giovedì 20 giugno 2019

La Felicità. IX parte. Conosci te stesso e diventa quello che sei!

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Attraverso la sofferenza si può arrivare a capire
In certi casi la sofferenza causata dal non avere capito può condurre alla resipiscenza e alla comprensione come leggiamo nella parodo dell’Agamennone

Zeus, chiunque egli sia, se è questo il nome
Con cui gli è caro essere invocato,
così a lui mi rivolgo: nulla trovo cui compararlo,
pur tutto attentamente vagliando,
tranne Zeus, se veramente si deve gettar via
il peso della follia dal proprio pensiero (vv. 160 - 166).

E poco più avanti:
Ma chi a Zeus con gioia leva il grido epinicio
Coglierà pienamente la saggezza.
A Zeus che ha avviato i mortali
A essere saggi, che ha posto come valida legge
attraverso la sofferenza la comprensione tw'/ pavqei mavqo" 177.
Invece del sonno stilla davanti al cuore
un’angoscia memore di dolori:
anche a chi non vuole arriva l’essere saggio (174 - 181).

Nell’ultima antistrofe il coro riassume:
Divka de; toi'" me;n paqou'sin maqei'n ejpirrevpei(Agamennone, vv. 250 - 251), Giustizia fa imparare a quelli che hanno sofferto.
Alcuni però non imparano dal dolore. Altri non imparano in tempo.

Impara il vedovo di Alcesti, Admeto che ha chiesto alla moglie di sostituirlo nella morte. Ma, ottenuta la sopravvivenza, soffre la desolazione nella quale è rimasto e dice:"lupro;n diavxw bivoton: a[rti manqavnw", condurrò una vita penosa: ora comprendo (v.940). In seguito, come si sa, gli verrà restituita la compagna dalla possa di Eracle.
Si diventa morali appena si è infelici (…) I castighi si crede di evitarli, perché stiamo attenti alle carrozze quando si attraversa la strada, perché evitiamo i pericoli. Ma ve ne sono di interni. L’incidente viene dalla parte cui non si pensava, dal di dentro, dal cuore”[1].
Aggiungo  Musil: “" sostengo che non vi è profonda felicità senza morale profonda"[2].

Torniamo al dramma antico.
Il  Duvskolo" di Menandro, il vecchio Cnemone solitario e misantropo, in seguito a una caduta nel pozzo, comprende che nessuno è tanto autosufficiente da potere vivere senza l'aiuto del prossimo, e deve ammettere:" e{n d j i[sw"  h{marton o{sti~ tw'n aJpavntwn wj/ovmhn - aujto;" aujtavrkh" ti" ei\nai kai; dehvsesq j oujdenov"" (vv.713 - 714), in una cosa probabilmente ho sbagliato: a credere di essere il solo autosufficiente tra tutti, e di non avere bisogno di nessuno. In Menandro dunque rimane vigente la legge tragica per la quale attraverso le proprie sofferenze si impara e si diventa più comprensivi:"non si può dire che mavqo" non ci sia stato (...) Il paradigma in funzione esemplare è evidente"[3].

La resipiscenza non può essere tardiva: nell’esodo delle Baccanti di Euripide Dioniso rinfaccia a Cadmo il fatto di essere stato rivonosciuto quale dio  “tardi” (o[y  j ejmavqeq j hJma'", 1345)  

Non comprendere crea dolore e morte
Nelle Troiane, la maniva di Cassandra, più saggia della sapienza del mondo, dichiara che chi ha senno deve evitare la guerra: “feuvgein me;n oun crh; povlemon o{sti~ eu\ fronei`” (v. 400). La guerra di Troia è stata e sarà luttuosa per i vincitori quanto e più che per i vinti.   
Comprende è funzionale ad accettare e valorizzare il destino.

Nel  Fedone di Platone Socrate poco prima di bere la cicuta dice a Simia che in questa vita bisogna fare di tutto per partecipare dell’intelligenza e della virtù, poiché il premio è bello e la speranza è grande - pa'n poiei'n w{ste ajreth'" kai; fronhvsew" ejn tw'/ bivw/ metascei'n : kalo;n ga;r to; a\qlon kai; hj ejlpi" megavlh (114 c).
Può essere rischioso credere nell’immortalità dell’anima,  però ne vale la pena: infatti il rischio è bello kalo;" ga;r oj kivnduno" (114d). Dopo avere bevuto la cicuta non resterò tra voi ma partirò andando verso  certe  felicità dei beati (ajll j oijchvsomai ajpiw;n eij" makavrwn dhv tina" eujdaimoniva"115d)
Fate capire a Critone che  quando sarò morto, non sarò io a essere sepolto. Bisogna essere esatti nell’uso del linguaggio poiché non parlare bene non solo è una stonatura ma fa anche male all’anima: "euj ga;r i[sqi (…) a[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev", ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e) sappi bene (…) ottimo Critone che parlare male non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.

