martedì 17 giugno 2025

Ifigenia CLX La notte romana. La trasfigurazione di Raffaello Urbinate. Il ritorno.


 

Dopo la cena al tavolo con il collega e amico Giovanni, noi due ci separammo dagli altri e andammo a casa di Antonella, l’amica romana dell’estate di Päivi. Erano già passati diversi anni, senza notizie di lei dopo la notte dei saluti e delle promesse amorose. Dico di Päivi. E di molt’altre.

 Nella vita alcune cose e persone ritornano, altre spariscono inopinate e fulminèe.

A volte si pensa di “trasumanar”, in un modo o in un altro, trasformando comunque la vita impostata con questa o con quella.

Quando Päivi abortì la nostra bambina e disse: “I don’ t  want to see you” arrivai a Capo poi decisi di “significar per verba” il prosieguo della mia vita. Mai più figli né un amore per tutta la vita. Amori a perdere dunque.  Le amicizie erano state meno effimere.

 Antonella infatti era ancora un’amica. Ricordammo in particolare il bagno nel Danubio del 25 agosto 1974 e le parole che le scrissi in settembre quando rimasi solo nel collegio universitario di Yväskylä da dove la mia compagna pregnante era partita per andare lontano, oltre il circolo polare ad abortire la nostra figliola concepita a Debrecen in luglio.

Il  marito dell’amica mi sembrò un crapulone: mangiava e beveva con gusto, senza porsi problemi di linea né di salute. Quindi fumava dei lunghi sigari sempre con l’aria di chi nella vita è arrivato dove voleva.

Infatti a un certo punto mi fece: “Vedi? Didici esse felix. E tu?”

Dedidici  esse infelix. Mi basta”.

Quando fummo soli, Ifigenia disse che quell’uomo le aveva fatto venire in mente il “globo di continenti peccaminosi” incarnato da Falstaff . La citazione mi piacque. Ifigenia quando ricordava le frasi belle mi eccitava, sicché godemmo con voluttà raffinata, erudito luxu, nel talamo offertoci dagli ospiti 

Dovemmo del resto alzarci assai presto per arrivare nell’alberghetto vicino alla fontana di Trevi dove eravamo alloggiati, prima che si notasse la nostra assenza durante l’adunata mattutina. L’ottimo Giovanni ci avrebbe coperto ma non poteva farlo oltre le nove.

Dopo la colazione non priva di sorrisi, Ifigenia portò alcuni studenti a vedere Cinecittà, mentre io accompagnai un gruppo ai Musei Vaticani dove volli commentare La trasfigurazione di Raffaello Urbinate avvalendomi dell’intepretazione datane da Nietzsche.

Il fanciullo ossesso nella parte bassa del quadro raffigura il terrore del caos con la distruttiva sapienza silenica, Cristo ascendente  è Apollo che con la bellezza giustifica la vita.

Un trasumanare diverso dal mio.

La nascita della tragedia aveva inaugurato il bello  stile del mio insegnamento e da allora avevo continuato a dare grande importanza al maestro tedesco. Anche nel lavoro c’è un ritorno periodico di certi eventi significativi e capitali.

Durante il viaggio di ritorno in treno le due belle supplenti erano sedute davanti a me. Le osservavo con attenzione e le confrontavo. Ifigenia era più grande, più mora, più bella di corpo; Lucia era più fine e più luminosa nel volto. Aveva gli occhi più grandi, espressivi e capaci di luce. In quel momento mi piaceva di più. Mi sembrava più simile a me e alla mia stirpe. Ifigenia se ne accorse con sofferenza e cominciò ad agitarsi: scalpitava con le caviglie snelle e i polpacci torniti. Pensai che questa mi aveva dato comunque molto di più e doveva ricevere  più di quell’altra.

 Come la sera di Helena e Josiane quasi nove anni prima, nell’agosto del 1971[1]. Le stesse situazioni ritornano. Helena non poteva essere la donna da amare a lungo siccome già impegnata altrimenti, però il mese passato felicemente con lei mi aveva aperto la via a successivi amori, ad altre esperienze buone, a borse di studio proficue; probabilmente anche l’ amore con Ifigenia non sarebbe durato a lungo, tuttavia noi due avevamo ancora qualcosa da infonderci a vicenda: un po’ di amore carnale e magari anche spirituale per progredire ciascuno verso la propria meta. Mete comunque remote e distanti pure tra loro

 

Bologna 17  giugno 2025 ore 16, 47 giovanni ghiselli 

 

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[1] Chi tra voi lettori fosse curioso di queste storie di amori con le finlandesi può trovarle nel mio romanzo Tre amori a Debrecen. Non dovete comprarlo: si trova in prestito nella biblioteca Ginzburg di Bologna.

Teocrazia e democrazia.


 

Oggi è di moda  dare a teocrazia il significato negativo di tirannide con prepotenza e ignoranza. La paola  significa potere religioso, potere attribuito a dio - qeov~ e kravto~.

Vero è che durante la prima epoca democristiana abbiamo subito limitazioni nel pensare e nell’agire da parte di questo tipo di regime, almeno dalla fine della guerra a tutto Pio XII. Con Papa Giovanni XXIII è inziato un cambiamento in meglio.

