NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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venerdì 28 aprile 2017

Ifigenia. L'amore nel mare di Pesaro. II parte

chiesa sul mare, Vico Equense

Due giorni dopo, il 16 luglio, andai a Marabello per fare l’amore con Ifigenia. Come fui giunto alla spiaggia, la vidi distesa sopra un lettino: aveva la schiena puntellata e sollevata sui gomiti, la faccia rivolta all’acqua marina. La riconobbi dai capelli nerissimi che cadevano sulle spalle rotonde, lisce, abbronzate. Mi venne in mente la mamma quando nei primi anni Cinquanta, giovane ancora, bella, formosa, molto bruna di capelli e di pelle, mi faceva la grazia di portarmi al mare con sé e mi sembrava una dea che si degnava di accompagnare un bambino mortale, non buono né bello per giunta come avrebbe dovuto essere il figlio di tale creatura splendidissima, più divina che umana.
Ifigenia era con i genitori e davanti a loro non potevamo parlare né agire liberamente come non si poteva a Pesaro davanti alle zie, sicché aspettavamo il momento di poterci allontanare senza peccare di scortesia verso i due anziani che ci osservavano, benevolmente invero. Il matrimonio della ragazza stava andando in tanta e santa malora. L’attesa non troppo lunga era paziente in vista del premio che ci attendeva: lo chiamavamo la “borsa di studio” dovuta alla nostra bravura di giovani insegnanti studiosi. Le labbra della ragazza erano tese, gli occhi aperti pur nel sole abbagliante, i muscoli delle braccia, dello stomaco, delle gambe abbronzate, fremevano pronti a scattare come quelli di una puledra di ottima razza. Eravamo dunque pieni di brama amorosa, però sulla riva o nell’acqua marina del meriggio affollato non era possibile. Sicché ci incamminammo in cerca di un luogo adatto al nostro proposito bello. Lungo la strada costiera, su un lato, vedemmo una chiesa; guardandola ci facemmo piamente il nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo, e dopo avere detto amen con devozione, notammo sull’altro lato un edificio prospiciente la spiaggia. Era grande, tetro e cadente sopra un giardino deserto recintato da una rete fitta di squarci. Eravamo in costume da bagno. Io mi ero portato dietro un telo per la schiena di Ifigenia, nel caso che avessimo trovato un luogo acconcio all’unione tanto attesa e desiderata. Un’unione sacra, una specie di ierogamia.
Al di là della rete però c’era uno spazio sporco di fogli anneriti, lattine, bottiglie, siringhe, stracci unti, ferri vecchi, resti di bivacchi immondi e altre cose inamene. Insomma un panorama di porcherie. La chiesa sull’altro lato della strada gettava un’ombra cupa dentro il lurido immondezzaio. Le diedi un’ultima occhiata e feci di nuovo il nome del padre.
“Verrai con me, pauroso gesuita?” fece Ifigenia. Apprezzai la citazione[1] che mi incoraggiò, e con allegria piena di gratitudine, risposi:
“Figurati! Andiamo e mettiamo a repentaglio le nostre vite: chi non è vile mi segua!” Risposi con enfasi.

La brama amorosa doveva essere insopprimibile e inarrestabile. Attraversammo quel prato tartareo facendo attenzione a non calpestarne la fioritura funesta, quindi giungemmo a tre gradini sbrecciati e forati che conducevano al primo piano dell’edificio che durante il ventennio fascista doveva essere stato una colonia marina. Con cautela superammo gli scalini e ci affacciammo sul piano. Lì dentro la confusione e la sporcizia erano ancora più grandi e spiacenti: bottiglie vuote, siringhe sporche di sangue, carte bruciate o insozzate, e cumuli di rovine dovunque: pezzi di muro, di soffitti caduti, di scale precipitate, cocci di latrine, di cucine, di mense: segni e figure di una catastrofe immane e non tanto lontana erano un po’ dappertutto.
A un tratto da uno di quelle macerie sbucò una piccola serpe nera che saettò per qualche metro sul pavimento, poi si infilò in un altro cumulo immondo. Ne sbucarono due sorci obesi, poi un terzo ferito forse dal serpentello o da una pantegana cannibale: sanguinava da un fianco che mostrava della carne scoperta, appena tagliata Si udivano gli acuti ululati di un cane provenire dall’ombra. Due amanti meno appassionati sarebbero fuggiti via da tali orrori per lo schifo e per la paura.
Ci incoraggiava del resto la vista della distesa marina al di là di uno squarcio del muro.
Si vedevano quattro candide vele portate velocemente al largo dal garbino sempre propizio al varo delle barche e al distacco rapido dalla costa affollata. “Scafi di imbarcazioni veloci accolgono il vento da poppa. Navighiamo secondo la rotta, secondo il destino, e non rivolgiamo la prua delle nostre vite contro l’onda del fato”, recitai con aria profetica e pure canzonatoria, ricordando alcuni versi delle Troiane[2] di Euripide.
Ifigenia applaudì ammirata. Non rinuncio mai a una citazione che possa rivelare la mia natura di studioso. E’ un test che infastidisce i cretini e me li tiene a dispettosa distanza. La ragazza invece si avvicinò e mi fece notare un gabbiano posato sull’aplustre di un barcone: agitava le ali per spiccare il volo nel vento. “Ottimo segno!”, le dissi, ma non ne ero proprio sicuro.
I segni mandati dagli dèi non sono mai chiari del tutto. Dobbiamo rifletterci sopra.



continua



[1] Cfr. J. Joyce, Ulisse, I capitolo Telemaco, la torre-
[2] Cfr. vv. 102-104.

giovedì 27 aprile 2017

La Bellezza


La bellezza ci salverà

Paride
Il terzo canto dell'Iliade propone il contrasto tra apparenza e sostanza.
In testa all'esercito troiano si fa vedere Paride con l'aspetto di un dio (qeoeidhv", v. 16), con pelle di pantera sopra le spalle, arco ricurvo e spada, e, per giunta, squassando due lance a punta di bronzo.
 Il bellimbusto sfidava tutti i campioni degli Achei. Ma quando Menelao, contento della preda, saltò a terra dal carro per affrontarlo, il seduttore di Elena sbigottì in cuore e si ritirò presso i compagni. Allora Ettore lo assalì con parole infamanti: gli diede del donnaiolo (gunaimanev") e seduttore (hjperopeutav v. 39), poi lo accusò di smentire l' aspetto splendido (ei\do" a[riste) con un cuore senza forza né valore (45), in quanto era uomo capace di portare via le donne agli uomini bellicosi ma non di affrontarli.
Allora Paride gli risponde di non biasimarlo e non rinfacciargli i doni amabili dell'aurea Afrodite (mhv moi dw'r j ejrata; provfere crusevh" jAfrodivth"", 64): nemmeno per te sono spregevoli i magnifici doni degli dèi (qew'n ejrikudeva dw'ra, v. 65) che del resto nessuno può scegliersi.
Quindi si presta ad affrontare in duello il rivale Menelao. Se la caverà solo in quanto salvato da Afrodite
Nelle Troiane di Euripide, Elena si giustifica dicendo che Paride fu aiutato da Afrodite, una grande dea cui non resiste nemmeno Zeus. Ebbene, Ecuba risponde che Afrodite in realtà era la ajfrosuvnh, la stoltezza di Elena la quale fu attirata dall’eccezionale bellezza di Paride: “h\n ouJmo; ~ uiJo; ~ kavllo~ ejkprepevstato~” (v. 987) e la mente di Elena vedendolo divenne quella Cipride che la trascinò a Troia.
Paride è visto dal fratello quasi come un “miles gloriosus”.

Nello stesso modo è spesso considerato lo spartano Menelao nelle tragedie di Euripide (cfr. Oreste, 1532 ss, dove il marito di Elena, xanqov~, si pavoneggia per i ricci biondi che gli scendono lungo le spalle.).

