domenica 2 giugno 2019

La Felicità. III parte

Strabone

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Eudaimonìa

Essere felici secondo Strabone, geografo dell'età di Augusto, è un atto di pietas, una specie di imitatio Dei, di assimilazione a Dio[1]: "Gli uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene, ma si potrebbe dire ancor meglio quando sono felici (eâ mn g¦r e‡rhtai kaˆ toàto, toÝj ¢nqrèpouj tÒte m£lista mime‹sqai toÝj qeoÝj Ótan eÙergetîsin· ¥meinon d' ¨n lšgoi tij, Ótan eÙdaimonîsi"[2].

L’attrice Delia Moreno della commedia di Pirandello Ciascuno a suo modo  sostiene che può amare l’umanità solo chi è contemto di se stesso:"Sapete che cosa significa "amare l'umanità"? Soltanto questo:"essere contenti di noi stessi". Quando uno è contento di se stesso "ama l'umanità"[3]. Viene  in mente l’eujdaimoniva, il buon rapporto con il proprio   carattere.
Cfr. Eraclito: “h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn (fr. 91 Diano), il carattere è il destino del’uomo
A questo proposito cito alcuni versi delle Baccanti di Euripide
Nella parodo le menadi cantano:

O beato chi d’accordo con se stesso   w\ mavkar o{sti" eujdaivmwn
conoscendo i misteri degli dèi,
santifica la vita ed
entra nel tiaso con l’anima,                                                                   75
baccheggiando nei monti
con sacre purificazioni
e celebrando secondo il rito
le orge della grande madre Cibele
alto scuotendo il tirso,                                                                           80
e incoronato di edera
venera Dioniso (vv. 73-82).

Dodds chiarisce che l’aggettivo mavkar describes this happiness from the point of view of an observer, descrive questa felicità dal punto di vista di un osservatore esterno, mentre eujdaivmwn (one of the key- words of the play), una delle parole chiave della tragedia, “gives it from the experient’s point of view, and suggests the reason for it (‘having a good daivmwn)”[4], la dà dal punto di vista di chi la prova e ne suggerisce la ragione (siccome ha un buon demone)
Quindi il regius professor of Greek in the University of Oxford fa notare che  “such formulas of beatitude are traditional in Greek poetry ”, tali formule di beatitudine sono tradizionali nella poesia greca  e fa alcuni esempi:  Inno a Demetra (v. 480),  Pindaro (fr. 121 Bowra) e Sofocle (fr. 837 Pearson), e fa notare che mentre le altre promesse di felicità riguardano la prossima vita the happiness which Dion. gives is here and now[5], la felicità data da Dioniso è qui e ora.

Anche secondo Leopardi è questa la felicità cui  aspira l’uomo: La felicità che l’uomo naturalmente desidera è una felicità temporale, una felicità materiale e da essere sperimentata dai sensi (…) una felicità insomma di questa vita e di questa esistenza, non di un’altra vita e di una esistenza che noi sappiamo dover essere affatto da questa diversa, e non sappiamo in niun modo concepire di che qualità sia per essere. La felicità è la perfezione e il fine dell’esistenza (…) Promettere all’uomo, promettere all’infelice una felicità celeste, benché intera e infinita, e superiore senza paragone alla terrena, e a’ piccoli beni che egli desidera, si è come a un che si muor di fame e non può ottenere un pezzo di pane, preparargli un letto morbidissimo, o promettergli degli squisitissimi e beatissimi odori (…) Osservisi che di due future vite, l’una promessa l’altra minacciata dal Cristianesimo, questa fa sul mortale molto maggior effetto di quella. E perché? Perché ci s’insegna che nell’inferno (e così nel Purgatorio) avrà luogo la pena del senso (…) E Dante che riesce a spaventare dell’inferno, non riesce né anche poeticamente parndo, a invogliar punto del paradiso”[6].  
  
Platone nel Timeo (90 c) scrive che è necessario sia soprattutto felice quello che coltiva la parte divina qerapeuvnta to; qei'on, e conserva ordinato il demone, il genio che gli abita dentro  “e[contav te aujto;n eu\ kekosmhmevnon to;n daivmona suvnoikon  eJautovn”.
Dobbiamo correggere i circoli guasti della nostra testa imparando le circolazioni e le armonie dell’universo.
Marco Aurelio in A se stesso scrive: “Eujdaimoniva ejsti; daivmwn ajgaqov" (VII, 17).
Henrik Ibsen  fa dire a Giuliano imperatore. “E che cos’è la felicità se non il vivere in conformità a se stesso? L’aquila chiede forse delle penne d’oro? Il leone ambisce avere artigli d’argento? O forse il melograno desidera che i suoi chicchi siano altrettante pietre preziose?”[7].