E oggi? Non credo che il sistema odierno il quale per sussistere ha bisogno di ignoranza, di povertà anche materiale di tanti cittadini, perfino di guerre, sia migliore della teocrazia democristiana. Questa poneva dei limiti è vero ma non credo che l’illimitatezza dei crimini degli Stati più forti, l’infinità della violenza anche privata e delle menzogne, la licenza assoluta data alla prepotenza, all’ignoranza e alla falsificazione siano cose migliori della religione pur troppo limitativa di allora.

Ho criticato molto quel regime passato. Oggi per alcuni versi lo rimpiango. Aldo Moro, uomo nobile e antico, l’aveva portato al punto più alto. Perciò l’hanno ammazzato.

Bologna 17 giugno 2025 ore 11, 55

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Traduzione e commento dei versi 117-137. Sofocle Edipo a Colono. Parodo.

Edipo a Colono. Parodo vv. 117-253 Coro di anziani

 

Traduzione e commento dei versi 117-137

 

117Guarda! Chi era dunque? Dove si trova?

dove si è cacciato fuori mano il più

insaziabile -ajkorevstato~- di tutti, di tutti? 119- 120

 

Questi vecchi coreuti rappresentano la diffidenza della gente senza razza, senza identità.

Vedono nel povero, nello sconosciuto straniero una minaccia alla loro vita da gregari.

Hanno bisogno di essere dirozzati.

Per ora incarnano un aspetto dell’eterna piccola borghesia che qui in Italia ha fatto il fascismo bastonando contadini e operai incarcerando o uccidendo  chi si batteva per i proletari.

Oggi certa gente vota per un governo che nega il salario minimo a chi guadagna 5 o 6 euro all’ora.

La chiaroveggenza di Edipo cieco di occhi, non di mente, e l’umanità e la signorilità di Teseo porteranno luce a questi abitanti del borgo dalla natura rigogliosa.

Teseo il re di Atene da gran signore qual è in questa tragedia, accoglierà fraternamente Edipo il collega decaduto a mendicante.

 

Nel romanzo Resurrezione di Toltoj, la bella e nobile ex prostituta e galeotta Katiuscia individua e ammira tra i prigioneri politici i giovani di famiglia ricca  deportati perché avevano preso le parti del popolo: “aveva capito che agivano per il popolo contro i signori; e il fatto che fossero essi stessi dei signori e avessero sacrificato i loro privilegi, la libertà e la vita per il popolo faceva sì che li apprezzasse particolarmente e ne fosse entusiasta” (III, 3).

Una categoria di belle persone quali Engels, Brecht e don Lorenzo Milani.

Sentiamo Bertolt Brecht a questo proposito:

“Io son cresciuto figlio

di benestanti. I miei genitori mi hanno

messo un colletto, e mi hanno educato

nelle abitudini di chi è servito

e istruito nell’arte di dare ordini. Però

quando fui adulto e mi guardai intorno

non mi piacque la gente della mia classe,

né dare ordini né essere servito.

E io lasciai la mia classe e feci lega

Con la gente del basso ceto

(…)

La bilancia della loro giustizia

la tiro giù e mostro

i falsi pesi. E le loro spie riferiscono

che siedo con i depredati quando

tramano la rivolta

(…)

Dove giungo, sono uno marcato a fuoco

per tutti i possidenti; ma i nullatenenti

leggono il mandato di cattura e

mi concedono un rifugio. Quelli, io sento

dire allora, per cacciarti avevano

buone ragioni”[1]

 

Quindi don Milani

“Ci ho messo venticinque anni a sortire dalla classe sociale che scrive e legge L’Espresso e Il Mondo. Non mi devo far ricattare nemmeno per un sol giorno. Mi devono snobbare, dire che sono un ingenuo e un demagogo, non mi devono onorare come uno di loro, perché non sono come loro” (Michele Gesualdi, Don Lorenzo Milani, L’esilio di Barbiana, Introduzione di Tomaso Montanari, p. 7) .

Queste parole mi hanno aiutato a “giustificare” le vessazioni subite da molti nell’Istituzione scolastica.

Avevano ragione: non ero e non sono come loro.

 

 

Torniamo ai coreuti diffidenti della Parodi dell’Edipo a Colono

121Fissalo bene, vedilo con chiarezza,

informati dappertutto. Vagabondo,

un vagabondo planavta~ è il vecchio, non

vagabondo è ripetuto con spregio e paura. E’ il timore del provincialismo e del conformismo dell’abitante dei borghi. Guai a chi è differente da noi è il suo pensiero fisso, dunque: “dagli al diverso!”  

125uno del luogo oujd  j e{gcwro~: infatti non si sarebbe accostato

 

Il vecchio Edipo è sospetto in quanto a[topo~, fuori luogo, insolito.

Nel dialogo Fedro di Platone Fedro dice a Socrate : “tu o mirabile Socrate, sembri un tipo stranissimo- ajtopwvtatov~ ti~ faivnh/ (230C)  in quanto pari un forestiero condotto da una guida, non uno del luogo. Tu non esci dalla città neppure per recarti fuori le mura- exw teivcou~- 230D.

