Alexander Sochaczewski, "lavoro forzato nei campi Katorga siberiani" |
Epilogo
Al processo R ha raccontato i fatti
senza confondere né attenuare le circostanze. Ha indicato il nascondiglio degli
oggetti e del borsellino rubati. Gli inquirenti e i giudici si meravigliarono
molto che non avesse usato quel denaro. Sembrò inverosimile che non avesse
nemmeno aperto il borsellino dove c’erano 317 rubli. Pensarono che avesse
compiuto il delitto in stato di alienazione mentale. Disse che lo aveva fatto
per la miseria nella quale viveva.
Ebbe una pena relativamente mite: i
lavori forzati di seconda categoria per 8 anni. La sentenza ci fu 5 mesi dopo
la confessione. Razumichin e Sonja andavano a trovarlo in prigione.
Poi lo mandarono in Siberia
dove si trova da nove mesi ed è passato quasi un anno e mezzo dal delitto.
Sonja con il denaro di Sv seguì lo scaglione di detenuti con il quale partì R.
Razumichin e Dunja si sposarono.
Alle nozze invitarono Porfirij e Zòsimov il medico. Raz riprese l’Università e
progettava di trasferirsi in Siberia con la moglie.
Pulchèrija morì di febbre
cerebrale. Sonja teneva i contatti epistolari con Dunja e Raz. Scriveva che R
aveva sempre un’aria cupa, parlava poco e poco si interessava alle notizie che
Sonja gli portava. Il cibo, tranne che per le feste, era tanto cattivo che lui
aveva accettato un po’ di denaro da lei per potersi fare del tè ogni giorno, ma
le premure lo infastidivano. Dormiva su un pezzo di feltro steso su un
tavolaccio. Mostrava indifferenza verso le proprie condizioni di vita. Con
Sonja era perfino sgarbato, ma si era anche assuefatto a quei colloqui.
Lavorava nelle officine e nelle fabbriche di mattoni o sulla riva dell’Jrtyš.
Sonja lavorava di cucito e, per la
carenza di modiste in quel luogo, era diventata indispensabile in molte case,
aveva fatto conoscenze, e aveva trovato qualche protezione. Grazie al suo
aiuto, R aveva ottenuto la protezione dei superiori che gli assegnarono un
lavoro più leggero ed altre facilitazioni.
Poi però si era ammalato ed era
stato ricoverato in ospedale.
La sua fibra non era stata spezzata
dall’insipida broda di cavoli con gli scarafaggi dentro, da studente spesso non
aveva avuto nemmeno quella, né dalla testa rasata, né dal vestito strappato che
del resto teneva caldo.
Davanti a Somja però si vergognava
poiché si era rovinato per sempre in maniera cieca e ottusa per una strana
condanna della sorte. Sarebbe uscito a 32 anni, ma per fare che cosa? Vivere
per esistere forse? L’esistenza pura e semplice non gli era mai bastata. Per la
violenza dei suoi desideri aveva pensato che a lui era consentito più che agli
altri. Non sentiva nemmeno pentimento del suo delitto
Pensava che se usciva dalla banale logica quotidiana la sua idèa non era
poi così strana.
L’avevano avuta anche altri uomini
che passano per benefattori dell’umanità. “Ma quelli che hanno saputo resistere al peso delle loro azioni hanno
avuto ragione, mentre io non ho saputo resistere e quindi non potevo
permettermi quell’azione. Il
vero delitto è stato quello di non averne retto il peso e quindi di essersi
costituito”.
Poi si chiedeva perché non si fosse
ucciso come Sv aveva avuto il coraggio di fare. Non capiva ancora che non
essersi ucciso preludeva a una futura rinascita.
Era come se vivesse a occhi bassi:
non ce la faceva a guardarsi intorno. Vedeva un abisso invalicabile tra sé e
gli altri. C’erano dei deportati politici polacchi che disprezzavano la massa
ma erano ancora più stupidi. Poi tre russi pieni di superbia, un ex ufficiale e
due seminaristi. Il suo disprezzo e odio per gli altri era contraccambiato. Lo
deridevano: “tu sei un signore, altro che mettersi a maneggiare la scure! Non è
roba per signori!” gli gridavano.
A un certo punto volevano
ammazzarlo come un senza dio. Ma uno della scorta fece in tempo a mettersi tra
lui e il criminale.
Invece Sonja era benvoluta da tutti, sebbene non facesse nulla di
speciale per ingraziarsi qualcuno in particolare. Solo a Natale aveva portato
in dono a tutti i carcerati panini bianchi e pagnottine dolci. Un po’ alla
volta prese confidenza e scriveva le lettere per i parenti dei forzati. Questi.
quando la vedevano, si levavano il berretto e dicevano: màtuška Sòfja Semënovna, sei la nostra
mammina dolce e brava!” Questo dicevano quei rozzi, incalliti forzati
alla piccola e gracile creatura. A loro piaceva anche l’andatura di Sonja e la
lodavano pure per il fatto che era piccola. Andavano da lei perfino per farsi
curare. R aveva dei deliri e vaneggiamenti febbrili durante i quali immaginava
pestilenze inaudite. La seconda settimana dopo Pasqua arrivò la primavera: in
ospedale si aprivano le finestre ma nella corsia dei detenuti c’erano delle
inferriate e sotto una sentinella. Sul far della sera Sonja andava sotto la
finestra e una sera R la vide. Ma poi la ragazza si ammalò e non poteva andare
da R. Sonja gli mandò un biglietto minimizzando la sua malattia del resto non
grave. R sentì il proprio cuore battere forte con una forza dolorosa.
giovanni ghiselli
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