L'esecuzione di Luigi XVI in Place de la rivoluzione del 21 gennaio 1793 collezione Musée Carnavalet, Paris |
Oggi è il 14 luglio. Non mi sento di festeggiare la rivoluzione francese
con il trionfo della borghesia che ha sguinzagliato il proletariato contro
l’aristocrazia oramai priva di funzione storica, poi l'ha incatenato con ferri
più stretti e duri di quelli dai quali lo aveva momentaneamente liberato.
Ai versi 130
- 131 dell’Edipo re di Sofocle, Creonte dice: "La Sfinge dal
canto variopinto ci spingeva a guardare/quello che era lì tra i piedi, e a
lasciare perdere quanto non si vedeva (tajfanh')". Se identifichiamo quest'ultima parola con i fatti dello spirito, o con
le idee di Platone, non visibili attraverso i soli occhi del corpo, soprattutto
quando sono rivolti in basso, e "quello che era lì tra i piedi",
ossia "to; pro;" posi;", con gli
oggetti terreni e materiali, ecco che il canto della ragazza alata (v.508)
significa un invito a nozze per l'eterno filisteo, per "l'uomo privo di
ogni bisogno spirituale", o " a{mouso" ajnhvr" che dire si voglia.
Queste
definizioni si trovano nei Parerga
e Paralipomena di A.
Schopenhauer (pp.462 - 465 del primo tomo). Il filosofo tedesco
afferma che tale individuo non sente alcun impulso alla conoscenza e non è
capace di godimenti estetici; egli si sobbarca ai presunti piaceri imposti
dalla moda e dall'autorità: "di conseguenza le ostriche e lo champagne
sono il punto culminante della sua esistenza, e lo scopo della sua vita
consiste nel procurarsi tutto ciò che contribuisce al suo benessere
materiale" (p. 463).
Del resto la
carenza di desideri spirituali rende impossibili i godimenti elevati. “propria
e caratteristica del filisteo, è dunque una serietà ottusa e arida, prossima
alla serietà animalesca”.
Per esempio
quella di un bove. Non posso a questo punto dimenticare il Minotauro di Ovidio
nel celebre pentametro dell' Ars amatoria (II,24): "semibovemque
virum semivirumque bovem ". Le capacità spirituali suscitano la
sua avversione e il suo odio, poiché di fronte ad esse il "semibove"
prova un pesante sentimento di inferiorità, una sorda e segreta invidia. “La
sua deferenza rimarrà esclusivamente riservata alla posizione e alla ricchezza,
alla potenza e alle influenze che costituiscono ai suoi occhi gli unici veri
preg, in cui sarebbe suo desiderio eccellere” (Parerga e Paralipomena, p.
464)
“La grande
sofferenza di tutti i filistei sta nel fatto che le idealità non
forniscono loro alcun passatempo e che per sfuggire alla noia essi hanno sempre
bisogno di realtà” (p. 465). Questo ci dice Schopenhauer.
Rimanendo
ancora tra gli autori tedeschi, possiamo attingere qualche cosa da Hermann
Hesse il quale in Il lupo della steppa rappresenta un
personaggio autoemarginato dal mondo borghese, un "sordido
anacoreta", che per incapacità di accettare l'ordine filisteo aveva
coltivato "una capacità di soffrire illimitata, geniale,
spaventevole"(p.64).
Il
borghese è identificato con l'uomo che non tollera l'assoluto, si insedia nel
mezzo tra gli estremi, e rinuncia a quella intensità di vita e di sentimenti
offerta da un'esistenza rivolta all'eterno.
Egli
ottiene conservazione e sicurezza a spese della significazione, e raccoglie
tranquillità invece che ossessione divina, agio piuttosto che piacere, comodità
al posto della libertà, e temperatura gradevole invece che ardore mortale. E'
una creatura "di debole slancio vitale, paurosa, desiderosa di evitare
rinunce, facile da governare"(Dissertazione, XVI, XVII). Tutto sommato nel
romanziere l'anatema è meno forte che nel filosofo.
Ad un
accordo con il mondo borghese tende e arriva Thomas Mann. Egli vede già in
Goethe lo scrittore e l'esponente geniale dell'età borghese, per il suo stile
razionale e alieno da ogni superfetazione poetica.
Nei romanzi
dell'autore di La morte a Venezia , i personaggi che rifiutano
il mondo borghese, dicono no alla vita stessa; così Hanno di I Buddenbrook che
muore quindicenne quasi senza essere malato (il tifo non uccide se chi l'ha
contratto non"rabbrividisce di paura e ripugnanza per la voce della vita che
lo chiama", p.481); così pure il suicida Naphta di La
Montagna incantata, il mezzo gesuita "di una bruttezza così
marcata, vorremmo quasi dire corrosiva, che i due cugini ne rimasero
addirittura sbalorditi"(p.35 II vol.). Ebbene, Naphta definisce il progresso"puro nichilismo" ed il borghese
liberale"l'uomo del nulla e del diavolo. Anzi, uno che nega Dio e
l'Assoluto, per darsi in braccio al diabolico antiassoluto"(p. 201,II
vol.).
