mercoledì 18 giugno 2025

Ifigenia CLXIII. La tappa del Giro d’Italia sullo Stelvio, la corsa e Lucia. Donne concave e donne convesse.

Dopo l’ultima ora dell’ultimo giorno di scuola, dovevo andare in una pizzeria per incontrare i miei allievi e quelli di Lucia con la sua classe. Ifigenia era altrove. Non insegnava più. Puntava sul teatro.
Passeggiavo nel centro di Bologna, la città che mi aveva dato dolori grandi e pure gioie non piccole da quando ci ero arrivato da matricola, desolato, male alloggiato, carente di identità, nell’ottobre del 1963.
Le strade erano rallegrate da adolescenti che festeggiavano la liberazione. Mi comunicavano la loro contentezza. La prospettiva dell’estate con il tempo libero per lo studio, l’abbronzatura e lo sport rendeva allegro anche me. Erano finiti i consigli di classe, i collegi dei docenti e altre noie del genere.  Tempo sottratto allo studio senza alcuna contropartita. Perdita di tempo senza alcun profitto.
Quel pomeriggio il Giro d’italia avrebbe affrontato lo Stelvio: su per l’attorcigliata salita dovevano contendersi il primato Hinault e Battaglin di Marostica al quale i miei alunni della limitrofa Carmignano avevano detto che il loro professore di lettere era capace di batterlo in salita. L’atleta rispose che dovevo “almanco” provarci. Allora mi diedi ad allenarmi su per i tornanti del monte Grappa partendo da Romano di Ezzelino dove il caro Danilo mi incoraggiava con ebbro ottimismo.
La sfida non si realizzò perché Battaglin doveva fronteggiare avversari ben più degni, davvero competitivi.
Mangiata la pizza dunque, mi stavo muovendo per andare a vedere l’agone ciclistico trasmesso dalla televisione. Mi interessava molto perché avevo i miei tempi da confrontare con quelli dei campioni: 1 ora e 45 da Bormio al passo dello Stelvio; 1 ora e 58 da Prato alla cima della salita. Tempi non lontani da quelli di alcuni professionisti, non i più egregi  nelle salite invero. Moser, per esempio. Ma quelli erano tutti più giovani di me e non facevano altro nella vita. Coppi, il mio idolo ciclistico, quando aveva la mia età di allora, sui trentacinque anni, diceva: “Sento che perdo potenza”.
Vinse l’ultimo giro d’itala nel 1953 a 34 anni non ancora compiuti. Avevo oramai anche io un’età decadente, per un ciclista.
Salutai gli allievi e domandai se volevano venire a correre verso sera. Risposero che faceva troppo caldo per loro.
Mi venne in mente che i ragazzini di Carmignano mi apostrofavano con “marochin!” quando li facevo arrabbiare. Ero molto più scuro di tutti in effetti. Fin da bambino ho raccolto con il mio corpo i raggi del sole più che ho potuto. La mamma, che teneva molto all’aspetto, vanesia qual era, mi aveva insegnato che l’abbronzatura è la cosmesi migliore. Abbronzatura e ginnastica.
Non mi costava fatica perché il sole mi piaceva, lo amavo. E pure la bicicletta e la corsa.
Mentre andavo a recuperare la bici, mi raggiunse Lucia dicendo che lei sarebbe venuta al campo sportivo Baumann per vedermi correre. Le avevo detto di questa mia abitudine perché sapesse che ero uno studioso serio sì, ma non un umbraticus doctor.
Trattenni l’emozione e dissi: “Bene, ti aspetto verso le otto”
“Ti prego - fece lei allora - facciamo le sette: alle 8 e mezzo mi attendono casa”.
“Chissà chi è che le fa fretta” mi domandai, mentre la vana emozione si raffreddava.
Quindi citai due versi di Dante per spiazzarla:
 “Già non attendere’ io tua dimanda
S’io m’intuassi, come tu t’immii”[1]
La ragazza si aspettava una spiegazione ma io ero troppo indispettito, sicché conclusi
“Alle sei e cinquanta sarò al Baumann” perché se ne andasse.
Temevo di non poter seguire la tappa del giro. In fondo quell’agone mi stava a cuore non meno di Lucia.
Come vedete, uno con il carattere come il mio fa molto bene a non cercare una moglie. Farebbe l’infelicità di entrambi. L’assoluta indipendenza si paga con la solitudine. Il giusto prezzo per un bene tanto grande.
Comunque volevo sfruttare l’occasione di rinnovamento che la graziosa collega, spesso desiderata, mi offriva. Nelle ultime ore Ifigenia mi aveva annoiato assai.