Leopardi si sente:

“quasi romito e strano

Al mio loco natio” (Il passero solitario, 23-35) che è poi il “natio borgo selvaggio” (Le ricordanze 30) di Recanati

 

 126 all'inaccessibile bosco sacro a[lso~

Invero nel bosco sacro delle Eumenidi il re dell’anticittà Tebe decaduto a farmakov~ va a riconsacrasi re benefico per gi Ateniesi.

di queste vergini invincibili

che noi temiamo -trevmomen- di nominare

i coreuti temono tanto che tremano cfr, latino tremo

e passiamo oltre

129 senza guardare, ajdevrkto~:- devrkomai è un fissare con sguardo da serpente-dravkwn

‘senza tirar fuori la voce, voce  jafwvnw~  senza parlare  ajlovgw~. L’ aj-privativo torna tre volte.

i coreuti chiudono gli occhi strozzano la voce e bloccano la lingua e la mente davanti al mistero del sacro. Questo invece può aprire la mente e il cuore oltre l’ambito ristretto del razionale.      

131muovendo la bocca della mente che serba religioso silenzio eujfavmou.

Nella Parodo delle Baccanti di Euripide  il coro canta “stovma t  j eufhmon a[pa~ ejxosiouvsqw”. 70,

e ognuno consacri la bocca che serba religioso silenzio. In latino è favete linguis.

 Ma ora si dice che è giunto uno

che non ha nessun sacro timore oujde;n a{zonq j.

Nella Parodo dell’Edipo re i vecchi tebani pregano Apollo con sacro timore:

“intorno a te con sacro timore-ajzovmeno~- domando che cosa, o di nuovo

o con il volgere delle stagioni un'altra volta

effettuerai per me” (155- 157) .

135 un tale che io pur osservando per tutto il recinto

non posso ancora sapere

dove mai si trovi.

Il vagabondo si occulta, rimane latente e questo nascondersi  dello straniero accresce la diffidenza e il sospetto nei suoi confronti

Bologna 17 giugno 2025 ore 11, 32 giovanni ghiselli

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[1] Scacciato per buone ragioni in Poesie di Svendborg del 1939.

lunedì 16 giugno 2025

Ifigenia CLIX La gita scolastica. L’indomito titano. La zoppia eroica e culturale.

Il mese di marzo fu vario. Nell’ultima settimana c’era la gita scolastica a Roma e le nostre classi vennero abbinate forse per significare che dovevamo metterci nella grazia di Dio in quanto già di fatto accoppiati. I vescovi mandati nella Bologna rossa all’epoca erano reazionari e contavano molto nella città che era stata papalina.
C’erano anche altri colleghi: Giovanni Botta di Filosofia, e Lucia con i loro allievi.
Il giorno prima della partenza andai nella segreteria per firmare dei fogli. Mentre entravo, udii una collega anziana che gridava: “Nel nostro liceo succede l’inaudito! Davvero quel professore miscredente e libertino andrà in gita scolastica con due colleghe giovani e belle, come se non gliene bastasse una?”
Poi si voltò e mi vide. Quindi abbassata la voce ripeté la domanda un poco edulcorata: “sul serio lei andrà a Roma con quelle due signorine?”
“Sì e con tante altre signorine carine, diversi ragazzi carini anche loro, e il professor Botta, per niente da buttar via come sodale”.
Allora colei assunse il tono della celia e fece: “ Si dice che lei abbia venduto l’anima al diavolo, ma io non ci credo”.
“Fa bene, stimatissima collega: non posso vedere l’anima a chicchessia perché non ce l’ho!”
Rimase un attimo perplessa poi rincarò lo scherzo volgendolo al demenziale: “Vado a Roma, cuccurucù, vieni anche tu!”
“Facciamo finta di niente” pensai, e dissi:
“Ma sì venga anche lei, squisita collega: a Roma c’è da divertirsi un sacco!”.
Ora però basta con i ghiribizzi e veniamo alla gita.
Ricordo una visione che mi ha impressionato. Ero seduto con Ifigenia sul bordo di una fontana poco prima dell’ora di cena. S’era fatta una passeggiata per suscitare l’appetito e meritarci un secondo di pesce, senza patate né pane. Eravamo entrambi molto attenti alla linea, contenti e fieri di essere snelli.
Guardavamo le ultime luci del giorno languide eppure tiepide. L’aria era piena di voli e di suoni. La primavera arrivava a grandi passi.
A un tratto vedemmo il collega di filosofia che avanzava verso di noi. Questo era un uomo ancora giovane il quale camminava con passo di danza, non per vezzo o per posa ma per una menomazione congenita. Era un ottimo professore e gli volevamo bene. Giovanni dunque ogni tre metri si piegava a sinistra,  come se fosse stato colpito da un plotone di esecuzione - pronus erat Titan[1] - ma poi si raddrizzava di scatto con un’energia da vero titano, quindi procedeva nel suo travaglioso cammino. Fino alla successiva fucilazione. Era a modo suo un ballerino.
Prima che lui mi sentisse, dissi a Ifigenia che mi sembrava un eroe tragico in lotta con un destino implacabile eppure incapace di averla vita su quella tempra indomita.
Inoltre pensai che in quel momento la zoppia poteva rappresentare il nostro rapporto che vacillava scosso da vènti, da onde, da terremoti intermittenti e pure frequenti.
Quando Giovanni fu giunto, gli chiedemmo se voleva cenare con noi.  
Pensai chi i titani claudicanti non sono gli eterni nemici della cultura come quelli dalle gambe robuste. Del resto anche Edipo zoppicava e la nostra cultura non può prescindere dalla sua vicenda.
E pure Giasone si presentava con una leggera zoppia quando calzava un solo sandalo. Gran brutto segno per lo zio usurpatore Pelia[2].