Epicuro nell’Epistola a Meneceo afferma: “to; mevgiston ajgaqo;n frovnhsi"” (132, 5), il massimo bene è la saggezza, perciò è un bene più prezioso della filosofia la saggezza dio; kai; filosofiva" timiwvteron uJpavrcei frovnhsi", dalla quale derivano tutte le altre virtù, ejx h|" aiJ loipai; pa'sai pefuvkasin ajretaiv, in quanto essa insegna che non è possibile vivere felicemente senza vivere assennatamente nella bellezza e nella giustizia didavskousa wJ" oujk e[stin hjdevw" zh'n a[neu tou' fronivmw" kai; kalw'" kai; dikaivw"   (A Meneceo, 132)

"La pietà suprema sarà per i Greci l'intelligenza"[4].
Capire significa anche amare.
Non c’è peccato peggiore, nel nostro tempo, che quello di rifiutarsi di capire: perché nel nostro tempo non può scindersi l’amare dal capire. L’invito evangelico che dice “ama il prossimo tuo come te stesso” va integrato con un “capisci il prossimo tuo come te stesso”. Altrimenti l’amore è un puro fatto mistico e disumano”[5].
Intelligenza e indulgenza apparivano a Giuseppe due pensieri strettamente affini, reciprocamente scambievoli e portatori perfino di un nome comune: bontà”[6].
Questo è, infatti, il modo di comportarsi e addirittura il contrassegno dell’uomo buono, che egli si accorge con saggia reverenza del divino, il che avvicina bontà e intelligenza, anzi propriamente le fa apparire una cosa sola”[7].

La felicità dunque consiste nella conoscenza da intendere più come sapienza che come sapere.
Mazzarino mette in rilievo che nell'opera di Erodoto è ricorrente il quesito:"Son felici il ricco e il monarca? (...) A questa domanda rispondono i discorsi tra Creso e Solone (...) anche Anassagora si sforzava di rispondere alla stessa domanda (...) secondo Anassagora il dotto soprattutto era felice"[8].
In questo caso si tratta forse più di sapere che di sapienza.

Euripide nelle Baccanti mette in rilievo la distinzione tra to; sofovn sofiva (v. 395)
Leggiamo tutta la prima antistrofe del primo stasimo
Di bocche senza freno
di empia stoltezza
il termine è sventura;
mentre la vita
della tranquillità e il comprendere   - to; fronei'n -
rimangono al riparo dai flutti
e tengono unite le case: da lontano infatti i celesti,
pur abitando l’etere,
vedono comunque i fatti dei mortali.
Il sapere non è sapienza - to; sofo;n d  j ouj sofiva -
e la pretesa di comprendere fatti non mortali - tov te mh; qnhta; fronei'n -  .
Breve è la vita: per questo
uno che insegue grandi fantasie
non può conseguire quello che c’è. Questa
è l’attitudine secondo me di uomini
dissennati e sconsigliati” (Baccanti, 387 - 402

Nel quarto stasimo
Il coro torna a smotare to; sofovn dicendo che non è invidiabile.
Beni grandi sono la bellezza, l’eujsevbeia e la giustizia 
Rimanere nell’umano  è una vita senza dolore.
Il sapere non lo invidio.                                                                         
Mi piace  ricercare; ma altri sono i beni grandi
e manifesti: oh vorrei che la vita scorresse verso la bellezza,
giorno e notte essere pio
mantenendo la purezza, onorare gli dèi
respingendo le norme estranee alla giustizia” (Baccanti, 1004 - 1010).