Una nota
Tornai a casa contento. Potevo dare un nuovo stimolo alla mia vita con un’altra collega e amante. “La mia lista deve aumentare oggi stesso”, pensavo pedalando scaldato dall’aria di giugno e dal fervore interno. Poi però mi domandai “Non impenderà sul mio capo la spada di Damocle di nozze funeste?”
Invece di rispondere mi diedi a cantare un duetto che ricordavo da Le nozze di Figaro:

“Crudel! Perché finora
farmi languir così?”
“Signor, la donna ogn'ora
tempo ha di dir di sì”
“Dunque al Baumann verrai?”
“Se piace a voi, verrò”
“E non mi mancherai?”
“No, non vi mancherò”
“Verrai?”
“Sì”
“Non mancherai?”
“No”
“Dunque verrai?”
“No!”
“No?”
“Se piace a voi verrò”
“Mi sento dal contento
pieno di gioia il cor”
 
Il cuore era contento ma il mio ceffo agitato accusava dei dubbi.
Alle 18 e 45 ero già al campo sportivo. Il sole era ancora al di sopra degli alberi posti sul lato ovest del Baumann sicché nell’attesa della bella potevo abbronzarmi. Mi tolsi la maglietta e rimasi in calzoncini e scarpe da corsa. Quasi come Lady Chatterly che fugge inseguita da Mellors. I due sono nudi, ma lei dopo essersi spogliata si era messa di nuovo le scarpe di gomma. Non era dunque una ninfa, ma una donna svestita
Io quella sera  non ero non un satiro nudo, eccitato, ma un narcisista poco vestito.
Pensavo: “Le gambe mie sono di ossatura sottile e muscolatura potente: un fisico fatto per correre i 5000 metri, scalare lo Stelvio e amare le donne”, mi compiacqui.
Hinault quel giorno aveva stracciato Battaglin. Alle 19 e 15 la graziosa non era arrivata. “Scorretta però, la deliziosa onestissima signorina” pensai.
“Ora corro i 5000 che devo a me stesso,  poi vado a cercare Ifigenia”. Lucia era in ritardo, dopo che mi aveva chiesto di anticipare l’ora da me proposta.
Mi venne un dubbio: “Che sia peggiore di quell’altra? Il tempo rivelerà qual è la meno noiosa. Invero questa o quella per me pari son, se mi danno fastidio”.
Senza indugiare, iniziai la mia gara a cronometro. Andavo discretamente: potevo metterci meno di venti minuti: per fare metà del percorso avevo impiegato nove minuti e cinquantaquattro secondi. Dunque non dovevo mollare. Nemmeno se arrivava Lucia.
Dovrà aspettare. Se non viene c’è ancora quell’altra oppure potrò rintracciare una tra le diverse smarrite.
Poco dopo, a meno duemila metri dalla conclusione della mia prova, Lucia arrivò. Ricordai che da militare ero arrivato secondo dietro un calciatore professionista in una gara di duemila metri appunto, ed ero entrato nella compagnia atleti del battaglione Trieste permeato ancora di un certo irredentismo.
Lucia, che forse poteva essere la mia redentrice, si era appostata sulla linea di arrivo e mi incoraggiava. Terminai in 19 minuti e 35 secondi. La ragazza mi guardava amabilmente e mi faceva i complimenti dovuti. Contraccambiavo i suoi sguardi senza parlare. Indossava una tuta nera aderentissima che le stava bene, snella e pure formosa com’era. Volle provare a correre anche lei: si stancò subito, ma non la disprezzai siccome la fatica le donava: aveva affinato il  suo viso e reso ancora più grandi gli occhi cinematografici.
Verso le otto il sole era arrivato alle cime dei pioppi che orlano il campo. Una brezza tiepida, gradevole, muoveva adagio le foglie imbevute di luce. Poteva essere l’ora del corteggiamento, preludio dell’idillio sognato, della crescita di un’unità nella mia lista durante la notte, ma quella se ne andò: si era fatto tardi per lei.
Feci un  giro in bicicletta dandomi del perfetto imbecille, poi tornai a casa. A mezzanotte telefonò Ifigenia dicendo che si era annoiata a Modena e che le ero mancato. “Meno male”, pensai.
Quell’altra è convessa e tanti saluti, ma questa è ancora concava e io non mi sottrarrò.
 


Bologna 18 giugno 2025 ore 10, 46 giovanni ghiselli

p. s
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[1] Dante, Paradiso, IX, 80- 81.

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