Bologna 16 gennaio  2025 otre 21, 08 
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[1] Cfr. Ovidio, Metamorfosi, XI, 257
[2] Vediamo qualche parola della Pitica IV di Pindaro: Giasone appare splendidissimo in questa ode,  dedicata ad Arcesilao IV re di Cirene che aveva vinto con il carro a Delfi nella Pitiade XXXI,  nel 462 a. C. Giasone dunque giunse con due lance, suscitando meraviglia (ek-paglo~ , vv.  139-140), con una veste aderente, e i riccioli lucenti della chioma (koma'n plovkamoiajglaoiv, v. 145)  non erano caduti sotto il taglio del ferro, ma gli ondeggiavano lungo tutto il dorso. Egli arrivò con passo diritto e si piantò tra la folla che lo ammirava. Poi giunse Pelia su un carro e, quando vide l’unico calzare nel  piede destro del nuovo arrivato, stupì. Ne ebbe paura poiché l’oracolo delfico gli aveva predetto di stare bene in guardia dall’uomo con un solo calzare (to;n monokrhvpida, v. 75).

Ifigenia CLVIII Tess: film di Polanski e romanzo di Thomas Hardy presenti nelle nostre vite. Un'appendice sull'esame di maturità

Qualche giorno più avanti nel corso di questa fuga del tempo andammo a vedere Tess, un bel film di Polanski tratto dal romanzo di Thomas Hardy Tess of the d'Urbervilles (1891). Cinema e letteratura si potenziano a vicenda nella mia persona che ne viene accresciuta in temini estetici e morali.
A un certo punto il ragazzo studioso Angel aiuta quattro ragazze a superare una pozzanghera ma è evidente che è attratto da una sola di queste.
Quando è la volta di prendere in braccio l’amata, l’innamorato mormora: “Tre Lie per ottenere una Rachele” Three Lehas to get one Rachel ” (Tess, III, XXIII).
Io, quasi senza volerlo, sussurrai: “Fa tutto soltanto per Tess”.
Ifigenia, non a torto, prese queste parole come una confessione del mio interesse preponderante per  la nuova supplente e si mise a piangere.
Poi disse: “la nostra storia finisce oggi com’è cominciata: citando Tess. Uno dei primi giorni mi prendesti una mano e mi accarezzasti le dita, poi mi domandasti: “quali sono le mie e quali le tue?” Ti risposi: “sono tutte tue, they are all yours” (Tess, IV, 33).
Confesso che era una scena del mio repertorio amoroso imparata dal romanzo di Hardy, impiegata con almeno una delle finlandesi e insegnata a Ifigenia. Faceva effetto sulle donne corteggiate.
“Tu allora mi dicesti che io ero la tua borsa di studio più bella e la più preziosa di tutte”.
“Sei ancora il grande premio della mia vita[1]”, le risposi in fretta. Volevo vedere il film in pace e rimandai le spiegazioni all’uscita dal cinema. Come fuori dal cinema, decisi che era necessario un chiarimento e la invitai a casa mia. Non ci stendemmo nel grande letto però, né sul divano dello studio come si faceva quando ci amavamo e volevamo fare l’amore. Allora non c’era bisogno di spiegazioni. La voglia di fare prevaleva su quella di parlare. La potenza della prassi superava quella del logos quale parola e pensiero.
Ifigenia aveva il viso ancora segnato dal pianto e mi piaceva di nuovo: pensavo che si era tolta la maschera inespressiva applicata al volto per non farmi vedere i sentimenti e le intenzioni occulte.
Come fummo seduti, disse che dovevo chiarirle se la amavo ancora, se credevo di poter ricevere altri stimoli buoni da lei, o se avessi bisogno di un’altra donna per fare le cose egregie che dovevo a me stesso. Le sembrava che avessi voluto significarle questo secondo corno del suo doloroso dilemma durante il film.
I suoi occhi avevano un’espressione infelice ed era autentica come non la vedevo da tempo: deposta l’aria da mima che la rendeva falsa, volgare e poco attraente, Ifigenia appariva bella.
Mi venne in mente che avremmo potuto ancora aiutarci a vicenda.
Lo dovevo a lei e anche a me stesso. Se l’avessi perduta, avrei subito una degradazione della mia identità, una regressione a tempi lontani e poco belli. Sicché iniziai a parlarle umanamente e amorosamente, come non facevo da tempo.
Feci un rapido calcolo dei vantaggi e delle perdite di entrambi, poi dissi: “No, non lasciarmi: io ho aspettato te per tanti anni e ti amo. Tutto quanto faccio di buono è motivato da te: quando studio cerco argomenti da sviluppare parlando con te, quando corro, penso che il fisico mio deve essere al suo meglio per non essere del tutto indegno del tuo; nell’espormi al sole tento di raccogliere luce sul volto e colore nel corpo perché il divario tra i nostri aspetti non diventi stridente e faccia scalpore. Per venire alla scena del film che ti ha fatto piangere, certamente mi adopero parecchio per piacere anche ad altre persone: gli allievi e pure alcuni colleghi: voglio mantenere alta la mia reputazione di ottimo professore poiché devo tornare a insegnare letteratura al triennio. Anzi, con il tempo voglio entrare all’Università. Se rimarrò troppo a lungo nel ginnasio, una palestra di grammatica più che altro, perderò le competenze e le capacità acquisite in tre anni di studio appassionato e indefesso che ho intrapreso per tradurre con precisione e commentare con intelligenza sapiente i testi degli autori ottimi, i più eleganti e più educativi. E’ Il lavoro che ha attirato tante persone, te compresa, mentre ha creato invidia in altre. Non vorrei che la pena subentrasse all’invidia. Devo tornare presto al liceo, poi avanzare ancora. Anche nell’Università da studente ho incontrato docenti che davano poco o niente ai discenti. Con la forza e la passione che metto nello studio posso educare tanti giovani desiderosi e capaci di imparare. E vorrei anche arrivare a scrivere dopo avere studiato altri testi buoni e acquisito uno stile mio. Tu potrai aiutarmi in questo, se vorrai seguitare a essere la mia Musa”.
Ifigenia sentì e capì che parlavo sul serio: sorrise, mi prese la mano destra e disse: “gianni: io adesso sono molto felice”.
“Anche io, grazie a te”, replicai contraccambiano.
Mi venne in mente l’alba di un agosto lontano, quando mi scusai con Helena dopo avere capito che le stavo facendo del male, e pure lei tornò a sorridermi dopo le lacrime.
 
