sabato 1 giugno 2019

La Felicità. II parte. La conquista della felicità: una vittoria in una gara davvero olimpica


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La difficile conquista della felicità

Nel quinto episodio della Medea di Euripide il messo narra la morte atroce di Glauce e Creonte, ossia della sposa e del suocero di Giasone, e conclude il racconto con questo commento: “ θνητν γρ οδείς στιν εδαίμων νήρ· / λβου δ’ πιρρυέντος ετυχέστερος / λλου γένοιτ’ ν λλος, εδαίμων δ’ ν ο, “ (vv. 1228 - 1230), nessuno infatti tra i mortali è un uomo felice: quando passa un’ondata di prosperità, uno può diventare più fortunato di un altro, ma felice nessuno
Euripide esprime simile negazione della felicità anche in un verso del prologo della perduta Stenebea citato da Aristofane: " oujk e[stin o{sti" pavnt j ajnh;r eujdaimonei'" ( Rane , v. 1217), non c'è uomo che sia del tutto felice.

 Medea, dopo avere saputo che Glauce ha accettato i doni funesti, aveva riconosciuto il prevalere dello qumov" sui bouleuvmata e quindi l'irrevocabilità del proposito di uccidere anche i propri figli pur con la coscienza di perpetrare un crimine orrendo (kai; manqavnw me;n oi|a dra'n mevllw kakav,/ qumo;" de; kreivsswn tw'n ejmw'n bouleumavtwn/o{sper megivstwn ai[tio" kakw'n brotoi'" , vv. 1078 - 1080). Sono dei versi chiave che possono confutare l’accusa di razionalismo o “socratismo estetico” mossa con insistenza da Nietzsche a Euripide: “la sua tendenza antidionisiaca si sviò in una tendenza nsturalistica e non artistica” quindi “potremo ormai avvicinarci all’essenza del socratismo estetico, la cui legge suprema suona a un dipresso: “Turro deve essere razionale per essere bello”, come proposizione parallela al principio socratico: “solo chi sa è virtuoso” (…) Ciò che noi sogliamo tanto spesso imputare a Euripide come difetto e regresso poetico in confronto alla tragedia sofoclea, è per lo più il prodotto di quell’incalzante processo critico, di quella temeraria razionalità”[1].
L'impossibilità di essere felici mette fuori luogo il mettere al mondo dei figli.

Il Coro di donne corinzie commenta le prole di Medea sostenendo l'inopportunità di mettere al mondo dei figli: “Kai; fhmi brotw'n, oi[tinev" eijsin - pavmpan a[peiroi mhd j ejfuvteusan - pai'da", profevrein eij" eujtucivan - tw'n geinamevnwn" ( Medea, vv. 1090 - 1093) e affermo che tra i mortali quelli che sono del tutto inesperti di procreazione e non hanno generato dei figli, superano nella fortuna coloro che li generarono[2].
 La negazione della felicità e della procreazione sono associate
Forse non è falso quanto afferma Bernardin De Saint - Pierre che noi Europei sin dall'infanzia abbiamo "la mente piena di pregiudizi contrari alla felicità" e non possiamo più comprendere "quanti lumi e piaceri possa dare la natura"[3].

 Sentiamo il coro dei morti nello studio di Federico Ruysch
“Sola nel mondo eterna, a cui si volve
Ogni creata cosa,
in te, morte, si posa
nostra ignuda natura;
lieta no ma sicura
dall’antico dolor” (…)
Lieta no ma sicura;
però ch’essere beato
nega ai mortali e nega a’ morti il fato”[4].

Felicità è, oltre che moralità, l'accordo con il proprio daivmwn, destino e carattere. L' eujdaimoniva non è possibile se non ricordiamo, non riconosciamo e non assecondiamo il daivmwn che, secondo il mito di Er, ci siamo scelti prima di tornare sulla terra. "Poiché la felicità alla sua antica fonte era eudaimonia, cioè un daimon contento, soltanto un daimon che riceve ciò che gli spetta può trasmettere un effetto di felicità all'anima"[5].

Seneca Ep. 80
La felicità di molti, specialmente quella dei potenti e dei ricchi è mascherata e recitata, non è reale.
Horum qui felices vocantur hilaritas ficta est aut gravis et suppurata tristitia (Seneca Ep. 80, 6), la gaiezza di costoro che sono chiamati felici è finta o è una pesante e incancrenita tristezza, anche se per loro necesse est agere felicem, recitare la parte dell’uomo felice in questo humanae vitae mimus, questa farsa, pupazzata della vita umana.
 Omnium istorum personata felicitas est. Contemnes illos si dispoliaveris - (8).
Il regnum secondo Seneca è un fallax bonum del quale non c'è da gioire: copre grande quantità di mali sotto un aspetto seducente:" Quisquamne regno gaudet? O fallax bonum/quantum malorum fronte quam blanda tegis" (Oedipus, vv.7 - 8), qualcuno gode del regno? O bene ingannevole, quanti mali copri sotto una facciata così lusinghiera! Sono parole di Edipo che dà inizio al dramma descrivendo l'infuriare della pestilenza.
Nello Ione il protagonista eponimo sostiene la superiorità della vita ritirata su quella impegnata o tesa al potere che viene smontato del tutto: "del potere lodato a torto/l'aspetto è dolce, ma dentro il palazzo/c'è il dolore (tajn dovmoisi de; - luphrav): chi infatti è felice tiv" ga;r makavrio"tiv" eujtuchv" /se, temendo e guardando di traverso (dedoikw;" kai; parablevpwn), trascina/il corso della vita? Preferirei vivere/da popolano fortunato piuttosto che da tiranno ("dhmovth" a]n eujtuch;" - zh'n a]n qevloimi ma'llon h] tuvranno" w[n"),/il quale si compiace di avere amici malvagi,/mentre odia i generosi per paura di attentati " (Ione, vv. 621 - 628).
Nelle tragedie greche la peripezia spesso toglie la madchera al re, o al tiranno, al potente in genere e lo capovolge nel farmakov", il capro espiatorio gettandolo da una condizione fortunata in un abisso di totale infelicità