Tutt’altro guerriero è quello preferito da Archiloco:
"non amo lo stratego grande né dall'incedere tronfio
né compiaciuto dei riccioli, né ben rasato;
ma per me sia pur piccolo, e storto di gambe
a vedersi, però che proceda con sicurezza sui piedi, e sia pieno di cuore/" [1] frammento 60D.
Odisseo non era bello: "Non formosus erat, sed erat facundus[2] Ulixes/et tamen aequoreas torsit amore deas "[3].

Nel terzo canto dell’Iliade, Priamo chiede a Elena di identificare i capi dei guerrieri Achei visibili dalla torre presso le porte Scee; uno gli parve "meivwn me; n kefalh'/ jAgamevmnono" jAtreïdao, / eujruvtero" d& w[moisin ijde; stevrnoisin ijdevsqai"(vv. 193 - 194), più piccolo della testa di Agamennone Atride, ma più largo di spalle e di petto a vedersi. La maliarda rispose che quello era Odisseo esperto di ogni sorta di inganni e di fitti pensieri (v. 202). Quindi Antenore aggiunge che egli l'aveva visto una volta a Troia, in ambasciata con Menelao, e quando i due erano seduti, era più maestoso Odisseo, ma quando stavano in piedi, Menelao lo sovrastava delle larghe spalle ("stavntwn me; n Menevlao" uJpeivrecen eujreva" w{mou"", v. 210).
Ulisse, in piedi, se non parlava, sembrava un uomo ignorante o addirittura uno furente e pazzo, ma, quando parlava, dal petto mandava fuori parole simili a fiocchi di neve d'inverno (v. 222), ossia manifestava la potenza della natura, e allora non si provava più meraviglia per l'aspetto.

La potenza di Afrodite
Cipride del resto è davvero una grande divinità irresistibile

Ecco come si presenta entrando in scena all’inizio dell’Ippolito: “Pollh; me; n ejn brotoi'" koujk ajnwvnumo" - qea; kevklhmai Kuvpri~, oujranou' t j e[sw ( vv. 1 - 2), grande e non oscura dea, sono chiamata Cipride, tra i mortali e nel cielo.
Nel primo episodio la nutrice di Fedra le attribuisce una forza d'urto ineluttabile: "Kuvpri" ga; r ouj forhto;n h]n pollh; rJuh'/" (v. 443), Cipride infatti non è sostenibile quando si avventa con tutta la forza.
Nell’Ippolito di Euripide, Afrodite è la divinità più forte: “Zeus, non meno di Artemide, non ha voce in capitolo riguardo a ciò che Afrodite può fare, ed ha fatto. Il comitato o corporazione di divinità ha potere di vita e di morte su di “noi”, i mortali, ma tra loro questi poteri sono in competizione: essi operano in un “libero mercato. [4]
La potenza di Afrodite dunque è massima, e la principale arma usata da questa dea è la bellezza degli uomini (Paride, Giasone) e delle donne (Elena).
Sono forse più numerosi i seduttori delle seduttrici.

 La potenza di Cipride viene celebrata anche all'inizio della Parodo delle Trachinie di Sofocle: "mevga ti sqevno" aJ Kuvpri" ejkfevretai - nivka" ajeiv" (vv. 497 - 498), Cipride porta con sé una grande potenza, sempre vittorie. Lo stesso Eracle le è soggetto.

E' la tota ruens Venus dell'Ode I 19 per Glicera di Orazio.
Seguirà Properzio: "Illa potest magnas heroum infringere vires, /illa etiam duris mentibus esse dolor " (I, 14, 17 - 18), quella dea può spezzare grandi forze di eroi, ella può costituire un dolore anche per i cuori duri.
La bellezza di Elena
"In un colloquio con Priamo essa si definisce kuvnwpi", "svergognata"[5]. Eppure! Gli anziani del travagliatissimo popolo dei Troiani stanno immobili, come le cicale, seduti presso le porte della città: essi, i saggi, i bravi oratori, immuni dal fascino femminile. Ma quando essa appare, accompagnata dalle sue due fanciulle - e le lagrime dei suoi occhi non si potevano distinguere, perché essa era involta in un luminoso velo bianco - gli anziani esclamano tra di loro: "Ouj nevmesi" - non è una nemesi, che per una tale donna Troiani e Greci soffrano da tanto tempo e soffrano ancora. Essa è, infatti, come una delle dee immortali"[6]. Parole semplici e naturali, in quella determinata situazione - e tuttavia per mezzo di esse avviene qualche cosa di indicibilmente grande: il riscatto della bellezza dal peccato"[7].

Elena del resto può essere anche Nemesi.
Nel secondo stasimo dell'Agamennone il coro presenta i diversi aspetti di questa splendidissima donna: "Chi mai diede un nome così del tutto vero… ad Elena le cui nozze furono causa di guerra, donna oggetto di contesa poiché chiaramente distruggitrice di navi (eJlevna"), di uomini (e[landro"), di città (eJlevptoli")? ” (vv. 681ss.).
 Secondo la credenza antica del nomen - omen Eschilo etimologizza in maniera fantasiosa il nome dell'adultera connettendone la prima parte con il radicale eJl - (cfr. l'aoristo ei|lon di aiJrevw, "tolgo di mezzo"). Nella seconda parte vengono ravvisate, non senza forzatura, le parole nau'~, ajnhvr e ptovli".
Quando giunse a Ilio, la splendidissima era come: "un pensiero di bonaccia senza vento, un tranquillo ornamento di ricchezza, un tenero dardo degli occhi, un fiore d'amore che morde l'animo; ma poi, mutata, compì l'amaro fine del matrimonio, funesta compagna e funesta amante, scagliatasi contro i Priamidi scortata da Zeus protettore degli ospiti, Erinni che reca pianto alle spose"(Agamennone, vv. 739 - 749).

Ampliamo e precisiamo una citazione già accennata dalle Troiane di Euripide dove Ecuba rinfaccia la sensualità e l'avidità per le quali vanamente la donna fatale ha cercato di incolpare una o più dèe: "Mio figlio era di bellezza sovrumana, e l'animo tuo, vedendolo, si fece Cipride: infatti tutte le stoltezze sono Afrodite per gli uomini; e il nome della dea comincia giustamente come quello di follia (ta; mw'ra ga; r pavnt' ejsti; n jAfrodivth brotoi'" - kai; tou[nom' ojrqw'" ajfrosuvnh" a[rcei brotoi'"). E tu, dopo averlo visto fulgente nell'oro delle vesti barbare, divenisti frenetica nell'anima. Infatti ti aggiravi in Argo con poca roba e, abbandonata Sparta, sperasti di affondare nelle spese la città dei Frigi dove l’oro scorreva a fiumi: non ti era sufficiente la casa di Menelao per abbandonarti alle tue dissolutezze" (Troiane, vv. 987 - 997).

Isocrate celebra la potenza della bellezza incarnata in Elena.

Elena ebbe la maggior parte delle prerogative della bellezza che è il più nobile, il più prezioso e il più divino dei beni (Encomio di Elena, 64).
Le cose che non hanno bellezza non possono essere amate; anzi vengono piuttosto disprezzate
La bellezza è superiore a tutte le cose esistenti (55). Verso chi porta altre qualità possiamo provare invidia; mentre verso i belli siamo benevoli (eu\noi, 56) al primo vederli e li onoriamo come gli dei.
Preferiamo asservirci a uno bello che comandare agli altri (57)
Anche Zeus il kratw`n pavntwn (59) il signore dell’Universo, divenne umile nell’accostarsi alla bellezza e prese varie forme per unirsi a lei: pioggia con Danae (e nacque Perseo), cigno con Nemesi (Elena), Anfitrione con Alcmena (Eracle).
Elena dimostrò la sua potenza (duvnamn) a Stesicoro che scrisse la Palinodia dopo avere usato parole irriverenti verso di lei che lo rese cieco.

Isocrate la bellezza delle parole (Panegirico, 47 - 49).

