giovedì 13 giugno 2019

Elogio dell'uguaglianza antropocosmica

Fenicie di Euripide al teatro greco di Siracusa

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L’uguaglianza
Le obiezioni di Giocasta a Eteocle nelle Fenicie
Precarietà del possesso delle ricchezze. Euripide, Menandro e Seneca

Nelle Fenicie di Euripide "Eteocle incentra tutto il suo elogio della tirannide sul "di più" e la madre, Giocasta, obietta: "tiv d j e[sti to; plevono[nom j e[cei monon:/ejpei; tav g j ajrkounq j iJkana; toi'" ge swvfrosin", vv. 553 - 554, che cosa è il più? ha soltanto un nome; poiché il necessario basta ai saggi. Le ricchezze non sono proprietà privata dei mortali, noi amministriamo quelle ricevute dagli dèi: quando vogliono, a turno, ce le portano via di nuovo.

Una posizione echeggiata da Menandro nel Duvskolo~ (del 316 a. C.).
 Quando il ricco Callippide dice al figlio Sostrato che non vuole prendersi un genero e una nuora pezzenti, Sostrato il quale vuole sposare una ragazza povera e dare la sorella in sposa al fratello di lei, risponde al padre che lui non è veramente padrone delle cose che ha, ma esse appartengono tutte alla fortuna: “th'~ tuvch~ de; pavnt j e[cei~” (v. 801).
Luogo simile in Seneca che nella Consolatio ad Marciam (10, 2) scrive:"mutua accepimus. Usus fructusque noster est ", abbiamo ricevuto delle cose in prestito. L'usufrutto è nostro.

Del resto Giocasta propugna l'uguaglianza più in generale:"kei'no kavllion, tevknon, - ijsovthta tima'n" (Fenicie, vv. 535 - 536), quello è più bello, figlio, onorare l'uguaglianza; infatti essa è legge cosmica:"nukto;" t j ajfegge;" blevfaron hJlivou te fw'" - i[son badivzei to;n ejniauvson kuvklon" ( vv. 543 - 544), l'oscura palpebra della notte e la luce del sole percorrono uguale il ciclo annuo. Ora se il sole e la notte si assoggettano a queste misure[1], domanda la madre, tu non tollererai di avere una parte uguale del palazzo (su; d j oujk ajnevxh/ dwmavtwn e[cwn i[son, v. 547) e di attribuire l'altra a tuo fratello? E dov'è la giustizia? Perché tu la tirannide, un'ingiustizia fortunata (tiv th;n turannivd j, ajdikivan eujdaivmona, v. 549), la onori eccessivamente e pensi che sia un gran che?
Pensi che essere guardati sia segno di valore? E' cosa vuota (kenovn, v. 551) di fatto. O vuoi avere molte pene con molte cose nella casa?

 - Plutarco nella Vita di Solone ricorda che il legislatore ateniese aveva detto: “to; i[son povlemon ouj poiei`” (14, 4), l’uguaglianza non provoca guerra. 
Della tirannide invece aveva detto che è una bella fortezza ma non ha via di uscita (kalo;n me;n ei\nai th;n turannivda cwrivon, oujk e[cein d ‘ ajpovbasin”, 14, 8). -

“Euripide fa pronunciare a Giocasta un atto di fede nell’organizzazione democratica ed egualitaria della città, messa a repentaglio dall’incontrollata filotimiva di chi cerca il potere personale anche a scapito del bene collettivo (…) Se Eteocle preferirà il potere, esporrà Tebe al rischio della distruzione e le sue concittadine a quello della schiavitù e della violenza. La ricchezza che sta tanto a cuore a Eteocle si rivelerà così un plou'to~ dapanhrov~, una “ben dispendiosa ricchezza” (v. 566)
Le parole conclusive di Giocasta saranno suonate nel teatro di Dioniso come un accorato monito a una generazione di politici ateniesi così vicini ai due fratelli del mito: mevqeton to; livan, mevqeton (“abbandonate l’eccesso, abbandonatelo”, v. 584).
Ed è un monito diretto a entrambe le parti: alla parte oligarchica, perché si renda conto che la ricerca del potere porta alla rovina della città; alla parte democratica, perché capisca che anche con la ragione dalla propria parte non si può praticare la violenza all’interno della polis senza danno per tutti. Non c’è nulla di peggio della somma di due ajmaqivai contrapposte”[2].
 Le Fenicie vennero scritte intorno al periodo del colpo di Stato oligarchico del 411, ma il rifiuto dell’eccesso è una posizione topica molto diffusa.




[1] Il consiglio di seguire la natura, in particolare osservando l'alternarsi del dì e della notte, per prendere decisioni equilibrate lo dà anche Seneca a Lucilio "cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse et noctem" (Ep. 3, 6), prendi decisioni osservando la natura: quella ti dirà che ha fatto il giorno e la notte. I mortali non possiedono le ricchezze come cose proprie, esse sono degli dèi e noi le amministriamo (v. 555 - 556).
[2] E Medda, (a cura di) Euripide, Le Fenicie, p. 46.

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