Faccio un paio di esempi
nell'Antigone di Sofocle leggiamo:
"Creonte infatti era invidiabile (zhlwtov", 1161), secondo me, una volta (potev),/
siccome aveva salvato dai nemici questa terra di Cadmo,
e, avendo preso il potere assoluto sulla regione,
la dirigeva, mentre fioriva per nobile seminagione di figli(hu[qune, qavllwn eujgenei' tevknwn spora'/);/
ed ora tutto è buttato via. infatti quando
l'uomo abbandona la gioia (ta;" hjdonav"), io non ritengo
che sia vivo costui ma lo considero un cadavere che respira - ajll j e[myucon hjgou'mai nekrovn" (vv1161 - 1167). E’ il messaggero che parla, all’inizio dell’esodo subito dopo il quinto stasimo che cantava l’illusione di un lieto fine.

Nelle Troiane di Euripide la vecchia regina ha perduto tutto e constata che il polu;~ o[gko~ (Troiane,v. 108), il grande vanto degli antenati era un gonfiore che si è dissolto, era oujdevn, niente (109).

Nell’Ecuba la protagonista eponima cercando di salvare Polissena dice a Odisseo che i potenti non devono comandare quello che non si deve - ouj tou;" kratou'nta" crh; kratei'n a{ mh; crewvn (Ecuba, 282), e chi ha buona fortuna - eujtucou'nta" - non deve credere che gli andrà sempre bene. Anche io, aggiunge, l’avevo una volta, ma un solo giorno mi ha portato via tutto - to;n pavnta d j o[lbon h\mar e{n m j ajfeivleto (285)[6].
L’Agamennone delle Troiane di Seneca mostra di avere coscienza di questa legge della rovinosa caduta probabile per chi è salito in alto quando è al culmine della sua carriera:"Violenta nemo imperia continuit diu,/moderata durant; quoque Fortuna altius/evexit ac levavit humanas opes,/hoc se magis supprimere felicem decet/variosque casus tremere metuentem deos/nimium faventes. Magna momento obrui/ vincendo didici. Troia nos tumidos facit/nimium ac feroces? Stamus hoc Danai loco,/unde illa cecidit " (vv. 258 - 266), nessuno ha conservato a lungo il potere con la violenza, quello moderato dura; e quanto più la Fortuna ha levato in alto la potenza umana, tanto più il fortunato fa bene a trattenersi e paventare le varie cadute temendo gli dèi che lo favoriscono troppo. Vincendo ho imparato che i grandi regni vengono sepolti in un attimo. Troia ci rende troppo superbi e spietati? Noi Danai stiamo in piedi nel luogo dal quale quella è caduta. 
Troviamo un locus analogo nel primo coro dell'Agamennone di Seneca quando le donne di Micene notano che la Fortuna/ fallax (vv. 57 - 58) inganna con grandi beni collocandoli troppo alti in praecipiti dubioque (v. 58), in luogo scosceso e insicuro. Infatti le cime sono maggiormente esposte alle intemperie, ai colpi della Fortuna, e predisposte alle cadute rispetto alle posizioni medie:"quidquid in altum Fortuna tulit,/ruitura levat./Modicis rebus longius aevum est;/felix mediae quisquis turbae/sorte quietus…" (Agamennone, vv. 101 - 104), tutto ciò che la Fortuna ha portato in alto, per atterrarlo lo solleva. E' più lunga la vita per le creature modeste: fortunato chiunque sia della folla mediana contento della sua sorte.

Essere felici secondo Strabone, geografo dell'età di Augusto, è un atto di pietas, una specie di imitatio Dei, di assimilazione a Dio[7]
:"gli uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene, ma si potrebbe dire ancor meglio quando sono felici ( eâ mn g¦r e‡rhtai kaˆ toàto, toÝj ¢nqrèpouj tÒte m£lista mime‹sqai toÝj qeoÝj Ótan eÙergetîsin· ¥meinon d' ¨n lšgoi tij, Ótan eÙdaimonîsi"[8]. 


 CONTINUA



[1] Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo 12
[2] Augusto, sofferente per il comportamento scandaloso delle due Giulie, figlia e nipote, che fece relegare a Ventotene poiché si erano contaminate di ogni vergogna sessuale ("omnibus probris contaminatas " in SvetonioVita di Augusto , 65), e scontento anche del nipote Agrippa dall'indole torbida e selvaggia soleva esclamare sospirando, in greco: "fossi rimasto celibe (a[gamo") e morto senza figli! (a[gono")!".
[3] Paul e Virginie (del 1788), p, 135.
[4] Leopardi Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie.(1824
[5] J. Hillman, Il codice dell'anima , p. 112.
[6] E quando la fortuna volse in basso
L’altezza de’ Troian che tutto ardiva
Sì che ’sieme col regno il re fu casso,
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane,
tanto il dolor le fe’ la mente torta (Inferno, XXX, 13 - 21). Cerchio VIII, decima bolgia, Falsari
[7] Cfr. la oJmoivwsiς qew' suggerita da Platone nel Teeteto (176b). 
[8] Strabone (64 ca a. C. - 24 ca d. C.), Geografia, X, 3, 9.

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