La sofiva è lo scopo di quella cultura che Nietzsche chiama tragica:" la sua principale caratteristica consiste nell'elevare a meta suprema, in luogo della scienza, la sapienza".  
La sofiva è femminile e produce, incrementa la vita. To; sofovn è neutro e non può farlo. Il sapere   è il fine dell'uomo teoretico il quale " si spaventa delle conseguenze da lui prodotte e, insoddisfatto, non osa più affidarsi al terribile fiume ghiacciato  dell'esistenza: angosciosamente egli corre su e giù lungo la riva"[9] .
In Ecce homo  del 1888 Nietzsche fa una contrapposizione: “da una parte l’istinto degenerante che si rivolta contro la vita con rancore sotterraneo ( - il cristianesimo, la filosofia di Scopenhauer, in un certo senso già la filosofia di Platone, tutto l’idealismo ne sono forme tipiche - ) e dall’altra una formula della affermazione suprema, nata dalla pienezza, dalla sovrabbondanza, un dire sì senza riserve, al dolore stesso, alla colpa stessa, a tutto ciò che l’esistenza ha di problematico e di ignoto (…) Quest’ultimo, gioiosissimo, straripante - arrogantissimo sì alla vita non solo è la visione suprema, ma anche la più profonda (…) La conoscenza, il dire sì alla realtà, è una necessità per il forte, così come lo è per il debole, per ispirazione della debolezza la viltà, la fuga dalla realtà - l’ideale (…)
La conoscenza non è permessa a loro; per i décadents la menzogna è necessaria –è una condizione della loro vita”[10]   
Vale la pena di riferire a questo proposito alcune parole di T. Mann:"A questa tragica saggezza, che benedice la vita in tutta la sua falsità, durezza e crudeltà, Nietzsche ha dato il nome di Dioniso"[11].
Eliot affermava: "Qual è la conoscenza che noi perdiamo nell'informazione e qual è la sapienza (wisdom) che perdiamo nella conoscenza?"[12].
Ma leggiamo direttamente u versi di T. S. Eliot:
Knowledge of speech, but not of silence
Knowledge of words, and ignorance of the Word
All our knowledge brings us nearer to our ignorance,
All our ignorance brings us nearer to death,
But nearer to death no nearer to GOD.
Where is the Life we have lost in living?
Where is the wisdom we have lost in knowledge?
Where is the knowledge we have lost in information?”, (Choruses from “The Rock
, I, 9, 16[13].
conoscenza del linguaggio ma non del silenzio, conoscenza delle parole e ignoranza del Verbo. Tutta la nostra conoscenza ci porta più vicini alla nostra ignoranza, tutta la nostra ignoranza ci porta più vicini alla morte. Ma più vicini alla morte, non più vicini a Dio.  Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo? Dovìè la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione? 

Platone  nel Gorgia (470e) fa dire a Socrate di non sapere se il gran re dei Persiani sia felice poiché non sa come stia quanto a paideia e a giustizia:"ouj ga;r oi\da paideiva" o{pw" e[cei kai; dikaiosuvnh" ; quindi, a Polo che lo incalza, chiedendogli se la felicità consista in questo, risponde che l'uomo e la donna sono felici quando sono belli e buoni; quando sono ingiusti e malvagi invece sono infelici.
Giuliano Augusto alla fine della preghiera A Elios re chiede al Sole come ricompensa del suo zelo - ajnti; proqumiva" -  di essergli propizio - moi eujmenh' genevsqai -  e accordargli una vita virtuosa, una più compiuta sapienza e una intelligenza divina, e infine, nell’ora separazione predestinata, la ajpallaghvn te eijmarmevnhn - di lasciare la vita in tutta serenità e ascendere a lui (158b).

Ma nella tragedia greca troviamo anche l’opinione contraria ed è questa presenza dei dissoi; lovgoi, dei discorsi contrapposti, dei due punti di vista e del considerare tutto in maniera problematica che fa nascere e potenzia il nostro spirito critico. Nella tragedia Aiace di Sofocle il Telamonio caduto in rovina prende in braccio il figlio bambino e dice che lo invidia per l’incoscienza delle sventure data l’età
Infatti, aggiunge, “ejn tw'/ fronei'n ga;r mhde;n h{disto" bivo" - to; mh; fronei'n ga;r kavrt j ajnwvdunon kakovn, nel non intendere nulla la vita è dolcissima, poiché  il non intendere è davvero un male senza tormento (554 - 554b)

Conosci te stesso e diventa quello che sei!
Segnalo una non conoscenza che è nello stesso tempo non sapienza ed è  sempre causa di infelicità.  
Il secondo coro del Tieste  di Seneca  (cfr. v. 542 - 544) conclude anteponendo alla vita dell'uomo famoso e di potere quella del privato e augurandosi di morire ignoto agli altri, ma noto a se stesso:"me dulcis saturet quies:/obscuro positus loco,/leni perfruar otio;/nullis nota Quiritibus/aetas per tacitum fluat./Sic cum transierint mei/nullo cum strepitu dies,/plebeius moriar senex./Illi mors gravis incubat,/qui, notus nimis omnibus,/ignotus moritur sibi " (Thyestes, vv. 393 - 403), mi sazi una dolce tranquillità: rifugiato in un luogo sconosciuto, possa godere di un dolce tempo tutto per me; la mia vita trascorra in silenzio sconosciuta a tutti i cittadini. Così quando saranno passati i miei giorni senza chiasso alcuno, morirò vecchio uno dei tanti. La morte pesa grave su chi troppo noto a tutti, muore ignoto a se stesso.