Tîn d lÒgwn tîn kalîj kaˆ tecnikîj
™cÒntwn oÙ metÕn to‹j faÚloij, ¢ll¦ yucÁj eâ fronoÚ -
shj œrgon Ôntaj, kaˆ toÚj te sofoÝj kaˆ toÝj
¢maqe‹j dokoàntaj enai taÚtV ple‹ston ¢ll»lwn diafš -
rontaj, œti d toÝj eÙqÝj x ¢rcÁj leuqšrwj teqram -
mšnouj ™k mn ¢ndr…aj kaˆ ploÚtou kaˆ tîn toioÚtwn
¢gaqîn oÙ gignwskomšnouj, ™k d tîn legomšnwn m£lista
katafane‹j gignomšnouj, kaˆ toàto sÚmbolon tÁj paideÚ -
sewj ¹mîn ˜k£stou pistÒtaton ¢podedeigmšnon, kaˆ toÝj
lÒgJ kalîj crwmšnouj oÙ mÒnon n taj aØtîn dunamšnouj,
¢ll¦ kaˆ par¦ to‹j ¥lloij ™nt…mouj Ôntaj.

Dei discorsi belli e ben costruiti non hanno parte gli sciocchi, ma essi sono opera di una mente capace di pensare.
Le persone reputate sagge e quelle reputate ignoranti, sono differenti tra loro soprattutto in questo, e coloro i quali sono stati educati da persone libere, non si riconoscono dal coraggio, e dalla ricchezza e da altri beni del genere, ma riescono evidenti soprattutto dai loro discorsi, e questo è il segno più sicuro ed evidente dell’educazione di ciascuno di noi
Quelli i quali impiegano con bellezza l’eloquenza non solo sono potenti nelle loro città, ma vengono onorati anche presso gli altri.

Altro punto di vista: Teognide
 Il bello (kalòn) è il valore supremo, ed esso coincide con il morire per la patria
"è bello morire (Teqnavmenai ga; r kalovn) da uomo valoroso cadendo tra i primi
 e combattendo per la propria patria" (fr. 10 W., vv. 1 - 2).

Vediamo dal De officiis di Cicerone che cosa è il decōrum, il prevpon, ciò che si addice a una persona per bene.
Coincide con l’honestum.
Quello che decet è agire prudenter, considerate, con prudenza e ponderazione, mentre dedecet falli, errare, labi lasciarsi andare, decipi.
E’ decorum quello che si compie viriliter animoque magno (I, 94). Del decorum fanno parte moderatio et temperantia, moderazione ed equilibrio. La natura ha assegnato al personaggio uomo le partes constantiae, moderationis, temperantiae, verecundiae, e ci insegna a non trascurarle. La pulchritudo corporis è data dall’apta
compositio membrorum (I, 98), dalla proporzionata disposizione delle membra, quando inter se omnes partes cum quodam lepōre consentiunt, costituiscono un insieme armonico con una certa piacevolezza. Così lo stile di una persona deve essere caratterizzato ordine et constantia et moderatione dictorum omnium et factorum. Dunque il decorum, quod decēre dicimus, è non violare, non offendere homines.
Fondamentale è l’armonia con la natura quam si sequemur ducem, numquam aberrabimus (I, 100). Bisogna approvare motus corporis qui ad naturam apti sunt e pure motus animi qui item ad naturam accomodati sunt, appropriati. L’appetitus, oJrmhv, deve obbedire alla ratio. Non siamo bruti e non dobbiamo vivere “seguendo come bestie l’appetito”[8]. Efficiendum autem est, ut appetitus rationi oboediant (I, 101).

Questa è la paura dell’istinto che Nietzsche considera sintomo della decadenza. Una paura che risalirebbe a Platone e a Socrate.

Nel Fedro di Platone l’appetitus è raffigurato nel cavallo nero che è brutto: skoliov~, storto, poluv~, grosso, eijkh'/ sumpeforhmevno~[9], ammassato a casaccio, kraterauvchn, di collo grosso, bracutravchlo~, dal collo corto, simoprovswpo~, dal muso schiacciato, melavgcrw~, di pelo nero, glaukovmmato~, dagli occhi chiari (grigio - azzurri), u{faimo~, sanguigno, u{brew~ kai; ajlazoneiva~ eJtai'ro~, compagno della prepotenza e della iattanza, peri; w\ta lavsio~, villoso intorno alle orecchie, kwfov~, ottuso, mavstigi meta; kevntrwn movgi~ uJpeivkwn, una bestia che a stento si assoggetta a una frusta con pungoli.
Nel sistema platonico il cavallo bianco è lo qumoeidev~, la parte irascibile che si allea alla razionalità, logistikovn, contro il cavallo nero, l’ejpiqumhtikovn.
Per comprendere questo bisogna vedere com'è la natura dell'anima.
E' immortale poiché si muove da sola: yuch; pa'sa ajqavnato"/: to; ga; r aujtokivneton ajqavnaton. Descriviamola con immagini: assimilandola alla potenza della stessa natura di una coppia di cavalli alati e di un auriga. Uno dei cavalli però non è buono. L'auriga è il giudizio, il cavallo bianco è il coraggio, il nero l'appetito.
Il cavallo bianco è bello, buono e di buona razza, l'altro il contrario: "tw'n i{ppwn, o me; n kalo; " te kai; ajgaqov", oJ de; ejnantivo"" (Fedro, 246c).
Le anime seguono gli dèi in una processione festiva intorno al cielo e danno ordine alle cose. La meta del giro è la piana della realtà ( jAlhqeiva" pedivon, 248b) dove la processione si ferma e gode di un riposo sabbatico. Nella pianura c'è il pascolo congeniale alla parte migliore dell'anima. Questa pianura si trova fuori dall'Empireo: è un uJperouravnio" tovpo" (247c), un sito sopraceleste dove si trovano le idee: essenze che essenzialmente sono, senza colore, figura, toccabilità. A volte, per colpa dell'auriga che non riesce a controllare il cavallo nero, gli uomini cadono in terra e non tornano in cielo finché non siano ricresciute le ali che si possono riottenere mediante il ricordo delle idee. Chi segue tali ricordi è un entusiasta. L'idea della bellezza è la più vivamente riprodotta nel mondo sensibile ed è particolarmente efficace nel risvegliare il ricordo.
Solo la bellezza ha ricevuto questa sorte di essere l’idea che rimane più manifesta e amabile qua sulla terra. Del resto nella pianura della realtà, met’ ejkeivnwn, tra quelle idee, e[lampen o[n, brillava come essere (Fedro, 250d).
 Chi vede una bella persona e ricorda la bellezza ideale, la contempla e venera religiosamente, e gli spuntano le ali.
Il ricordo fa crescere l’ala attraverso tutta l’anima: pa'sa ga; r to; pavlai pterwthv (251b), infatti un tempo l’anima era tutta alata.
Se invece uno non è un nuovo iniziato (mh; neotelhv~) o è corrotto (diefqarmevno~), non si eleva da quaggiù a lassù ejnqevnde ejkei'se, verso la bellezza in sé (pro; ~ aujto; to; kavllo~), sicché non onora la bellezza, ma hJdonh'/ paradou; ~ tetravpodo~ novmon, dandosi al piacere secondo l’uso delle bestie, cerca di montare e di seminar figlioli (baivnein ejpiceirei' kai; paidosporei'n, 250e), oppure si dà a rapporti contro natura
Vedendo la bellezza, ci ricordiamo di quando eravamo ajpaqei'" e kaqaroiv, senza dolori e puri, e contemplanti, ejpopteuvonte", intere, semplici, immobili e beate visioni favsmata, in pura luce e non eravamo marchiati da questa tomba che ora portiamo in giro e chiamiamo corpo, chiusi al modo di ostriche (250). Ognuno si innamora di una bellezza che gli ricorda il dio che seguiva. Chi andava dietro a Zeus è attirato da un amante filosofov" te kai; hJgemoniko; " th; n fuvsin, 252e.
Si tende a dare all'amato la natura del proprio dio.
Il cavallo nobile è bello, pudìco e ragionevole e si lascia guidare senza la frusta, con l'uso della ragione; è di figura diritta e snella, ha il mantello bianco, gli occhi neri e ama la gloria.
 L'altro ha una struttura contorta e massiccia, mantello nero e occhi chiari, è insolente, vanitoso e peloso fino alle orecchie. Questo porta l'amante verso l'amato.
L'auriga vedendo la bellezza, cade riverso all'indietro, il cavallo bianco, smarrito inonda di sudore l'anima intera, ma il nero infuria, rizza il collo e la coda (ejgkuvya~ kai; ejkteivna~ th; n kevrkon) e tira avanti impudico: "met j ajnadeiva" e{lkei" 254d.
L'auriga tira indietro il morso, gli insanguina la lingua malvagia e le mascelle e lo dà in preda ai dolori. Allora il cavallo brutto e cattivo si lascia frenare e quando vede il bello muore dalla paura (254 e)
Così l'amato diviene oggetto di culto e accoglie l'innamorato presso di sé: infatti tra i buoni non può non nascere l'amicizia (255b). L'amato sente che nessun altro, compresi i famigliari, può offrirgli qualcosa di paragonabile a quanto gli offre questo amico posseduto da un dio.
Allora il flusso d’amore scorre dall’innamorato all’innamorato, li riempie e trabocca (e[xw ajporrei`, 255c). Il flusso della bellezza (tou` kavllou~ rJeu`ma) allora va e viene dall’uno all’altro
 Quindi la corrente di bellezza attraverso gli occhi raggiunge l'anima, la eccita al volo e irrora i condotti delle penne (ta; ~ diovdou~ tw`n pterw`n) stimolando la crescita delle ali.

