273 Ordunque sono giunto dove sono giunto senza nulla sapere,
Edipo non sapeva che il vecchio incontrato all’incrocio e che l’aveva colpito suscitando la propria reazione violenta era suo padre, né che Giocasta era sua madre. Dunque non è stato un parricida né un incestuoso cosciente nel compiere tali misfatti che Aristotele chiama errori.
Nella Poetica il filosofo chiarisce che il protagonista della tragedia non può essere un perfetto malvagio, se deve suscitare pietà, invece di soddisfazione, né può essere una persona ottima quella che finisce in rovina, poiché in questo caso provocherebbe ripugnanza.
Insomma il personaggio tragico deve soffrire per un errore (di j aJmartivan tinav, Poetica, 1453a, 10) un difetto intellettuale più che morale, piuttosto che un crimine voluto, un misfatto compiuto senza saperlo, come quello di Edipo che ha ucciso il padre e sposato la madre senza sapere che erano i suoi genitori ; inoltre è necessario che questo disgraziato, e delinquente per sbaglio, non sia troppo lontano dalla medietà: poiché la pietà è per chi non si merita i tormenti, il terrore per chi ci somiglia (e[leo~ me;n peri; to;n ajnavxion, fovbo~ de; peri; to;n o{moion, 1453a, 5).
“Nella Retorica Aristotele colloca l’aJmartiva a metà strada tra sfortuna (ajtuvchma) e ingiustizia (ajdivkhma): l’aJmavrthma presuppone un atto volontario ma senza malvagità (mh; ajpo; ponhriva~), Rhet. 1374b”[1].
274 mentre subivo da quelli che sapevano e venivo mandato in rovina.
Laio e Giocasta avevano decretato la morte del figlio infante per sfuggire al destino: Laio era stato avvisato dall’oracolo di non generare un figlio che l’avrebbe ucciso, ma una sera da ubriaco aveva ingravidato Giocasta e il destino si è compiuto perché Edipo fu salvato dalla pietà di due pastori.
Nelle Fenicie di Euripide, Giocasta racconta che Laio andò a Delfi pregando di avere figli maschi e il dio rispose: “mh; spei're tevknwn a[loka daimovnwn biva/ (18), non seminare il solco dei figli con violenza degli dèi
Nel secondo stasimo dei Sette a Tebe di Eschilo il Coro ricorda gli antichi mali, ossia l’antica trasgressione palaigenh' ga;r levgw parbasivan 742) dalla rapida pena che arriva fino alla terza generazione (Eteocle e Polinice)
Febo dal pitico ombelico aveva detto a Laio: salverai la città se morrai senza prole, ma Laio vinto dalla dissennatezza, generò il proprio destino di morte: Edipo parricida, quello che poi ha osò seminare il sacro solco della madre o{ς te matro;ς aJgna;n speivraς a[rouran (754) dove fu nutrito, radice insanguinata. Pazzia unì gli sposi dementi (757)
275 Per queste ragioni io prego voi ospiti, in nome degli dèi
276 come mi avete pure fatto alzare, così salvatemi,
277 e non avvenga che, onorando gli dèi, poi
278 non li teniate in nessun conto; pensate piuttosto
279 che essi volgono lo sguardo a chi è pio to;n eujsebh`- tra i mortali
280 e volgono lo sguardo pure agli empi- tou;~ dussebei`~-, e che non c’è mai
281 scampo di un uomo che sia sacrilego-ajnosivou- tra i mortali.
Il criterio della discriminazione tra i mortali da parte degli dèi e pure di Sofocle quello che distingue gli empi dai pii.
Oggi il criterio è sta nel denaro posseduto. Un fatto già rilevato nel Satyricon da Trimalchione: “assem habeas, assem valeas (77), hai un soldo, vali un soldo
Più avanti il vecchio poeta Eumolpo ribadisce questo fatto denunciandolo :"noli ergo mirari, si pictura defecit, cum omnibus diis hominibusque formosior videatur massa auri quam quicquid Apelles Phidiasque, Graeculi delirantes, fecerunt" (88, 10), non ti meravigliare dunque se la pittura è morta, quando a tutti gli dèi e gli uomini sembra più bello un mucchio d'oro che tutti i capolavori creati da Fidia e Apelle, Grechetti farneticanti.
Quando il denaro vale più della bellezza non muore solo la pittura ma un’intera civiltà.
La pietas dunque- eujsevbeia- ojsiva stabilisce una graduatoria tra i mortali giudicati dagli dèi.
Anche Virgilio valuta postivamente la pietas che tuttavia attribuisce a Enea nonostante la sua spietatezza con Didone. Del resto gli era stato ordinato da Mercurio: il galoppino, il coriere di Giove (così lo chiama Prometeo: “Dio;~ trovcin, Eschilo, Prometeo incatenato, 941) gli appare in sogno nel IV canto dell’Eneide e gli dice che Didone è risoluta a morire ("certa mori ", v. 564), ma questo non ha importanza né per l'uomo né per il dio. La regina cartaginese infatti rivolge nel petto inganni e una sinistra scelleratezza :"illa dolos dirumque nefas in pectore versat "(v. 563). L'allitterazione in dolos dirumque sottolinea entrambe le colpe della disgraziata. Qui si vede che mentre il sogno, ossia il desiderio camuffato, suggerisce l'inganno e il misfatto, esso trova anche il modo di discolpare il dormiente, proiettando sull’amante tutto il male che proprio Enea invece è già preparato a perpetrare contro di lei.
Bisogna solo evitare di essere danneggiati dalla femmina "varium et mutabile semper " ( v. 569) cosa variabile e mutevole sempre avverte l’immagine onirica che raffigura Mercurio.
Petrarca echeggia questa communis opinio nel Sonetto CXLVIII:"Femina è cosa mobil per natura;/ond'io so ben ch'un amoroso stato/in cor di donna picciol tempo dura" (Il Canzoniere, CLXXXIII). Nell'Aminta di Torquato Tasso, Tirsi dice al protagonista della favola pastorale[2]:"in breve spazio/s'adira e in breve spazio anco si placa/Femina, cosa mobil per natura" (I, 2).
Lo stesso luogo comune troviamo nel Rigoletto di Verdi-Piave: "la donna è mobile/qual piuma al vento,/muta d'accento/e di pensiero./Sempre un amabile/leggiadro viso,/in pianto o in riso,/è menzognero./E' sempre misero/chi a lei s'affida,/chi le confida,/mal cauto il core!/Pur mai non sentesi/felice appieno/chi su quel seno,/non liba amore! (III, 2).
Bologna 24 giugno 2025 ore 18, 43 giovanni ghiselli
p. s.
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