Nella Augusti Vita  di Svetonio[8] leggiamo che il primo imperatore, supremo die , l'ultimo giorno, fattisi mettere in ordine i capelli e le guance cascanti, domandò agli amici "ecquid iis videretur mimum vitae commode transegisse" (99), se a loro sembrasse che  avesse recitato bene la farsa della vita, quindi chiese loro, in greco, degli applausi con la solita clausula delle commedie:" eij de; ti-e[coi kalw'" to; paivgnion, krovton dovte", se è andato bene questo scherzo applaudite.
Ancora meglio l'uscita dalla vita di Pericle il quale, in punto di morte, disse che il suo merito più bello e più grande era che nessuno dei cittadini Ateniesi aveva dovuto portare il lutto per causa sua[9].
Qual è il nesso con la felicità?
 La capacità di osservare ruoli, momenti, kairoiv diversi e di rispettare le scelte, i caratteri degli altri, può aiutarci a comprendere quello che è il nostro demone o carattere di fondo.
 Ciascuno di noi dovrebbe diventare quello che è, secondo il precetto pindarico[10], magari quello che è via via. Dobbiamo insegnarlo ai nostri ragazzi perché non si accontentino delle identità fasulle e gregarie suggerite dalla televisione. La volontà di potenza non è in contrasto con la morale, se mira a realizzare il "diventa quello che sei". Se non diventi quello che sei, diventi quello che il potere vuole.
Per diventare quello che era, l'Adriano della Yourcenar ha conquistato il potere sul mondo:"Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere interamente me stesso, prima di morire…Ho compreso che ben pochi realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro opere interrotte. Quell'ossessione di una vita mancata concentrava i miei pensieri su di un punto, li fissava come un ascesso"[11].

Si può anche non diventare mai uomini:"La vita di ogni uomo è una via verso se stesso, il tentativo di una via, l'accenno di un sentiero. Nessun uomo è mai stato interamente lui stesso, eppure ognuno cerca di diventarlo, chi sordamente, chi luminosamente, secondo le possibilità…Certuni non diventano mai uomini, rimangono rane, lucertole, formiche. Taluno è uomo sopra e pesce sotto, ma ognuno è una rincorsa della natura verso l'uomo"[12].

Noi educatori non possiamo ignorare che ogni individuo ha un suo carattere e che nessuno può riuscire bene se agisce in contrasto con il proprio genio:"nihil decet invita Minerva, ut aiunt, id est adversante et repugnante natura"[13], nulla si addice contro il volere di Minerva, come dicono, cioè con l'opposizione e la riluttanza della natura. Quindi ciascun giovane dovrebbe essere aiutato a trovare e valorizzare la propria natura peculiare:"id enim maxime quemque decet, quod est cuiusque maxime suum"[14], a ciascuno infatti soprattutto si addice quello che è soprattutto suo. Lo afferma pure Carlo Martello nel cielo di Venere del Paradiso di Dante"Ma voi torcete alla religione/tal che fia nato a cignersi la spada,/e fate re di tal ch'è da sermone:/onde la traccia vostra è fuori strada" (VIII, 146-148).
L'uomo formato sui classici non può accontentarsi di un'identità gregaria: favorisce il proprio demone, non ostacola quello degli altri.

Secondo il mito platonico di Er, molti di noi dopo la morte dovranno tornare su questa terra, e a un certo punto saremo invitati a sceglierci un'altra vita, un demone, ossia un carattere e un destino, e di tale scelta rimarremo responsabili. Dice infatti l’araldo di Lachesi, la vergine figlia di Ananche:"oujc uJma'" daivmwn lhvxetai, ajll j uJmei'" daivmona aiJrhvsesqe" (Repubblica , 617 e), non sarà il demone a sorteggiare voi, ma voi sceglierete il demone. E subito dopo :"aijtiva eJlomevnou", la responsabilità è di chi ha fatto la scelta. Una scelta  influenzata  dalle vite passate e limitata solo dal turno della scelta . Aiace per esempio si scelse la vita di un leone per il ricordo del giudizio delle armi, Agamennone quella di un'aquila per avversione al genere umano. Odisseo, guarito da ogni ambizione per il ricordo dei travagli precedenti, scelse la vita di un uomo privato e tranquillo ("bivon ajndro;" ijdiwvtou ajpravgmono"",  620c).
Qual è il nesso con il nostro discorso? Che l'uomo tornato sulla terra deve fare quello che gli si addice, essere coerente con quella scelta, dimenticata del resto per avere bevuto l'acqua dell'Amelete. Se recalcitra al suo destino, soffre.
 Durante la vita terrena  "ci resta accanto un compagno, una specie di angelo custode o spirito guida: il Daimon, il modello del nostro destino, che in qualche modo ci aiuta e indirizza al compimento di quella scelta che inizialmente proprio noi avevamo fatto, ma che abbiamo dimenticato. Poiché il mito di Er, come lei accennava prima, è alla base del suo Codice dell'anima…Lei ha citato uno dei miti sul perché esiste il dolore: il Daimon ci mette di fronte le richieste del destino e noi recalcitriamo"[15].


CONTINUA




[1] Cfr. la oJmoivwsiς qew'  suggerita da Platone nel  Teeteto (176b).
[2] Strabone (64 ca a. C.-24 ca d. C.), Geografia, X, 3, 9.
[3] L. Pirandello, Ciascuno a suo modo (del 1924), atto I.
[4] Euripides Bacchae, Commentary,  p. 75
[5] Op. cit., p. 75.
[6] Leopardi, Zibaldone, p. 3498, p. 3501,  p. 3506., p. 3507
[7] Cesare e Galileo (1873) parte seconda. Giuliano imperatore, atto terzo, quadro primo
[8] 70 ca-140 ca d. C.
[9] Plutarco, Vita di Pericle, 38, 4.
[10] "gevnoio oi|o"\\\\\\\\\\\\\\\\|||||||||||\\\\\\\\\\\ ejssiv" (Pitica II  v. 72), diventa quello che sei.
[11] M. Yourcenar, Memorie di Adriano, p. 84.
[12] H. Hesse, Demian (del 1919), p. 54.
[13] Cicerone, De officiis, I, 110.
[14] Cicerone, De officiis, I, 113.
[15] James Hillman, Il piacere di pensare. Conversazione con Silvia Ronchey, pp. 53-54).

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