Se prevalgono gli elementi migliori dell'anima, questi si oppongono ai peggiori met j aijdou'" kai; lovgou, con pudore e ragione, ed essi sono ejgkratei'" auJtw'n, padroni di se stessi, kai; kovsmioi.

Allora queste le parti più elevate dell’anima conducono a una vita ordinata e alla filosofia (256b).
Quindi, alla fine della vita, costoro hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche necessarie per tornare in cielo.
I due amanti che fanno l'amore, pur senza mettere le ali, sentono la sollecitazione a rivestirsene purché siano fedeli.
Ma l'intimità con chi non ti ama, dispensando beni mortali e meschini, genera grettezza e condanna l'anima a rotolare per novemila anni priva di intelletto256e.
 Dunque, dice Socrate, Amore, io ho fatto la palinodia; tu non negarmi il tuo talento amoroso e fammi amare dai belli, più di prima: " divdou d& e[ti ma'llon h] nu'n para; toi'" kaloi'" tivmion ei\nai". Fai ravvedere anche Lisia e volgilo all'amore della sapienza come il fratello Polemarco. Lisia dunque è stato battuto perché non sa cosa sia l'amore.

Ancora il Fedro di Platone
L’anima umana dunque è formata da tre parti: un auriga, un cavallo buono, di colore bianco, ben fatto, amante di gloria e di temperanza; e un cavallo nero, contorto massiccio, messo insieme a casaccio (eijkh`/,), amico della protervia e dell’impostura 253e. Il bianco è obbediente all’auriga (oJ me; n eujpeiqh; ~ tw`/ hJniovcw/, 254a) ed è tenuto a freno dal pudore e si trattiene dal balzare addosso all’amato.
L’altro invece si porta avanti skirtw`n de; biva/, balzando con violenza. L’auriga e il bianco vengono trascinati e si sentono costretti a cose vergognose e inique. Giunti vicino all’amato, l’auriga ricorda la natura del Bello e lo vede collocato con la Temperanza (meta; swfrosuvnh~, 254b) su un piedistallo immacolato. Sicché l’auriga tira indietro le redini e i due cavalli devono piegarsi sulle cosce; il riottoso contro la sua volontà.
Quando riprende fiato, il cavallo nero lancia insulti con ira (ejloidovrhsen ojrgh`/, 254c) contro l’auriga e il compagno accusandoli di viltà e debolezza. Quindi riprende a tirare (met j ajnaideiva~ e{lkei (254d), trascina con impudenza. Ma l’auriga tira indietro il freno dai denti del cavallo protervo con maggior forza e insanguina la lingua maldicente e le mascelle e gli fa piegare a terra le cosce. Dopo che questa mossa si è ripetuta più volte il malvagio fa cessare la sua protervia, umiliato dalla previdenza dell’auriga, e quando vede il bello si sente venir meno per la paura: kai; o{tan i[dh to; n kalovn, fovbw/ diovllutai (254e).

Lo scopo cui tende amore, secondo Diotima del Simposio platonico è la procreazione nel bello secondo il corpo e secondo l'anima: "tovko" ejn kalw'/ kai; kata; to; sw'ma kai; kata; th; n yuchvn" (2O6b).

Plotino riprende Platone.
Le cose belle sono quelle congeniali alla Yuchv che è una manifestazione del Nou`~ che è il primo prodotto dell’Uno.

Plotino (205 - 270 d. C.) 6 Enneadi, ciascuna con 9 scritti. Furono edite dal discepolo Porfirio che scrisse una Vita di Plotino.
La sesta parte della prima Enneade riguarda il bello: Peri; tou' kalou'. C’è il bello nella combinazione delle parole, nei ritmi, nella virtù. Alcune cose come i corpi sono belli non per la loro stessa sostanza, ajlla; meqevxei, per la loro partecipazione. La natura della virtù invece è bella per se stessa. Tutti affermano che la bellezza dei corpi consiste nella simmetria delle parti tra loro (summetriva tw'n merw'n pro; ~ a[llhla). Simmetria e misura. Dottrina stoica. Per costoro il bello non è ajplou'n, semplice, ma composto da parti.
Teniamo conto che secondo Plotino noi giungiamo al Sommo, all’Essere originario (to; prw'ton) quando ci innalziamo al di sopra anche del pensiero in uno stato di e[kstasi~ e di a[plwsi~, di semplificazione. Per costoro, i colori, come la luce del sole, sarebbero privi di bellezza perché sono semplici. Ma la simmetria può esserci anche tra pensieri cattivi, come che la temperanza sia una sciocchezza e che la giustizia sia una generosa ingenuità.
La virtù è una bellezza dell’anima senza che in lei ci siano parti simmetriche. Che cosa è dunque la bellezza dei corpi tiv dh'tav ejsti to; ejn toi'~ swvmasi kalovn; (2).
 L’anima respinge ciò che le è discordante ed estraneo. L’anima (Yuchv) è manifestazione del Nou'~ che è il primo prodotto dell’Uno. L’anima dunque si compiace di contemplare ciò che vede dello stesso genere suo (suggenev~) o le tracce del congeniale (h] i[cno~ tou' suggenou'~). Allora gioisce e rimane stupita e lo riporta a se stessa e si ricorda di sé e di ciò che le appartiene (cfr. Fedro 250 e Simposio 209). Le bellezze inferiori e superiori hanno una oJmoivoth~, rassomiglianza in quanto in loro c’è la metochv ei[dou~, la partecipazione a una idea, a una forma.