Chi sopravvive, e produce è Tonio Kröger , il borghese
che, dapprima sviatosi nell'arte, alla fine del romanzo rinsavisce e accetta la
componente, non artistica, non demoniaca, ereditata dal padre, poiché dice:
"se qualcosa è realmente in grado di fare di un letterato un poeta, è
appunto questo mio borghese amore per l'umano e il vivo e l'ordinario. Ogni
colore, ogni bontà, ogni sorriso, proviene da esso; e quasi mi sembra che sia
quel medesimo amore del quale è scritto che chi ne fosse privo, anche se
sapesse parlare tutte le lingue degli uomini e degli angeli, altro non sarebbe
che un rame risonante e un tintinnante cembalo"(p.285).
Nelle ultime parole è citato, come si sa, un periodo della prima Lettera ai
Corinzi di Paolo (13): jEa;n tai'" glwvssai" tw'n ajnqrwvpwn
lalw' kai; tw'n ajggevlwn, ajgavphn de; mh; e[cw, gevgona calko;" hjcw'n
h] kuvmbalon ajlalavzon.
Da Paolo l'apostolo, possiamo tornare al mondo greco - latino. Siamo
partiti da Sofocle il quale già, almeno secondo G. Quadri (I tragici greci e
l'estetica della giustizia, p. 128), interpreta la vita come lotta di
liberazione dell'anima contro un elemento avverso, come luvsi"
th'" yuch'". Però la dicotomia sistematica anima/corpo, o se
vogliamo idealisti/materialisti, o filistei o borghesi che dire si voglia, se
consideriamo la saggezza silenica e la filosofia eleatica quali "umbriferi
prefazi", la collochiamo in quel precristianesimo per filosofi che fu il
platonismo. Avviciniamoci dunque al più grande discepolo di Socrate.
Platone Sofista (246) segnala
una gigantomaciva (...) peri; th'" oujsiva", una battaglia di giganti sull'essere. I due eserciti sono schierati
così:"OiJ me;n eij" gh'n ejx oujranou' kai; tou'
ajoravtou pavnta e{lkousi tai'" cersi;n ajtecnw'" pevtra" kai;
dru'" perilambavnonte". Tw'n ga;r toiouvtwn ejfaptovmenoi pavntwn
diiscurivzontai tou'to ei\nai movnon o;;;;;{ parevcei prosbolh;n kai; ejpafh;n
tina, taujto;n sw'ma kai; oujsivan oJrizovmenoi, tw'n de; a[llwn ei[ tiv"
ti fhvsei mh; sw'ma e[con ei\nai, katafronou'nte" to; paravpan kai;
oujde;n ejqevlonte" a[llo ajkouvein", gli uni
dal cielo e dall'invisibile trascinano a terra tutto, acchiappando con le mani
proprio come se fossero rocce o querce. E infatti attaccandosi a tutte le cose
siffatte affermano che soltanto è, ciò che offre un contatto e una presa manuale,
e stabiliscono che l'essere e il corpo sono la stessa cosa, e se qualcuno degli
altri dirà che c'è qualche cosa senza corpo, lo disprezzano completamente e non
vogliono ascoltare nient'altro.
E gli avversari, chi sono? "oiJ pro;" aujtou;"
ajmfisbhtou'nte" mavla eujlabw'" a[nwqen ejx ajoravtou poqe;n
ajmuvnontai, nohta; a[tta kai; ajswvmata ei[dh biazovmenoi th;n ajlhqinh;n
oujsivan ei\nai", quelli che nel dibattito si oppongono loro,
molto cautamente si difendono attaccandosi a regioni superiori e all'invisibile
e sostenendo con convinzione che il vero essere consiste in alcune forme
pensabili e immagini incorporee.
Da queste definizioni si vede che i secondi sono più miti ("hJmerwvteroi"). I primi furono seminati nella terra e dalla terra sono sorti ("spartoiv te kai; aujtocqovne"", 247), gli altri sono amici delle forme"tou;" tw'n
eijdw'n fivlou"", 248).
Chi sono questi non miti giganti del materialismo? Secondo A. E. Taylor (Platone,
p.597) il filosofo non allude agli atomisti ma al "crasso, ottuso materialismo
dell'uomo medio".
Noi potremmo aggiungere che il termine spartoiv contiene un riferimento, certo non casuale, al
mito di Cadmo e, vogliamo credere, alle mostruosità dei Labdacidi empi. E i
partigiani delle forme? Essi non sarebbero i socratici (del resto tra loro ci
sono grandi differenziazioni) poiché il maestro nel Fedone e
nella Repubblica indica una partecipazione delle idee alle cose
sensibili che pertanto hanno una realtà, sia pure parziale e secondaria.