Bologna 6 gennaio  2025 giovanni ghiselli ore 17, 37
 
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Breve appendice: il prossimo esame di maturità
Leggo tante banalità su consigli dati ai maturandi per quanto riguarda lo scritto di italiano. Ho fatto la maturità una volta da studente nel 1963 al Mamiani di Pesaro e almeno venti volte da esaminatore.
Ho trovato ragazzi preparati molto bene al Parini, al Beccarla di Milano e al Virgilio di Roma. Comunque ho sempre imparato qualcosa dai maturandi. Sapevo ascoltarli.
Non lesinate l’ascolto a chi vi interroga: è il primo segno dell’educazione. Quindi rispondete al nucleo della domanda.
Se non conoscete l’argomento, non raffazzonate: farete migliore figura confessando di non conoscerlo e chiedendo la cortesia di un altro quesito.
Consiglio agli studenti di mettersi  nei panni di chi legge o ascolta. Quindi dovete cercare di essere chiari e ordinati prima di tutto. Respingete l’attuale moda dell’oscurità nel parlare e nello scrivere. La chiarezza tuttavia non deve arrivare all’ovvietà, alla ripetizione mnemonica del luogo comune.
Cercate di essere eleganti e magari originali, genialmente originali. Mostrate anche la competenza letteraria acquisita con lo studio attraverso le citazioni di parole belle di autori bravi. Queste colpiscono la sfera motiva degli esaminatori e li dispongono bene verso il candidato.
Evitate gli stereotipi delle propagande e della pubblicità.
Date prova di un certo spirito critico, capace di dare giudizi su quanto vi hanno fatto studiare, su come vi hanno fatto studiare.
Vi ho segnalato quanto mi è servito nella vita, non solo in quella scolastica.
Se me lo chiederete, tornerò sull’argomento. 
 
 
 


[1] The great prize of my life nel romanzo di Hardy (Iv, 34)  

Edipo a Colono 111-116. Ultimi versi del Prologo


Antigone

111 Taci sivga. Si avvicinano infatti qui alcuni uomini

Edipo re di Tebe parlava molto. Ora da vecchio esule ha imparato ad ascoltare in silenzio: gliel’hanno insegnato il dolore e la cecità. Glielo raccomanda Antigonr-

 112 attempati antichi crovnw/ palaioiv, osservatori della tua seduta.

Il tempo crovno~ trasforma  in rovine uomini e monumenti

Alla fine di The Waste Land [1] Eliot afferma:"These fragments I have

 shored against my ruins" (v. 430), con questi frammenti ho puntellato

le mie rovine.

Le quali non significano solo decadenza: "Le rovine sono la cosa più viva della storia, perché vive storicamente soltanto ciò che è sopravvissuto alla sua distruzione, ciò che è rimasto sotto forma di rovine"[2].  Secondo Salvatore Settis nella nostra civiltà domina "il pathos delle rovine, di una frattura irreparabile che è necessario sanare: rinascere, insomma, come condizione indispensabile della tradizione e della memoria"[3].

Edipo

113Tacerò -sighvsomai- e tu nascondi il mio piede-povda-

Il termine pouv~ -podov~ piede è contento nel nome Oijdivpou~,  i genitori quando nacque gli fecero forare le caviglie e i piedi che si gonfiarono: oijdevw sono gonfio.