Di nuovo Cicerone
Cicerone consiglia una semplicità elegante al suo gentiluomo quando pone le basi del galateo nel De officiis [10]: “quae sunt recta et simplicia laudantur. Formae autem dignitas coloris bonitate tuenda est, color exercitationibus corporis. Adhibenda praeterea munditia est non odiosa nec exquisita nimis, tantum quae fugiat agrestem et inhumanam neglegentiam. Eadem ratio est habenda vestitus, in quo, sicut in plerisque rebus, mediocritas optima est” ( I, 130), viene lodata la naturalezza e la semplicità. Ora la dignità dell'aspetto deve essere conservata mediante il bel colore dell'incarnato, il colore con gli esercizi fisici. Inoltre deve essere impiegata un'eleganza non sfacciata né troppo ricercata, basta che eviti la trascuratezza contadinesca e incivile. Lo stesso criterio si deve adottare nel vestire dove, come nella maggior parte delle cose, la via di mezzo è la migliore. Lo stesso, abbiamo visto, afferma Seneca.
La bellezza può essere quella del corpo, del viso, dei capelli, degli occhi: Properzio scrive “"si nescis, oculi sunt in amore duces " (II, 15, 12).

La bellezza può essere curata attraverso il cultus, ma anche trasandata. Ovidio scrive: "Forma viros neglecta decet; Minoida Theseus/abstulit, a nulla tempora comptus acu; / Hippolitum Phaedra, nec erat bene cultus, amavit; / cura deae silvis aptus Adonis erat " (Ars amatoria, I, vv. 507 - 510), agli uomini sta bene la bellezza trasandata; Teseo rapì la figlia di Minosse senza forcine che tenessero in ordine i capelli sulle tempie; Fedra amò Ippolito e non era gran che curato; Adone avvezzo alle selve era oggetto d'amore di una dea.

Ancora Ovidio + Seneca
Ovidio "nelle sue oscillazioni poco tormentate si ferma alla proposta di un cultus misurato che eviti gli eccessi del lusso e, nello stesso tempo, di una raffinatezza dannosa. Per l'uomo egli rifiuta un trattamento dei capelli e della pelle che lo renda simile agli eunuchi servitori di Cibele (Ars I 505 sgg.): l'ideale virile è un equilibrio fra la mundities e la robustezza data dagli esercizi del Campo Marzio (ibid. 513 sg.): Munditiae placeant, fuscentur corpora Campo; /sit bene conveniens et sine labe toga.
Dunque, né rusticitas né effeminatezza"[11]. L'eleganza piaccia, siano abbronzati i corpi al Campo Marzio; la toga stia bene e sia senza macchie (vv. 511 - 512).
Anche per Seneca è auspicabile la via di mezzo: "non splendeat toga, ne sordeat quidem" (Epist. , 5, 3), non brilli la toga, ma neppure sia sudicia.
E' interessante notare che nella Repubblica di Platone la rivolta contro l'oligarchia parte dal povero snello e abbronzato ijscno; " ajnh; r pevnh" hJliwvmeno" (556d) il quale è schierato in battaglia accanto al ricco cresciuto nell'ombra con molta carne superflua (paratacqei; " ejn mavch/ plousivw/ ejskiatrofhkovti, polla; " e[conti savrka" ajllotriva"), , lo vede pieno di affanno e difficoltà e capisce che non vale nulla e che quindi il suo potere non è naturale.

La semplicità insomma non sia rozza, sprovveduta e inopportuna ma voluta e conquistata. Marziale[12] la chiama prudens simplicitas (X, 47, 7) semplicità accorta e la considera uno dei mezzi che abbelliscono la vita (vitam quae faciant beatiorem, v. 1). Si sente la lezione ovidiana: la simplicitas rudis (A. a. III, 113) non si confà alla Roma moderna.
Pirra è simplex munditiis (Odi I, 5, 5) semplice nell'eleganza.

La bellezza nella morte

Alfieri nel 1770 tornò a Berlino e andò a vedere il luogo dove si svolse una battaglia della guerra dei sette anni (1756 - 1763): "Passando per Zorendorff, visitai il campo di battaglia tra’ russi e prussiani, dove tante migliaia dell’uno e dell’altro armento rimasero liberate dal loro giogo lasciandovi l’ossa. Le fosse sepolcrali vastissime, vi erano manifestamente accennate dalla folta e verdissima bellezza del grano, il quale nel rimanente terreno arido per sé stesso ed ingrato vi era cresciuto misero e rado. Dovei fare allora una trista, ma pur troppo certa riflessione; che gli schiavi son veramente nati a far concio (3, 9).

La riflessione impietosa, quasi empia, non annulla la positività della vita che trionfa sulla morte dalla quale rinasce sempre in forme rinnovate, nella folta e verdissima bellezza del grano.

Si può estendere a questo pensiero quanto scrive Steiner di Omero e di Tolstoj: “Perfino nel mezzo della carneficina la vita si leva a sovrastare tutto il resto. Attorno al tumulo sepolcrale di Patroclo i capi greci lottano, gareggiano e lanciano il giavellotto a celebrazione della loro forza e della loro vitalità. Achille conosce il destino che incombe su di lui, ma "Briseide guancia graziosa" lo raggiunge ogni notte. La guerra e la morte seminano distruzione nel mondo di Omero come in quello di Tolstoj, ma il centro resiste: ed è l'affermazione che la vita è, in se stessa, un avvenimento di bellezza, che le opere e i giorni degli uomini sono degni di essere ricordati e che nessuna catastrofe - neppure l'incendio di Troia o di Mosca - è mai definitiva. Poiché oltre le torri fumanti e oltre la battaglia rolla il mare color del vino, e quando Austerlitz sarà dimenticata le messi torneranno, per usare un'immagine di Pope, "a imbiondire il pendio". Questa cosmologia è riunita tutta intera nell'ammonimento di Bosola alla Duchessa di Malfi [13] che maledice la natura in un estremo impeto di ribellione: "Guarda, le stelle brillano ancora". Sono parole tremende, piene di distacco e dell'aspra consapevolezza che il mondo fisico contempla impassibile i nostri dolori. Ma superiamo la crudeltà dell'impatto e vedremo che esse contengono l'assicurazione che la vita e la luce delle stelle dureranno al di là di qualsiasi momentaneo caos"[14].

Saffo
Il fr. 2D è la parte dell'ode conservata dall'Anonimo trattato di estetica Sul sublime. del I secolo d. C. E' forse la poesia più nota di Saffo poiché è stata tradotta da Catullo nel carme 51. Cominciamo con il darne una traduzione nostra:
"Quello mi sembra pari agli dei
essere, l'uomo che davanti a te
sta seduto e da vicino ti ascolta
dolcemente parlare
e sorridere amabilmente, cosa che a me certo
sconvolge il cuore nel petto:
appena infatti ti guardo per un momento, allora non
è permesso più che io dica niente
ma la lingua mi rimane spezzata
ka; m glw'ssa m j e[age[15]
un fuoco sottile subito corre sotto la pelle
e con gli occhi non vedo nulla e mi
rombano le orecchie
e un sudore freddo mi cola addosso, e un tremore
mi prende tutta, e sono più verde
dell'erba, poco lontana dall'essere morta
appaio a me stessa
ma bisogna sopportare tutto poiché… "
strofe saffiche

Qui finisce la citazione dell'Anonimo Sul Sublime il quale si chiede (10) dove stia la grandezza di Saffo e risponde: “Saffo prende le sofferenze che capitano nelle follie amorose dai fatti conseguenti e dalla verità stessa in ogni occasione. Dove mostra la sua capacità? Nel fatto che è straordinaria nello scegliere e collegare tra loro i vertici e gli aspetti di massima tensione”.
Quindi cita l'ode e ripete che il capolavoro è prodotto dalla scelta dei momenti più intensi e dal loro collegamento. “h J lh'yi~ d j wJ~ e[fhn tw'n a[krwn kai; hJ eij~ taujto; sunaivresi~ ajpeirgavsato th; n ejxochvn”, la scelta, come dicevo, dei vertici e la loro concentrazione nello stesso componimento nel medesimo punto ha prodotto l’eccellenza”.

