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giovedì 2 luglio 2020

Consigli per l'esame di maturità. Parte 36. Il mito. La storia, la tragedia storica romana (praetexta) e il mito

Santo Mazzarino

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Il MITO
Quinta parte
La storia, la tragedia storica romana (praetexta) e il mito

Santo Mazzarino sul rapporto fra le Storie di Polibio e la tragedia storica romana

L'autore de Il Pensiero Storico Classico [1] esamina il rapporto tra l'opera di Polibio e la tragedia storica romana: In Roma la tragedia era sorta con Nevio, il poeta storico - epico del Bellum Poenicum.
In particolare, la tragedia storica, o "pretesta", dei Romani si connetteva con la più tipica manifestazione del loro senso della storia e della morte: "quando muore un uomo di famiglia insigne, portano al funerale le imagines" (consistenti in maschere) "dei suoi maggiori. Con tali maschere coprono il viso di uomini che presentano particolari somiglianze, per l'altezza e per il resto, con quegli avi. I mascherati indossano toghe preteste" (orlate di porpora) "se il morto che rappresentano fu console o pretore; abiti di porpora, se fu censore; inaurati, se ebbe il trionfo, o simili. Vanno innanzi su carri, preceduti da fasci, scuri ed altre insegne delle magistrature che quei nobili morti avevano ricoperto. Infine, arrivati ai rostri, seggono su selle d'avorio. - E chi non potrebbe essere colpito alla vista di queste immagini di uomini illustri e palpitanti?". Sono parole di Polibio[2]stesso: rendono l'impressione che lo storico straniero riceveva a quello spettacolo abbastanza frequente, in cui la storia delle virtù gentilizie veniva rappresentata, come per generazioni disposte in fila, nella sua attualità continua. La storia diventava processione di venerate maschere...Se confrontiamo l'opera di Polibio con i frustoli di preteste che pervennero sino a noi, il carattere delle sue Storie si potrà illuminare anche meglio. Delle lotte fra Romani e Galli, due vittorie furono celebrate con preteste: quella di Clastidium, riportata da Marcello nel 222 a. C.; e quella di Sentinum, del 295 a. C., in cui il console Decio Mus, che comandava l'ala sinistra contro i Galli (alleati dei Sanniti), s'era consacrato, col rito della devotio , agli dèi della terra e, gettandosi contro i nemici, aveva asicurato la sua morte e la vittoria. La battaglia di Clastidium era stata portata sulle scene da Nevio stesso, che certo poté seguire con ansia, come contemporaneo, quella vicenda in cui Claudio Marcello, allora il più insigne esponente del ramo plebeio dei Claudii, aveva vinto in duello il celtico Virdumaro, e riportato il trionfo.
La battaglia di Sentinum fu celebrata in una pretesta di Accio, Aeneadae Decius ; a differenza del Clastidium di Nevio ( in cui si doveva sentire la passione del contemporaneo), qui c'era il ricordo di una vittoria riportata quasi due secoli prima...Polibio tratta (II 18 - 35) le guerre romane contro i Galli; perciò anche (II 19, 6) le vicende del 295 e più tritamente (II 34) quelle del 222. Ma non accenna alla devotio di Decio nel 295; e non tocca il duello di Claudio Marcello con Virdumaro. Quei due consoli plebei non commuovono particolarmente la sua fantasia storica, la quale si limita a ricordare la distruzione e la fuga delle truppe galliche a Sentino, il successo strategico di Marcello a Clastidium. Si direbbe che, in entrambi questi casi, Polibio abbia voluto evitare la memoria di una devotio e di un duello, argomenti cari ai poeti tragici - tanto più che si trattava della devotio di un plebeo, Decio Musil cui nome gentilizio era portato, al tempo di Polibio, da uno dei più accaniti sostenitori della tendenza graccana (il tribuno P. Decio); e del duello affrontato da un altro plebeo, Marcello, che non fu mai caro alla tradizione degli Scipioni.
Tuttavia sarebbe errato pensare che Polibio non apprezzasse la virtù romana che si esaltava in quei racconti sui plebei Decio Mus e Marcello. La battaglia di Sentino, con la devotio di Decio Mus, aveva già avuto una larga eco nel mondo ellenico: Duride, tiranno di Samo, storico di tendenza aristotelica, aveva ricordato la devotio di quel grande console, suo contemporaneo. Era impossibile che Polibio, uomo d'arme, ignorasse quella storia di religione e di morte; o che non ne intendesse - nei limiti definiti dal suo razionalismo - il misterioso fascino. La sua differenza da Duris è, piuttosto, in ciò: egli non riteneva opportuno dedicare a Decio Mus una digressione, od anche un cenno, particolare; per lui, simili imprese individuali, affascinanti per se stesse, possono essere oggetto di rievocazione tragica, non di storia pragmatica. Perciò la devotio di Decio a Sentinum, già ricordata dallo storico 'tragico' Duris, fu celebrata poi dalla tragedia storica di Accio; secondo la forma mentis di Polibio potrebbe rientrare nell'anonima descrizione delle virtù romane. "Ci furono molti romani i quali volontariamente si batterono in duello per la decisione delle battaglie; e non pochi scelsero morte sicura, alcuni in guerra per la salvezza degli altri, e taluni in pace per la sicurezza pubblica"(VI 54). Polibio scrive queste parole non in particolare, a proposito di questa o quella vicenda della storia romana; ma in genere, nella sua sintesi sui caratteri dello stato romano, nel VI libro"[3].

Concludiamo il discorso sul mito con Italo Calvino che suggerisce di prenderlo alla lettera “Ma so che ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca: coi miti non bisogna aver fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini. La lezione che possiamo trarre da un mito sta nella letteralità del racconto, non in ciò che vi aggiungiamo noi dal di fuori“[4].

giovanni ghselli


[1] II, 1, p. 149 e sgg.
[2]Tratte da VI 53 e tradotte liberamente. E' la maggior trattazione che possediamo sui funerali degli uomini illustri con le laudationes funebres che falsificavano la storia.
[3]S. Mazzarino, Il Pensiero Storico Classico, II, 1, p. 152.
[4] I. CALVINO, Leggerezza, in Lezioni, americane. Sei proposte per il prossimo millennio, p. 8 - 9.

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