martedì 11 giugno 2019

La Felicità. VII parte. La problematica felicità della solitudine

ritratto presunto di Menandro, Pompei

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Nella commedia di Menandro, Dyskolos, l’anziano protagonista Cnemone è diventato misantropo - Knhvmwn, ajpanqrwpov" ti" a[nqrwpo" sfovdra (v. 6), un uomo che si è escluso del tutto dagli uomini constatando l’opportunismo e l’egoismo della gente la cui presenza gli è diventata isopportabile.
Quando il servo e l’amico di Sostrato, il ragazzo innamorato della figlia del vecchio, si avvicinano per parlargli lo sentono gridare con viso accigliato
"quanto era beato Perseo per due ragioni:
poiché aveva le ali
e non si incontrava nessuno di quelli che camminano per terra,
poi perché possedeva un arnese con il quale
trasformava in pietre tutti gli scocciatori".
Si ricorderà che Perseo aveva sandali alati e che impietrava i nemici con la testa della Gorgone.
Cnemone vorrebbe essere come quel figlio di Zeus :
"Cosa che vorrei capitasse
pure a me! Non ci sarebbe niente di più abbondante
che le statue di pietra da tutte le parti!".
Il vecchio insomma non sopporta di vedere la gente né di sentirla parlare:
"Non si può più vivere, per Asclepio.
Mettono piede nel mio podere e fanno chiacchiere (“lalou's j) (vv. 153 - 161).

Nel corso della commedia però Cnemone capisce che l’autarchia cui aspirava non è possibile, e, arrivato - come certi personaggi della tragedia - a capire attraverso la sofferenza, dà una spiegazione della genesi del proprio isolamento volontario da sordido anacoreta.
"In una cosa probabilmente ho sbagliato, io che credevo
di essere un autosufficiente (aujtavrkh") e di non avere bisogno di nessuno.
Ma ora che ho visto la fine della vita, rapida,
imprevedibile, ho scoperto che non capivo bene allora.
Infatti deve sempre esserci, ed essere vicino, uno che ti possa aiutare.
Ma per Efesto sono stato così guastato io
vedendo il modo di vivere di ciascuno e i loro calcoli (tou;" logismouv")
e l'attenzione che hanno per il profitto (pro;" to; kerdaivnein). Non avrei pensato
che ci fosse tra tutti uno che fosse benevolo a un altro. Questo mi inceppava il cammino. Il solo Gorgia[1] con fatica
mi ha dato una prova compiendo un'azione da uomo nobilissimo: infatti ha salvato me che non lo lasciavo
nemmeno avvicinare alla porta, nè lo aiutavo mai in alcun modo,
né gli rivolgevo la parola, né rispondevo con gentilezza.
Un altro avrebbe detto: "non mi lasci avvicinare?
io non ci vengo; tu non mi hai mai fatto un piacere?
neanche io a te". Che c'è ragazzo?[2] Se io
muoio ora - e lo credo tanto sto male -
e pure se sopravvivo, ti adotto come figlio, e quello che ho,
consideralo tutto tuo. Questa ragazza la affido a te:
procurale un marito. Io, anche se fossi del tutto sano,
non potrei trovarglielo: infatti nessuno mi piacerebbe mai.
Quanto a me, se vivo, lasciate che viva come voglio (zh'n eja'q j wJ" bouvlomai)" (vv. 713 - 735).

Nella tragedia di Sofocle Filottete il protagonista depreca la propria solitudine coatta e desolata: abbandonato su un'isola deserta, lamenta di essere movno" (v. 227), e[rhmo" (…) ka[filo" (v. 228) solo, abbandonato e senza amici.

Kierkegaard in Enten Eller, nota che" il mondo antico non aveva la soggettività riflessa in sé. Benché si muovesse liberamente, l'individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello stato, nella famiglia, nel fato (…) La riflessione di Filottete non si sprofonda in se stessa, ed è tipicamente greco che egli si dolga che nessuno sia a conoscenza del suo dolore. Si ha qui una grande verità, e proprio qui si vede anche la differenza con il vero e proprio dolore riflessivo, che sempre desidera d'esser solo con il suo dolore, e che nella solitudine di questo dolore cerca sempre un nuovo dolore"[3].