La bellezza incute paura
Anche Leopardi, quando tratta di bellezza nello Zibaldone (pp. 3443 - 3444), cita, in greco, i vv. 5 - 6 del carme di Saffo, dopo avere riportato questi della Canzone XIV[16] di Petrarca (Rime, CXXVI, 53 - 55):
"Quante volte diss'io
allor pien di spavento/
"Costei per fermo nacque in paradiso!".
 Quindi fa seguire un commento relativo a entrambi gli autori: " E' proprio dell'impressione che fa la bellezza... su quelli d'altro sesso che la veggono o l'ascoltano o l'avvicinano, lo spaventare, e questo si è quasi il principale e il più sensibile effetto ch'ella produce a prima giunta, o quello che più si distingue e si nota e risalta. "

Aristotele Politica 1311a
Lo scopo del tiranno è il piacere (to; hJduv), quello del re to; kalovn, la bellezza.
Nella Retorica (1389b) Aristotele, sparlando a proposito e a sproposito dei vecchi, dice che sono fivlautoi ma'llon h] dei', egoisti più del dovuto e che questa è una forma di mikroyuciva, meschinità: kai; pro; ~ to; sumfevron zw'sin, ajll j ouj pro; ~ to; kalovn, vivono per l’utile e non per il bello, proprio per il fatto di essere egoisti: l’utile infatti è un bene individuale, mentre il bello è un bene assoluto (to; de; kalo; n aJplw'~).

Secondo Jaeger nella cultura greca"la considerazione dell'utile è indifferente o ad ogni modo accessoria e l'elemento decisivo è invece il kalovn, cioè il Bello, col valore impegnativo d'un miraggio, d'un ideale… Dai poemi di Omero alle opere filosofiche di Platone e Aristotele la parola kalovn, "il bello" denota una delle più significative forme del valore personale. In contrasto a parole come hjduv o sumfevron, il piacevole o l'utile, kalovn significa l'ideale... Un'azione è fatta dia; to; kalovn, ogni volta che esprime semplicemente un ideale umano come fine a se stesso, non quando serve a un altro fine. "[17]
 Nel romanzo I demoni di Dostoevskij, Stepan Trofimovič, del resto un personaggio negativo, liberal - occidentalista, afferma che l’umanità potrebbe vivere senza la scienza “solo senza la bellezza non potrebbe, perché non ci sarebbe nulla da fare al mondo!... La stessa scienza non resisterebbe un minuto senza la bellezza!”
 (p. 524).

Bellezza e didattica. Dalla mia metodologia
59. 4. Le frasi belle sono la luce del pensiero e colpiscono la sfera emotiva. Bettini: la citazione antologizza il classico fino alla carne viva. Fellini, Seneca, Leopardi e Carlyle. Manzoni: l’utile, il vero e l’interessante. La bellezza eleva anche la virtù. Dobbiamo scegliere testi che piacciano prima di tutto a noi. Borges: non ho insegnato la letteratura inglese ma l’amore per certe frasi. Tolstoj. Luperini e la scelta libera dei testi. La Mastrocola e il piacere della condivisione. Alfieri aveva la testa “antigeometrica” e, invece, “genio per le cose drammatiche”. Nietzsche e l’arte che anestetizza il dolore. Proust: il lavoro dell’artista è un rivelamento di noi stessi.
Vanno segnalate, possibilmente citate a memoria, le frasi belle che sono la luce del pensiero, la sua parte poetica e artistica che, colpendo la sfera emotiva, si presta a essere ricordata. Citare non è saccheggiare: “Agli occhi dell’artista un pensiero in quanto tale non avrà mai un gran valore di proprietà. A lui importa che possa funzionare nell’ingranaggio spirituale dell’opera”[18].
“Esiste comunque un metodo sicuro, e soprattutto molto rapido, per rendere sfizioso qualsiasi classico: quello della citazione. La citazione infatti antologizza il classico fino alla carne viva, gli attribuisce una tale misura minimale che a questo punto la sfiziosità è comunque garantita. Questo spiega perché, negli ultimi tempi, le raccolte di citazioni si sono moltiplicate (mettendo inaspettatamente in buona compagnia la gloriosa Ape Latina di Fumagalli): tanto che in alcuni paesi, come gli Stati Uniti, le grandi librerie dispongono addirittura di un apposito settore in cui sono allineati i libri di citazioni di ogni possibile letteratura. Il fatto è che, nella citazione, il classico diventa talmente piccolo da poter entrare persino in una “battuta”. [19]

Sentiamo Fellini: "Il bello sarebbe meno ingannevole e insidioso se cominciasse a venir considerato bello tutto ciò che dà un'emozione, indipendentemente dai canoni stabiliti. Comunque venga toccata, la sfera emotiva sprigiona energia, e questo è sempre positivo, sia dal punto di vista etico che da quello estetico. Il bello è anche buono. L'intelligenza è bontà, la bellezza è intelligenza: l'una e l'altra comportano una liberazione dal carcere culturale"[20].
Un'idea simile si trova in una epistola di Seneca: "advocatum ista non quaerunt: adfectus ipsos tangunt et natura vim suam exercente proficiunt…erigitur virtus cum tacta est et inpulsa" (94, 28 e 29), queste parole belle[21] non hanno bisogno di un difensore: toccano direttamente la parte emotiva e giovano grazie alla natura che esercita la sua forza…la virtù si drizza quando viene toccata e stimolata.
“qual altro è il proprio uffizio e scopo della poesia se non il commuovere, così o così, ma sempre commuover gli affetti…Bello effetto[22] di un dramma, di una rappresentazione, di una poesia; lasciare di se tal vestigio negli animi degli spettatori o uditori o lettori, come s’e’ non l’avessero né veduta né letta. Meglio varrebbe essere stato a uno spettacolo di forze, di giuochi equestre, e che so io, i quali pur lasciano nell’animo alcuna orma di maraviglia o di diletto o d’altro”[23].
“Da questo punto di vista, anche una frase di Goethe, tra le altre, che ha molto stupito parecchi, può avere un significato: “Il Bello - egli dichiara - è più alto del Bene; il Bello avvolge in sé il Bene”. Il vero Bello, come del resto ho detto altrove, “differisce dal falso come il cielo differisce dall’inferno”[24].

“Il nobile favorisce la bellezza dell’uomo, l’uomo comune la bruttezza”[25].
La bellezza dunque è spesso morale, eleva anche la virtù, e comunque, quale strumento didattico, serve a catturare l'attenzione degli studenti, degli ascoltatori in genere; senza l'attenzione di chi ascolta, il lovgo" di chi parla si degrada a un verso di papero.
L'attenzione si ottiene con racconti interessanti, quindi belli, e non inutili. Lo dichiarano Tucidide e Polibio nelle loro Storie, e pure Manzoni nella Lettera a Cesare d'Azeglio[26]: "Il principio di necessità tanto più indeterminato quanto più esteso mi sembra poter essere questo: che la poesia e la letteratura in genere debba proporsi l'utile per iscopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo".
Interessante è la bellezza. Negli scritti come nelle donne e negli uomini

I testi che scegliamo devono piacere innanzitutto a noi. Se non piacciono a noi tanto meno piaceranno a quanti li racconteremo
 A questo proposito sentiamo J. L. Borges: "Nel mio testamento, che non ho intenzione di scrivere, consiglierei di leggere molto, ma senza lasciarsi condizionare dalla reputazione degli autori. L'unico modo di leggere è inseguendo una felicità personale. Se un libro vi annoia, fosse pure il Don Chisciotte, accantonatelo: non è stato scritto per voi… Non ho insegnato agli studenti la letteratura inglese, che ignoro, ma l'amore per certi autori. O meglio per certe pagine. O meglio, di certe frasi. Ci si innamora di una frase, poi di una pagina, poi di un autore"[27].

Un consiglio del genere dà pure Tolstoj: "Se vuoi insegnare qualcosa allo scolaro, ama la tua materia e conoscila, e gli scolari ameranno te e la tua materia e tu potrai educarli; ma se tu sei il primo a non amarla, per quanto li obblighi a studiare, la scienza non eserciterà nessuna azione educativa". Gli studenti, aggiunge il maestro russo, sono i migliori giudici dell'educatore, l'unico test per valutarlo: "E anche qui la salvezza è una sola: la libertà degli scolari di ascoltare o non ascoltare il maestro, di recepire o non recepire la sua azione educativa, cioè essi soli possono decidere se il maestro conosce e ama la sua materia"[28].