Edipo è docile con la figlia: ne ha bisogno e la ama riamato. Anche l’amore ci insegna l’ascolto

L’educazione ci raccomanda di ascoltare.

Sentiamo Stobeo[4] che riferisce parole di Zenone Stoico:” A uno che voleva chiacchierare (lalei`n) più che ascoltare, disse: “ragazzo, la natura ci ha dotato di una sola lingua e di due orecchie, perché ascoltassimo il doppio di quel che diciamo”.

Una nobile semplicità si trova in Anna Karenina  del conte Tolstoj:" Levin riconobbe le maniere piacevoli della donna del gran mondo, sempre calma e naturale… Non soltanto Anna parlava con naturalezza e intelligenza, ma con un'intelligenza noncurante, senza attribuire alcun pregio ai propri pensieri e attribuendo invece gran pregio ai pensieri dell'interlocutore"[5] .

114 fuori dalla strada nel bosco-kat ja[lso~-, finché io abbia saputo da loro

La sacralità del bosco delle Eumenidi offre un rifugio e una possibilità di maggiore attenzione rispetto alla strada frequentata. Non essere visto del resto lascia maggiore libertà di parola a chi viene ascoltato.

 

115 quali discorsi faranno. Infatti nell'imparare ejn tw`/ maqei`n

Imparare è una parola chiave nelle tragedie, come nell’Odissea.

L’eroe dell’apprendimento è Odisseo preso come modello da Lucio l’uomo-asino di Apuleio

116 c'è accortezza huJlavbeia delle cose che si fanno. - eujlabhv~ è la persona cauta che non si getta nelle cose o sulle persone. un difetto del primo Edipo.

Fine del prologo

Bologna 16 giugno 2025 ore 12, 03 giovanni ghiselli

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[1] La terra desolata,  del 1922.

[2] M. Zambrano, L'uomo e il divino, p. 228.

[3] Salvatore Settis, Futuro del 'classico', p. 91.

[4] Giovanni di Stobi (Macedonia) V sec. d. C.  Ha composto un’Antologia fatta di citazioni.

[5] Anna Karenina (1873-1877), trad. it. Milano, 1965, pp 703 e 704.

registrazione video: 'Classici a confronto: Omero e Joyce, parte II'

Ecco la registrazione della conferenza del 9 Giugno 2025.
La I parte non so se è stata registrata

Classici a confronto: Omero e Joyce, parte II

Ifigenia CLVII L’attore famoso. Mastice e masticione. Amici viventi e amici celesti.

In marzo arrivò al Duse l’attore famoso che un anno e tre mesi più tardi mi avrebbe cambiato la vita.
Non ne rivelerò mai il nome.
Di lui, tempo prima, Ifigenia aveva detto che, se fosse venuto a recitare a Bologna, sarebbe andata a cercarlo nel suo camerino o nel suo albergo per chiedergli di fare l’amore.
Poi si era corretta aggiungendo che l’avrebbe fatto se fosse stata libera. “Sei libera” replicai, però ero stato ferito e umiliato da tanta improntitudine. Sapevo che era tipa da farlo davvero. Ho sempre presofferto tutto al punto di farci il callo. Anche pregoduto e pregioito diversi piaceri a dire il vero. Avrei constatato che le perdite prima o poi vengono compensate dall’acquisto di beni migliori.
 
Andammo dunque a vedere il grande gradasso che con il solito stile da histrio gloriosus tuonava dal palcoscenico e si sbracciava come un gigante centimane. Recitava sempre se stesso.
Assistevamo muti alla girandola dei gesti titanici e delle grida stentoree tipiche di questo guitto già non poco attempato ma ben tenuto insieme e sempre voglioso di fare colpo sul pubblico. Bombardava e affascinava il teatro gremito. Era un pessimo attore monocorde, ma comunque un bel vecchio e un uomo di successo.
Ifigenia si scioglieva dalla commozione e alla fine dello spettacolo volle rimanere nel corro degli osannatori finché si spensero tutte le voci e le luci.
Tale attenzione ovviamente non mi sfuggì e non potei non pensare che se non fossi stato presente sarebbe andata a cercarlo. Non era un pensiero assurdo. Etiam male sentire haud absurdum est.
La domenica successiva ero a Pesaro dalle pie donne di casa, e Ifigenia tornò al Duse per vedere un’altra volta lo strepitoso strepitante. Dopo lo spettacolo andò a omaggiarlo dietro le quinte, poi mi raccontò di averlo trovato avvolto in un nembo satanico mentre beveva vino e sfotteva pesantemente alcune sue ammiratrici che gli scodinzolavano intorno.
“Una gran delusione!”, concluse. Pensai che l’illusione caduta fosse quella di potere contattarlo da sola e ottenere il massimo da lui.
Quell’uomo di successo indubbiamente le piaceva, ma lo aveva messo nel mirino non solo per trarne piacere appunto, bensì e innanzitutto per usarlo come aveva fatto e stava ancora facendo con me. L’amore entrava nei suoi piani molto meno dell’uso. Gli amanti suoi dopo qualche tempo diventavano cose da buttare via quando non servivano più.
Ma gli uomini e le donne non sono cose e non si possono trattare senza amore. Allora non lo avevo già capito
 Sapevo però che le cose più temute avvengono sempre.  
Il mastice che ci teneva ancora uniti era oramai soltanto la gelosia scortata da altre emozioni cattive.
Mi venne in mente il masticione rosso con cui mi impiastricciai fino ai capelli per cambiare un tubolare nella tappa Corinto-Epidauro dell’agosto 1978. Andavo a cercare un ricovero in uno degli alberghetti vicini al teatro.
 