La scelta della solitudine , condannata come disumana da Omero (nell’episodio del Ciclope) a Menandro, più avanti, con la degenerazione brutale dei rapporti umani, con la trasformazione delle persone in "turba ", folla fastidiosa e fuorviante, diventerà non solo dignitosa ma necessaria.
Prendiamo Seneca che tornato dal Circo dove ha assistito a mera homicidia omicidi veri e propri, commenta:" avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui ", torno a casa più avido, ambizioso, amante del lusso? anzi più crudele e più disumano proprio perché sono stato in mezzo agli uomini (Ep. 7, 3). Il consiglio allora è:"recede in te ipse quantum potes ", rientra in te stesso quanto puoi (7, 8).
La posizione si radicalizza nell'incipit di un'altra lettera: “ Seneca Lucilio suo salutem. Sic est, non muto sententiamfuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum” (Ep. 10, 1), Seneca saluta il suo Lucilio. E' così, non cambio parere, evita la folla, evita i pochi, evita anche uno solo.

Vediamo il misantropo Timone
Plutarco nella Vita di Alcibiade (16) racconta che Tivmwn oJ misavnqrwpo~ , mbattutosi un giorno in Alcibiade che tornava dall’assemblea popolare soddisfatto per un successo, non lo scansò come era solito fare con gli altri, ma anzi gli andò incontro, gli strinse la destra e gli disse: “fai bene ragazzo a crescere in potenza: mevga ga;r au[xei kako;n a{pasi touvtoi~, così accresci di molto il male a tutti questi.

Nel Timone d'Atene (1607) di Shakespeare il protagonista diventato misantropo per l’ingratitudine umana dice: All’s obliquy; - there is nothing level in our cursed natures - but direct villainy. Therefore be abhorred - all feasts, societies, and throngs of men - His semblabl yea himself, Timon disdains - Destruction fang mankindIV, 3, 18 - 24), tutto è storto, non c’è niente di diritto nella nostra natura maledetta, se non la malvagità diretta al male. Perciò sono da detestare tutte le feste, compagnie e folle di uomini. Timone disprezza il suo simile, anzi se stesso. Che la distruzione azzanni l’umanità.

Un'eco in Nietzsche: “c'è da dir male anche di chi soffre per la solitudine - io ho sempre e solamente sofferto per la moltitudine”[4]. E poi: “ogni compagnia è cattiva, ad eccezione di quella con i propri simili”[5]
Des Esseintess di Huysmans desidera la lontananza dalla “sconcia folla”.
 “Non meno d’un eremita, egli era maturo per l’isolamento, affranto dalla vita, più nulla attendeva da essa. Non meno d’un monaco, sentiva un’immensa stanchezza, il bisogno di raccogliersi, il desiderio di non aver più nulla in comune col prossimo: composto, ai suoi occhi, di profittatori e d’imbecilli. Insomma (…) nutriva una vera simpatia per il frate che si chiude in un convento, per il monaco perseguitato da un’astiosa società che non gli perdona né il sacrosanto disprezzo che egli ha per essa, né la volontà ch’egli professa di riscattare, d’espiare col silenzio la sempre crescente sfacciataggine dei suoi vaniloqui stupidi e assurdi”.[6]

 C. Pavese scrive :"Maturità è l'isolamento che basta a se stesso" (Il mestiere di vivere , 8 dicembre 1938). E più avanti (15 ottobre, 1940):"Ci sono servi e padroni, non ci sono uguali. La sola regola eroica: essere soli soli soli". E infine (25 aprile 1946):"Ogni sera, finito l'ufficio, finita l'osteria, andate le compagnie - torna la feroce gioia, il refrigerio di essere solo. E' l'unico vero bene quotidiano". E' pur vero che questo nostro autore si uccise il 18 agosto del 1950.

Torno a Cnemone e concludo. Il misantropo di Menandro, quando vede Sostrato davanti alla porta di casa, invoca il suo bene supremo:
"non è possibile ottenere la solitudine da nessuna parte!" ( ejrhmiva" oujk e[stin oujdamou' tucei'n, Duvskolo", v.169).


CONTINUA

[1] Il figlio di primo letto della moglie. I due avevano lasciato Cnemone che viveva con la figlia e una vecchia serva
[2] Si rivolge a Gorgia.
[3] Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, Tomo secondo, p24 e pp.33 - 34.
[4] Ecce homo, Perché sono così accorto, 10
[5] Di là dal bene e dal male, Lo spirito libero, 26.
[6] A Rebours (1884), capitolo I e capitolo V

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