Saranno invece i dualisti estremi che considerano essere e divenire come
scissi. Dovrebbe avere ragione
Proclo, conclude Taylor, quando afferma che si tratta di certi sapienti
pitagorici d'Italia. Sugli amici delle forme non aggiungiamo altro, del
resto non sono loro l'oggetto di questa modestissima indagine; invece tra i
materialisti vogliamo inserire, forse non del tutto arbitrariamente, l'eterno tiranno, a cominciare
dal nostro Edipo nella fase dell'errore, per proseguire con il monarca
raffigurato da Otane nella Storia di Erodoto (III,80) come colui che"novmaiav te
kinevei pavtria kai; bia'tai gunai'ka" kteivnei te ajkrivtou"", sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza
giudizio, quindi passare al turanniko;" ajnh;r della Repubblica platonica (573c). Costui è per natura, o diventa per le
abitudini,"mequstikov"..ejrwtikov"..melagcolikov"", incline al bere, al sesso, alla depressione; è di animo
sostanzialmente servile"oJ tw'/ o[nti tuvranno" tw/' o[nti dou'lo""(579e).
Questa considerazione che sembra paradossale, magari dettata a Platone da
un risentimento personale nei confronti dei despoti incontrati, è confermata da
uno psicoanalista moderno: E.
Fromm in Fuga dalla libertà (p.144) sostiene
che" l'impotenza dà luogo all'impulso sadico a dominare; nella misura in
cui l'individuo è capace, cioè in grado di realizzare le sue possibilità sulla
base della libertà e dell'integrità del suo io, non ha bisogno di dominare e
non prova alcuna brama di potere".
Platone giudica
il tiranno anche " ejpiqumhtikov"",
"appetitivo", dia; sfdrovthta tw'n te peri; th;n ejdwdh;n
ejpiqumiw'n kai; povsin kai; ajfrodivsia kai; oJvsa a[lla touvtoi"
ajkovlouqa, kai; filocrhvmaton dh;, o{ti dia; crhmavtwn mavlista ajpotelou'ntai
aiJ toiau'tai ejpiqumivai", per la vemenza degli appetiti di cibo, bevande
e sesso, e quante altre brame si accompagnano a queste, e (lo chiamiamo anche)
amico delle ricchezze poiché soprattutto con le ricchezze si soddisfano tali
appetiti(Repubblica , 580c).
Non poteva non unirsi a questa condanna la storiografia moralistica.
Facciamo un solo esempio: quello di Sallustio. Nel secondo capitolo della monografia su Catilina, lo
scrittore cesariano dà il suo contributo all'anatema dell'"eterno
filisteo", una categoria dello spirito, o, se si preferisce
dell'antispirito, al pari dell'Eterno marito che, a detta di Dostoevkij,
"non può fare a meno delle corna, come il sole non può fare a meno di
splendere"(p.357).
Scrive dunque Sallustio:" Omnis homines, qui sese student praestare
ceteris animalibus, summa ope niti decet, ne vitam silentio transeant veluti
pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit ” (Bellum
Catilinae, 1), a tutti gli uomini che desiderano stare sopra agli altri
esseri viventi, si addice sforzarsi al massimo per non passare la vita senza
rinomanza come i bruti che la natura foggiò rivolti a terra e schiavi del
ventre
Quae homines arant, navigant,
aedificant, virtuti omnia parent. Sed multi mortales, dediti ventri atque
somno, indocti incultique vitam sicuti peregrinantes transiere; quibus profecto
contra naturam corpus voluptati, anima oneri fuit. Eorum ego vitam mortemque
iuxta aestumo, quoniam de utraque siletur " (B. C. 2).
Quello che gli uomini fanno, arando, navigando, costruendo, dipende tutto dall'
intelligenza. Ma molti mortali, dediti al ventre e al sonno, passano la vita,
come viandanti, ignoranti e rozzi; a loro certamente, contro natura, il corpo
serve per il piacere, l'anima è di peso. La vita di costoro giudico pari alla
morte, poiché dell'una e dell'altra si tace. Così non sia della nostra.
Un locus particolarmente
provocatorio nei confronti dell'attualità può essere l’esecrazione del denaro e
degli uomini avidi di denaro.
L’ uomo privo di bisogni spirituali" può essere raffigurato dal pullus ad margaritam di
Fedro, la bestia "potior cui multo est cibus" o i porci del
Vangelo ai quali non bisogna gettare le perle " neque mittatis
margaritas vestras ante porcos, ne forte colcuncent eas pedibus
suis et conversi dirumpant vos "[1],
perché non accada che le calpestino con i piedi e rivolti contro di voi non vi
sbranino.
[1] Matteo, 7, 6. Questo accostamento me lo ha suggerito il collega
Giovanni Polara al convegno di Lamezia Terme (2004).
Nessun commento:
Posta un commento