“Non si può fare leggere dei testi solo per obbedire a una costrizione e cioè perché sono imposti da un programma o da un canone; l’insegnante deve invece mostrare, agendo all’interno della comunità ermeneutica della classe, che tali testi sono letti perché hanno un significato e un valore per noi…Né si può escludere a priori che un insegnante e la sua classe arrivino a conclusioni opposte rispetto ai presupposti iniziali, e cioè alla presa d’atto che un determinato testo o autore non abbia oggi un particolare valore e un significato e che sia perciò giusto leggere altre opere o altri autori”[29].
“Una cosa ti piace? Bene, la condividi. Io direi che esattamente questo è insegnare, niente di più: il piacere immenso della condivisione”[30].
Credo pure che non sia necessario, e nemmeno opportuno, che ciascuno studi tutte le discipline: ognuno deve dedicarsi presto a quelle per le quali è portato.
Vittorio Alfieri non era incline alla geometria: “Di quella geometria, di cui io feci il corso intero, cioè spiegati i primi sei libri di Euclide, io non ho neppur mai intesa la quarta proposizione; come neppure la intendo adesso; avendo io sempre avuta la testa assolutamente anti - geometrica” (Vita, 2, 4).
 Il maestro deve aiutare il discepolo a scoprire i suoi talenti e incoraggiarlo a farli fruttare: “Mi capitarono anche allora[31] varie commedie del Goldoni, e queste me le prestava il maestro stesso; e mi divertivano molto. Ma il genio per le cose drammatiche, di cui forse il germe era in me, si venne tosto a ricoprire o ad estinguersi in me, per mancanza di pascolo, d’incoraggiamento, e d’ogni altra cosa. E, somma fatta, la ignoranza mia e di chi mi educava, e la trascuraggine di tutti in ogni cosa non potea andar più oltre (Vita, 2, 4).
L'educatore deve essere un poco come l'artista e stimolare il pensiero: "Ogni parola, espressa da un talento artistico, si tratta di Goethe o di Fed'ka, si differenzia dall'espressione non artistica per il fatto che essa suscita una quantità innumerevole di pensieri, di immagini e di interpretazioni"[32].

"L'arte deve far brillare ciò che è significativo di fra ciò che è inevitabilmente o invincibilmente brutto"[33].
Un antidoto alla pubblicità.

L'arte deve riscattare, estetizzare e anestetizzare l'atroce e l'assurdo della vita, salvare l'uomo terrorizzato o disgustato dal pericolo della paralisi: " Ed ecco, in questo estremo pericolo della volontà, si avvicina, come una maga che salva e risana, l'arte; soltanto lei è capace di volgere quei pensieri di disgusto per l'atrocità o l'assurdità dell'esistenza in rappresentazioni con cui si possa vivere: queste sono il sublime come repressione artistica dell'atrocità e il comico come sfogo artistico del disgusto per l'assurdo"[34].

“Questo lavoro dell’artista, vòlto a cercar di scorgere sotto una certa materia, sotto una certa esperienza, sotto certe parole, qualcos’altro, è esattamente inverso a quello che, in ogni istante, allorché viviamo stornati da noi stessi, l’orgoglio, la passione, l’intelligenza, e anche l’abitudine, compiono in noi, ammassando sopra le nostre genuine impressioni, per nascondercele, le nomenclature, gli scopi pratici, cui diamo erroneamente il nome di “vita”. Insomma, quest’arte così complessa è davvero la sola arte viva”[35].
Bellezza e semplicità
“l’affettazione è la peste d’ogni bellezza e d’ogni bontà, perciò appunto che la prima e più necessaria dote sì dello scrivere, come di tutti gli atti della vita umana, è la naturalezza (28. Feb. 1821)[36].
La bellezza ha una potenza divina.
Per quanto riguarda l'instabilità e l'inaffidabilità delle donne giovani e belle, Ovidio negli Amores è molto comprensivo: il tradimento infatti non sciupa la bellezza e perfino gli dèi lo concedono: " Esse deos credamne? Fidem iurata fefellit, /et facies illi quae fuit ante manet... Longa decensque fuit: longa decensque manet. /Argutos habuit: radiant ut sidus ocelli, /per quos mentita est perfida saepe mihi. /Scilicet aeterni falsum iurare puellis/di quoque concedunt, formaque numen habet " (Amores, III, 3, 1 - 2 e 8 - 12), devo credere che ci sono gli dèi? Ha tradito la parola data, /eppure le rimane l'aspetto che aveva prima… Era alta e ben fatta; alta e ben fatta rimane. /Aveva gli occhi espressivi: brillano come stelle gli occhi, /con i quali spesso la perfida mi ha ingannato. /Certo anche gli dèi eterni permettono alle ragazze/di giurare il falso, e la bellezza ha una potenza divina.
Bellezza e virtù. La bellezza purtroppo è fugace.
"Non certo per i miei farmaci[37] ti odia lo sposo/ ma se non sei adatta a vivere con lui. /E' un filtro amoroso anche questo: non la bellezza, o donna, / ma le virtù fanno felici i mariti. " - (Euripide, Andromaca, vv. 205 - 208).
Lo stesso consiglio dà Ovidio nei Medicamina faciei (1 d. C.): siccome l'aspetto piace se anche il carattere è attraente (ingenio facies conciliante placet, v. 44) il poeta raccomanda la tutela morum (v. 43), la cura del comportamento: "Certus amor morum est, formam populabitur aetas, / et placitus rugis vultus aratus erit " (45 - 46), sicuro è l'amore del costume, la bellezza verrà devastata dall'età, e il volto piacente sarà solcato da rughe.
Bellezza e intelligenza
Sentiamo il seduttore di Kierkegaard: " Che cosa teme una ragazza? Lo spirito. Perché? Perché lo spirito rappresenta la negazione di tutta la sua esistenza femminile. Una bellezza maschile, un aspetto lusinghevole eccetera, sono ottimi mezzi. Con essi si può anche giungere a varie conquiste, ma non mai a una vittoria completa. Perché? Perché con essi si porta guerra a una fanciulla nel suo stesso campo, e nel proprio campo ella è sempre la più forte. Con tali mezzi si può spingere una fanciulla ad arrossire, ad abbassare gli occhi, ma mai si arriva a ingenerarle quell'ansia soffocante e indescrivibile che rende interessante la bellezza. Non formosus erat, sed erat facundus Ulixes/et tamen aequoreas torsit amore deas "[38].
La bellezza giustifica la vita. Senza bellezza non si può vivere.
La giustificazione estetica della vita umana, il culto della bellezza, è un'altra delle ragioni per cui i Greci sono nostri padri spirituali.
Soltanto nella bellezza si può tollerare il dolore di vivere, afferma Polissena quando antepone una morte dignitosa a una vita senza onore: "to; ga; r zh'n mh; kalw'~ mevga~ povno~, (Ecuba, v. 378), vivere senza bellezza è un grande tormento".

Il culto della bellezza nella vita e nella morte non manca in Sofocle: Antigone dice a Ismene: ma lascia che io e la pazzia che spira da me/soffriamo questa prova tremenda: io non soffrirò/nulla di così grave da non morire nobilmente"peivsomai ga; r ouj - tosou`ton oujden w{ste mh; ouj kalw`~ qanei`n ( Antigone, vv. 95 - 97).
 Aiace il quale risponde al corifeo (vv. 479 - 480): "ajll j h] kalw'" zh'n h] kalw'" teqnhkevnai - - to; n eujgenh' crhv" ma il nobile deve o vivere con stile, o con stile morire.
 Altrettanto afferma Neottolemo, il figlio schietto dello schietto Achille, in faccia al subdolo Odisseo del Filottete: "
 bouvlomai d j, d', a[nax, kalw'" - drw'n ejxamartei'n ma'llon h] nika'n kakw'" " (vv. 94 - 95), preferisco, sire, fallire agendo con nobiltà che avere successo nella volgarità.

