato contro di me (aiJ ga;r gunai'ke" ejpibebouleuvkasiv moi, 82). Perché? domanda il khdesthv", e il drammaturgo risponde: oJtih, tragw/dw' kai; kakw'" aujta;" levgw (84) poiché faccio tragedie e dico male di loro.

Il I semicoro lamenta la fatica della salita con i tronchi sulle spalle
Hanno anche dei tizzoni ardenti in una marmitta da dove schizzano delle faville bruciando gli occhi. L’impresa è dunque epica.
Il Corifeo dà disposizioni per l’assedio con il fuoco che bruci le porte e il fumo che tormenti le donne, poi invoca devspoina Nivkh, Vittoria sovrana che li aiuti a innalzare un trofeo sull’ardire delle donne (gunaikw'n qravsou", 318).
E’ l’eterna paura che ha l’uomo della donna.

La paura della donna suggerisce al Catone il vecchio di Tito Livio alcune parole sulla necessaria sottomissione della femina al fine di tenere sotto controllo una natura altrimenti intemperante.
Così si esprime il censore quando parla, nel 195 a. C., contro l'abrogazione della lex Oppia che, dal 215, imponeva un limite al lusso delle matrone[1] le quali erano scese in piazza proprio per manifestare a favore dell'annullamento della legge:" Maiores nostri nullam, ne privatam quidem rem agere feminas sine tutore auctore voluerunt, in manu esse parentium, fratrum, virorum...date frenos impotenti naturae et indomito animali et sperate ipsas modum licentiae facturas...omnium rerum libertatem, immo licentiam , si vere dicere volumus, desiderant " (XXXIV, 2, 11 - 14) i nostri antenati non vollero che le donne trattassero alcun affare, nemmeno privato senza un tutore, e che stessero sotto il controllo dei padri, dei fratelli, dei mariti...allentate il freno a una natura così intemperante, a una creatura riottosa e sperate pure che si daranno da sole un limite alla licenza...desiderano la libertà, anzi, se vogliamo chiamarla con il giusto nome la licenza in tutti i campi.
E continua: “Extemplo simul pares esse coeperint, superiores erunt (XXXIV, 3, 2)” appena avranno cominciato ad essere pari, saranno superiori

Marziale (40 ca - 104 d.C.) nella clausula di un suo epigramma:" Inferior matrona suo sit , Prisce, marito:/non aliter fiunt femina virque pares " (VIII, 12, 3 - 4), la moglie, Prisco, stia sotto il marito: non altrimenti l'uomo e la donna diventano pari.

Interviene in scena il Coro di donne che hanno visto il fuoco e il fumo. Anche questo è diviso in due semicori.
Il semicoro I esecra i vecchi maledetti, ma anche le donne hanno paura fobou'mai (327).
Se non ci fosse, quando non c’è questa paura dell’altro sesso del sesso altro, quasi estraneo all’umanità, equivalente alla fobìa del popolo straniero è molto più difficile indurre i poveri a morire in guerra.
 Le coreute stanno comunque portando l’acqua per spengere il fuoco.
Il Semicoro II invoca Atena e chiede aiuto per le assediate che vogliono salvare dalla guerra, e dalla follia, l’Ellade e i cittadini. Le donne hanno occupato il tempio della dea con questo scopo.

Orazio nella prima Ode del primo libro menziona le guerre maledette dalle madri:" bellaque matribus/ detestata" (vv. 24 - 25).
Il poeta di Venosa chiama il dio Marte torvus in Carmina I, 28, 17 e cruentus in II, 14, 13.

La Corifea, indicando i vecchi, li qualifica come ponwpovnhroi (350), farabutti, e aggiunge che uomini buoni crhstoiv e pii eujsebei'" non avrebbero mai fatto una cosa simile (351).
II corifeo definisce pra'gm j ajprosdovkhton una faccenda inattesa lo sciame di donne ejsmov" gunaikw'n (353) che arriva per aiutare le assediate dal fuoco.
La Corifea domanda: perché ve la fate addosso davanti a noi - tiv bduvlleq j hJma" ; Questo è niente: la parte di donne ribelli che vedete non è nemmeno la decimillesima dell’intero - kai; mh;n mevro" g j hJmw'n oJra't j ou[pw to; muriostovn - 355.
Il Corifeo dei vecchi ricorda Ipponatte (VI sec. a. C.) che scrive: “lavbetev meu taiJmavtia, kovyw Bouvpalon to;n ojfqalmovn (fr - 70 D.), tenetemi il mantello: darò un pugno a Bupalo nell’occhio.
“Se qualcuno avesse colpito costoro due o tre volte nelle mascelle come Bupalo, non avrebbero più voce” ( fwnh;n a]n oujk ei\con, Lisistrata, 361).

La Corifea risponde che è pronta anche a prendere le botte, ma non cederà.
Il corifeo la minaccia: se non taci ti sgranerò la vecchia pelle a furia di botte ejkkokkiw' to; gh'ra" (364) - ejkkokkivzw - ejn e kovkko", granello, chicco.
I due vecchi si insultano a vicenda finché il maschio menziona Euripide - sofwvtero" poihthv" del quale non c’è poeta più sapiente, citandone, o parodiandone, un verso: “oujde;n ga;r ou{tw qrevmm j ajnaidev" ejstin wJ" gunai'ke" - 369, infatti nessun animale è così impudente come le donne.

I vecchi corifei dei due cori si scambiano battute salaci e minacce: il maschio con il fuoco, con l’acqua la donna che al nemico dice anche: “a[rdw s j o{pw" ajmblastavnh/", ti annaffio perché tu rifiorisca.
Il vecchio fa: io sono secco e tremante. E la donna: allora scaldati col fuoco.

Sentiamo Pirandello sui contrasti in Aristofane, sulle sue burle spietate, sulla mancanza di umorismo, cioè di compassione e carità.
“In Aristofane non abbiamo veramente il contrasto, ma soltanto l’opposizione. Egli non è mai tenuto tra il sì e il no[2] egli non vede che le ragioni sue, ed è per il no testardamente, contro ogni novità, cioè contro la retorica, che crea demagoghi, contro la musica nuova, che, cangiando i modi antichi e consacrati, rimuove le basi dell’educazione, e dello Stato, contro la tragedia di Euripide che snerva i caratteri e corrompe i costumi, contro la filosofia di Socrate, che non può produrre che spiriti indocili e atei, ecc.
(…) la burla è satira iperbolica, spietata. Aristofane ha uno scopo morale, e il suo non è mai dunque il mondo della fantasia pura. Nessuno studio della verisimiglianza: egli non se ne cura perché si riferisce di continuo a cose e persone vere (…) e non crea una realtà fantastica come, ad esempio, lo Swift (…) Umorista non è Aristofane ma Socrate…Socrate ha il sentimento del contrario; Aristofane ha un sentimento solo, unilaterale. Aristofane dunque, se mai, può essere considerato umorista soltanto se noi intendiamo l’umorismo nell’altro senso molto più largo, e per noi improprio, in cui siano compresi la burla, la baja, la facezia, la satira, la caricatura, tutto il comico insomma nelle sue varie espressioni”[3].


CONTINUA


[1] Vietava tra l'altro di indossare vesti multicolori o di girare per Roma su un cocchio a doppio traino di cavalli.
[2] Caratteristica dell’umorismo cfr. parte II cap. quarto.
[3] Pirandello, L’umorismo, p. 45.

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