Nel secondo episodio delle Baccanti Dioniso dice a Penteo
Non sai che vita vivi, né quello che fai, né chi sei” (v. 506).
Penteo fornisce i suoi dati  burocraticamente 
Penteo, figlio di Agave e mio padre è Echione”  (507)
Quindi Dioniso  interpreta il nomen con l’omen del dolore: Penqeuv"  preannuncia il dolore (pevnqo") dell’uomo predestinato a  penare penqei'n.
 “Sei adatto a essere un disgraziato secondo il nome” (508).
Precedentemente, alla fine del primo episodio, Tiresia aveva detto a Penteo:
Disgraziato! Come non sai quello che dici!                                
Oramai sei diventato pazzo; e già prima eri uscito di senno (Baccanti, 358 - 359)
Poi a Cadmo:
Che Penteo non porti pena - Penqeu;" d j  o{pw" mh; pevnqo" eisovsei -  nella casa
 tua, Cadmo: non parlo profeticamente,
ma secondo i fatti: poiché quello è folle e dice follie (Baccanti, 367 - 369).  

L’ignoranza della propria identità dunque  è la più grave. Talora serve a  procrastinare il dolore, aggravandolo, mai a risolverlo
Nell’Edipo re Tiresia, minacciato da Edipo replica con questo avvertimento maleominoso
"E dico, poiché mi hai rinfacciato anche la cecità:/tu, pur se guardi fisso, non vedi dove sei nel male/né dove abiti, nè con chi dimori (vv. 412 - 415).
Il problema dell’identità e dell’origine segna il destino di Edipo che sarà condotto suo malgrado a scoprirsi altro da ciò che immaginava. Nel caso di Penteo, la crisi dell’identità è diretto prodotto dello scontro con Dioniso che fa deflagrare ogni certezza e ogni pretesa di coerenza del suo interlocutore. E’ rilevante che Dioniso riattivi il modello del Tiresia sofocleo e che insieme si trovi in una posizione corrispondente al Tiresia del precente episodio del dramma: se l’indovino aveva ammonito Penteo, qui il dio completa, con una maggiore e diversa autorevolezza, l’annuncio della catastrofe che non mancherà di punire la cecità del sovrano”[14].
  
La conoscenza di se stesso dunque è un  preliminare della felicità ed è un presupposto della definizione e del potenziamento dell’identità: “quella moltiplicazione di noi stessi che è la felicità”[15].
I gradini dunque possono essere: conosci te stesso gnw`qi sautovn[16], diventa quello che sei[17], accresci quello che sei diventato.


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[1] M. Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore, p. 219.
[2]R. Musil, L'uomo senza qualità , p. 846.
[3]C. Del Grande, Tragw/diva, p. 214.
[4] M. Zambrano, L'uomo e il divino (1955),  p. 194.
[5] P. P. Pasolini, Le belle bandiere, p. 103.
[6] T. Mann, Giuseppe in Egitto, p. 257.
[7] T. Mann, Giuseppe il nutritore, p. 62.
[8]S. Mazzarino, Il pensiero storico classico  I, pp. 178 e 179.
[9] La nascita della tragedia  (del 1872) capitolo 18
[10] Ecce homo, La nascita della tragedia, 3
[11] T. Mann, Nobiltà dello Spirito, p. 814. controllal e specifica
[12] Morin, La testa ben fatta,  p. 45.
[13] Cori  da “la rocca”  del 1934.
[14] D. Susanetti , Euripide, Baccanti, p. 219.
[15] M. Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore, p. 397.
[16] Il dialogo Carmide  di Platone verte sulla swfrosuvnh, e il personaggio Crizia ne dà questa definizione: “fhmi ei\nai swfrosuvnhn, to; gignwvskein eJautovn, assennatezza è conoscere se stessi, e l’iscrizione di Delfi corrisponde a un Cai`re, un salve, un saluto del dio (164d). Nel Protagora (343 a - b). le scritte delfiche Gnw`qi sautovn, “Conosci te stesso, e Mhde;n a[gan,  “Nulla di troppo”,  sono esempi di una scuola che ammirava la paideia spartana e ne impiegava lo stile brachilogico.
[17] gevnoio oi|o~ ejssiv, Pindaro, Pitica II  v. 72.

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