Nella Vita di Solone
di Plutarco troviamo una derisione delle leggi scritte da parte di Anacarsi che
fu ospite e amico del legislatore Ateniese. Lo Scita dunque derideva l’opera di
Solone che pensava di frenare l’iniquità dei cittadini con parole scritte le
quali, diceva, non differiscono affatto dalle ragnatele (mhde; n tw`n ajracnivwn diafevrein, 5, 4),
ma come quelle trattengono le prede deboli e piccole, mentre saranno spezzate
dai potenti e dai ricchi (uJpo; de; dunatw`n
kai; plousivwn diarraghvsesqai).
Le cose poi andarono secondo le previsioni di Anacarsi, il
quale disse anche, dopo avere assistito all’assemblea degli Ateniesi, di essere
stupito del fatto che presso i Greci parlassero i sapienti ma decidessero gli
ignoranti (o{ti levgousi me; n oiJ sofoi; par
j { Ellhsi, krivnousi d j oiJ ajmaqei`~ (5, 6).
Le leggi dunque colpiscono solo i deboli
Nietzsche: “Le leggi contro i ladri e gli assassini sono
fatte a favore delle persone colte e ricche”[1].
Nella storia romana "la maggiore singolarità" è data dal
fatto che i primi legislatori "e soprattutto il loro capo Appio Claudio
siano stati deposti per la loro indegna tirannide" mentre diversi altri
"veri o mitici legislatori, Licurgo, Solone, Zaleuco, Mosé, sono dalla
tradizione circonfusi da un'aureola di luce che li rende santi e
venerabili". Il fatto è che Appio
Claudio e i decemviri legibus scribundis nel 451/450 agirono in favore
della plebe: " Di contro alla prepotenza patrizia, ordinatasi nel
sec. V la plebe a Stato entro lo Stato, due furono le concessioni che prima
cercò di ottenere: leggi eguali per tutti, e una parte per tutti i cittadini
nel governo della repubblica. A soddisfare l'una e l'altra richiesta si
accinsero i decemviri". Di qui la reazione dei patrizi: "Come dalla
decadenza della monarchia, così dalla caduta del decemvirato trassero sul
momento vantaggio i soli patrizi. E dell'una e dell'altra spetta quindi ai
patrizi la responsabilità"[2]
Tacito menziona gli adultèri: "paucissima in tam numerosa gente adulteria
", quindi aggiunge: "nemo enim
illic vitia ridet, nec corrumpere et corrumpi saeculum vocatur " (19),
e conclude il capitolo: "plusque ibi
boni mores valent quam alibi bonae leges ".
In conclusione “Corruptissima re publica
plurimae leges" (Tacito, Annales,
III, 27), quanto più è corrotto uno Stato, tanto più numerose sono le leggi.
“E si può fare questa conclusione:
che dove la materia non è corrotta, i tumulti ed altri scandoli non nuocono; dove
la è corrotta, le leggi bene ordinate non giovano”[3].
L'età giovanile, continua Isocrate, è quella della
torbidezza spirituale: i ragazzi sono pieni di desideri e devono educarsi
prendendo buone abitudini e compiendo fatiche che comportano gioia (43). Attività
buone che costino fatica e diano soddisfazione. La paideiva va conformata ai mezzi di cui ciascuno dispone. I
più poveri venivano indirizzati all'agricoltura e al commercio: " ejpi; ta; " gewrgiva" kai; ta; "
ejmporiva"" (Areopagitico,
44). Gli abbienti invece si dedicavano alla ginnastica, all’ ippica, alla
caccia, e alla filosofia. La cultura dello spirito equiparata alla ginnastica
fa parte di quella concezione della paideia come gioco elevato espressa da
Callicle nel Gorgia. Anche Senofonte
vuole combinare equitazione ginnastica e caccia con l'amore per la cultura
intellettuale.
Pure il Protagora, il sofista eponimo e personaggio del
dialogo platonico (326c) di
Platone fa dipendere la durata dell'istruzione dai mezzi dei genitori. Lo
studio della poesia, della musica e la pratica della ginnastica li fanno oiJ mavlista dunavmenoi - mavlista de; duvnantai
oiJ plousiwvtatoi - i più ricchi
che hanno possibilità maggiori mandano i figli a scuola prima e li fanno uscire
dopo. E quando hanno lasciato la scuola, devono imparare le leggi perché non
vivano a proprio arbitrio e a casaccio
Nelle Supplici di
Euripide, Teseo propugna la democrazia e dice all’araldo tebano mandato da
Creonte che quando c’è un tiranno non esistono più leggi comuni (novmoi - koinoiv, vv. 430 - 431). E procede: “gegrammevnwn de; tw'n novmwn o{ t’ ajsqenh; ~ - oJ
plouvsiov~ te th; n divkhn i[shn ecei ” (vv. 433 - 434), quando ci sono
le leggi scritte il debole e il ricco hanno gli stessi diritti.
Platone invece
pensava che una buona educazione di base non avesse bisogno della costrizione
delle leggi (Repubblica, 426e - 427a).
Del resto tutta l'educazione superiore deve essere cosa di Stato.
CONTINUA