Bologna 16 giugno gennaio 2025 ore 10, 26 giovanni ghiselli.
 
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Ho superato il milione e 750 mila. Sono più vicino ai 2 milioni che a un milione e mezzo. Scrivere gratis e interessare, educare tanti lettori, è l’impiego del mio tempo che mi soddisfa di più.
I rapporti strumentali non li sopporto oramai. Perciò passo gran parte del tempo da solo leggendo, scrivendo, pedalando la bicicletta. So bene del resto che questo non soddisfa una vita umana. Infatti fatico a prendere sonno. Comunque scrivo e  spero di migliorare le persone che mi leggono. Auspico altrettanto con le conferenze che faccio. Dal prossimo settembre al giugno 2026 ne terrò una al mese nella biblioteca Ginzburg di Bologna sui massimi autori di fine Ottocento e del Novecento fino a Kafka, Pirandello e Musil. Poi verranno altre conferenze probabilmente. Questa è la mia socializzazione.
Dal 10 al 25 luglio sarò in Grecia con Maddalena e Alessandro tra i pochissimi amici superstiti anche perché sono stati miei allievi e hanno 27 anni meno di me. Quasi tutti gli altri sono amici celesti.
 

 

Ifigenia CLVI. La fantesca seduttiva e l’attesa del treno alla stazione di Trento. L’insufficienza di tutto.

Sabato primo marzo Ifigenia volle venirmi incontro sulla via del mio ritorno alla stazione di Tento. Saremmo passati per il lago di Garda. Volevamo vedere la venusta Sirmio di Catullo e trarne auspici per le nostre vite, amorose e lavorative piuttosto travagliate.
Doveva arrivare alle 13 e qualche minuto. Era una giornata piena di sole potenziato dalla neve sui monti. Partii da Moena alle undici con il disappunto di perdere le ore più luminose e calde per andare da una che che non mi convinceva, né mi piaceva del tutto. Cercavo di consolarmi pensando: magari la primavera l’ha fatta rifiorire, e  vederla e toccarla dopo una settimana di pausa mi emozionerà.
Arrivai prima del treno come avevo calcolato per non farla aspettare.
Detesto fare aspettare perché i ritardi mi hanno sempre reso infelice.
Mi aspettavo che dal contatto rinnovato dopo il divorzio pur breve rinascesse qualche scintilla. Speravo che quella sera si sarebbe fatto del sesso abbondante se non altro.
Vero è che c’era stato un segno non buono riguardo al mio interesse carnale per Ifigenia. Una sera, tornato tardi dalla passeggiata sotto le stelle avevo trovato chiusa la porta dell’albergo. Sicché avevo suonato ed era venuta ad aprirmi una cameriera giovane, mora, carina, con la vestaglia aperta tanto da lasciare scoperte le cosce brune, agili, sode, fino alle mutande: una visione meravigliosa, paradisiaca quasi quanto quella del cielo stellato.
Ebbene l’avevo osservata con attenzione e simpatia non dissimulate, poi le avevo detto: “grazie signorina e complimenti” .
“Di che?”
“Di tutto. A domani”
Poi, salito in camera, l’avevo pensata con desiderio.
Un fatto nuovo che un anno prima non sarebbe accaduto.
Ero stato tentato di accarezzare almeno su una guancia la seduttiva fantesca.
Il giorno dopo provai a lanciarle un’occasione di fare del bene a me e a se stessa. Mentre bevevo il caffè nel bar dove serviva quella ragazza incantevole l’avevo indotta a chiedermi l’indirizzo di Bologna decantando le meraviglie della città. Quindi, da gesuita quale talora mi ritrovo a essere, ammaestrato dalle zie, le avevo dato il recapito della scuola per non sentirmi fedifrago. Tanto, anche se fosse venuta a cercarmi là, avrei trovato il modo di ghermirla, sognavo e speravo.
Intanto però aspettavo nella stazione di Trento. 
Un luogo triste. Si trova alla base di una collina bassa e spelacchiata, tuttavia causa di ombre umide e cupe. Sopra vi sorge e si impone alla vista un tempietto neoclassico  circolare e colonnato, un monumento all’irredentismo fautore di guerre e di stragi. Quando il treno arrivò, Ifigenia non ne scese: o l’aveva perduto oppure stava procedendo verso il Brennero per assecondare un ferroviere cuccettista che l’aveva attirata.
Il treno successivo da Bologna arrivava alle cinque. Mi vennero in mente gli appuntamenti mancati da mia madre. Quando ero bambino e l’amavo al di sopra di ogni altra donna, avvisava che sarebbe arrivata il tal giorno con il tal treno. Il nonno Carlino, “il su’ babbo”, mi portava alla stazione: eravamo entrambi felici di vederla. Però tra quelli che scendevano dal treno la madre mia non c’era.
Quando tornavamo a casa il nonno gridava “fiasco!” probabilmente perché gli piaceva il vino. Io rimanevo sconsolato e desolato. Le zie dicevano: "che ti importa? Noi siamo qui”. Ma per me non era lo stesso: la mamma era più giovane, più bella e meno imperiosa di loro, meno severa con me. Con se stessa per niente. Una volta Ifigenia mi disse che ero attirato dalle donne giovani siccome mia madre era infantile. Un’osservazione non sciocca.
La mamma quando gliela riferii rispose: “ma fai stare zitta quella vera fallita!” Eva contro Eva, pensai, ricordando un bellissimo film che la mamma mi aveva portato a vedere quando ero piccino.
Nel marzo del 1980 avevo trentacinque anni suonati e non ero più disposto a subire maltrattamenti da chicchessia. Dunque decisi di andare a sciare sulla vicina Paganella. Sarei tornato al treno successivo e se non fosse arrivata nemmeno con quello, tanti saluti! Sarei andato subito a Bologna e avrei telefonato alla fantesca dalle cosce stupefacenti.
  
Poco prima delle 17 ero di nuovo alla stazione di Trento. La attendevo per accoglierla, posto che fosse arrivata, con un sorriso non privo di spregio.
Questa volta arrivò, bella e guardata dagli uomini, come al solito. “Però, non è il mio tipo pensai”. Bella sì, ma poco fine. Helena, Kaisa e Päivi erano altre persone, altri gevnh, razze spirituali diverse: studiose, educate, capaci di amare, di parlare e di stare zitte:  amorem amoenitatemque  exercentes [1].
Si scusò dell’errore grossolano: il treno per venire da me partiva dalla stazione occidentale mentre lei lo aspettava in quella centrale.
Ma forse era una menzogna. Aggiunse delle falsità dolciastre.
 
Avevo imparato da Freud che gli atti mancati non sono mai casuali. Ne ero convinto perché l’avevo verificato vivendo. Probabilmente colei voleva andare da tutt’altra parte. Incosciamente si dice, e di fatto il suo Io veniva spesso invaso dall’Es. Né era propensa a bonificare il pantano dell’inconscio, a estendervi la parte cosciente poiché era convinta che l’attore bravo deve assecondare l’istinto.
Quello recitativo non le mancava, però non aveva la potenza espressiva dello sguardo e del tono di tutta la persona.
 
Di questo però non facemmo parola, quel giorno. Dissi invece che avevo impiegato benissimo il tempo dell’attesa andando a fare un’altra sciata a Fai della Paganella dove iniziano piste meravigliose che giungono fino ad Andalo. Ifigenia raccontò che aveva parlato con Lucia denominata “la fedelissima”.  Non sapevo di che avessero chiacchierato, né glielo domandai. Provai comunque un’allegrezza scellerata pensando che quelle due, una già avvelenata dal desiderio di successo, l’altra ancora da scoprire, solidarizzavano sotto l’immagine della mia persona, celebrata in qualche modo da entrambe. Ma probabilmente avevano fatto solo del pettegolezzo comaresco, magari non senza intrighi.
Di fatto nessuna delle due studiava sul serio e volevano fruire dei miei lavori sudati sui libri, fino a quando sarebbe servito.
Ifigenia poi disse che a Verona era salito sul treno un uomo distinto e l’aveva corteggiata fino a chiederle l’indirizzo: invano. Non feci alcun commento e pensai: “Troppo tardi, ojyev, come dice Dioniso a Cadmo[2]: quando occorreva, tu non hai voluto sapere di riservatezza e rispetto”.
Ci fermammo sul lago di Garda. Non c’era un filo di vento e il Benaco non sorgeva con flutti e fremiti marini come favoleggia Virgilio[3].
Non era tempo di favole: fremevo di sdegno e disgusto piuttosto.
La faccia di Ifigenia era ottusa e inespressiva. Ero certo che il suo fascino non fosse sufficiente per sostenere la sua ambizione.
Arrivati a Bologna tentammo un contatto carnale. Come fummo nel letto però, non riuscivo nemmeno a desiderarla con forza. Quella sera lontana, nel talamo grande dove avevamo gridato di piacere e di gioia, nel giaciglio martire cui una volta si era spezzata una gamba incapace di reggeri i nostri tripudi festosi e sacri, la sera del primo marzo, dopo una settimana di astinenza, facemmo l’amore una volta sola senza fatica, mentre la seconda avvenne con stento e con sforzo. Dovetti pensare ad altro. Non eravamo arrivati nemmeno alla sufficienza. Spensi la luce. Mi girai verso il muro. Poi lo toccai con un dito per avere la certezza di essere ancora vivo . Ifigenia  piangeva.

 
Bologna 16 giugno 2025 ore  9, 50 giovanni ghiselli
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[1] Cfr. Plauto, Miles gloriosus, 656, in grado di praticare l’amore e la piacevolezza.
[2] Cfr. Euripide, Baccanti, 1345
[3] Cfr. Virgilio, Georgica II, 160