Nell'Eracle, Euripide attraverso "il cantuccio" del coro fa questa sua dichiarazione d'amore alla bellezza e alla poesia: "non cesserò mai di unire le Grazie alle Muse, dolcissimo connubio. Che io non viva senza la Poesia ma sia sempre tra le corone. Ancora vecchio l'aedo fa risuonare la Memoria"(vv. 673 - 679).
La bellezza si accompagna alla semplicità e alla sobrietà.
La bellezza deve essere coniugata con la semplicità, come dice in sintesi il Pericle di Tucidide: "filokalou'mevn te ga; r met j eujteleiva"[39] kai; filosofou'men a[neu malakiva"" (Storie, II, 40, 1) in effetti amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza.

Un aspetto della bellezza è la giovinezza
La giovinezza è preferibile alla ricchezza, ed è bellissima tanto nella prosperità quanto nella povertà: “kallivsta me; n ejn o[lbw/, - kallivsta d j ejn peniva/”, Euripide, Eracle, vv. 647 - 648. Se gli dèi avessero intelligenza e sapienza (xuvnesi" - kai; sofiva) secondo i criteri umani donerebbero una doppia giovinezza (divdumon h{ban) come segno evidente di virtù a quanti la posseggono, ed essi, una volta morti, di nuovo nella luce del sole (eij" aujga" pavlin aJlivou), percorrerebbero una seconda corsa, mentre la gente ignobile avrebbe una sola possibilità di vita (Euripide, Eracle, vv. 661 - 669).
Marziale afferma che l’uomo buono, privo di rimorsi, gode del frutto del suo passato e accresce lo spazio della propria esistenza: “ampliat aetatis spatium sibi vir bonus: hoc est/vivere bis, vita posse priore frui” (X 23, 7 - 8).


Nietzsche e l’Apollineo
Nietzsche parla di giustificazione estetica della vita data dall’arte. Senza questa ci sarebbe la sapienza silenica e la negazione buddistica della volontà, per l’impossibilità, denunciata da Amleto di rimettere in sesto un mondo uscito dai cardini. Ma l’arte trasforma l’atroce in sublime e l’assurdo in comico
“Il culto dell’immagine che è proprio della cultura apollinea, quale si manifesta nel tempio, nella statua o nell’epos omerico, aveva il suo scopo più alto nell’esigenza etica della misura, che corre parallela all’esigenza estetica della bellezza…La misura, sotto il cui giogo si muoveva il nuovo mondo di dèi (a fronte di un distrutto mondo di Titani), era quella della bellezza: il limite, cui il greco doveva attenersi, quello della bella apparenza”[40].
La bella apparenza spesso può nascondere il profondo ma può anche prefigurarlo: “Oh questi Greci! Loro sì sapevano vivere; per vivere occorreva arrestarsi animosamente alla superficie, all’increspatura, alla scorza, adorare l’apparenza, credere a forme, suoni, parole, all’intero olimpo dell’apparenza! Questi Greci erano superficiali –per profondità! E non facciamo appunto ritorno a essi, noi temerari dello spirito…Non siamo esattamente in questo –dei Greci? Adoratori delle forme, dei suoni, delle parole? Appunto perciò…artisti”[41].
“E’ cosa abbastanza strana, per quanto ben comprensibile, che la prima forma in cui lo spirito europeo si è ribellato all’età borghese sia stato l’estetismo. Non a caso ho nominato insieme Nietsche e Wilde come ribelli, e propriamente ribelli in nome della bellezza”[42].
“La vita può giustificarsi soltanto come fenomeno estetico”[43].
Confutazione e inversione della sapienza silenica.
Non bisogna trascurare la componente estetica della civiltà ellenica che si distingue dalle altre anche per il culto della bellezza; secondo Nietzsche i Greci hanno vinto l'orrore del caos e rovesciato la triste sapienza silenica, la quale rifiuta la vita, attraverso la giustificazione estetica ed eroica dell'esistenza umana: "Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell'esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L'enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, l'avvoltoio del grande amico degli uomini Prometeo, il destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe degli Atridi, che costringe Oreste al matricidio, insomma tutta la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i melanconici Etruschi, fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dei olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi: questo evento noi dobbiamo senz'altro immaginarlo così, che dall'originario ordinamento divino titanico del terrore fu sviluppato attraverso quell'impulso apollineo di bellezza, in lenti passaggi, l'ordinamento divino olimpico della gioia, allo stesso modo che le rose spuntano da spinosi cespugli… Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi - la sola teodicea soddisfacente! L'esistenza sotto il chiaro sole di dèi simili viene sentita come ciò che è in sé desiderabile, e il vero dolore degli uomini omerici si riferisce al dipartirsi da essa, soprattutto al dipartirsene presto: sicché di loro si potrebbe dire, invertendo la saggezza silenica, " la cosa peggiore di tutte è per essi morire presto, la cosa in secondo luogo peggiore è di morire comunque un giorno". Se una volta risuona il lamento, ciò avviene per Achille dalla breve vita, per l'avvicendarsi e il mutare della stirpe umana come le foglie[44], per il tramonto dell'età degli eroi. Non è indegno neanche del più grande eroe bramare di vivere ancora, fosse pure come un lavoratore a giornata[45]. Nello stadio apollineo la "volontà" desidera quest'esistenza così impetuosamente, l'uomo omerico si sente con essa così unificato, che perfino il lamento si trasforma in un inno in sua lode"[46].
Dal dolore dei Greci si sviluppa non solo la comprensione ma anche la bellezza, una sorta di tw/' pavqei kavllo": "Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore…la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppata dalla mancanza, dalla privazione, dalla malinconia e dal dolore…quanto dovette soffrire questo popolo, per poter diventare così bello!"[47].
Con il termine apollineo si esprime: l'impulso verso il perfetto essere per sé, verso l'"individuo" tipico, verso tutto ciò che semplifica, pone in rilievo, rende forte… Lo sviluppo ulteriore dell'arte è legato all'antagonismo di queste due forze artistiche della natura così necessariamente come lo sviluppo ulteriore dell'umanità è legato all'antagonismo dei sessi. La pienezza della potenza e la moderazione, la più alta affermazione di sé in una bellezza fredda, aristocratica, ritrosa: l'apollinismo della volontà ellenica"[48].
“Nel fondo del Greco c'è la mancanza di misura, la caoticità, l'elemento asiatico: la prodezza del Greco consiste nella lotta con il suo asiatismo: la bellezza non gli è donata, non più della logica, della naturalezza dei costumi - esse sono conquistate, volute, strappate - sono la sua vittoria"[49]. .
L’apollineo è la giustificazione estetica della vita umana terrorizzata dai mostri del Caos primordiale e negata dalla cupa tristezza silenica che giudica non essere nati, non essere, la cosa più bella.
Lo stile della neglegentia
Seneca nella Fedra conferma la neglegentia di Ippolito: secondo la matrigna innamorata il figlio è più bello del padre Teseo quando era giovane: "in te magis refulget incomptus decor " (v. 657), in te brilla ha maggior fascino una bellezza incurante.
 Lo stile della neglegentia è quello dell'aristocrazia. Il fascino e l'eleganza sono luce ed emanazione della persona. Vediamo come hanno cercato di raffigurarli alcuni scrittori europei.
 La studiata disinvoltura, la sui neglegentia, l'apparente noncuranza di sé come mancanza di affettazione, e "apparenza" di naturalezza, quali virtù supreme dello stile vengono attribuite da Tacito a Petronio, uomo erudito luxu dalla voluttà raffinata, elegantiae arbiter, maestro di buon gusto alla corte di Nerone il quale infatti: "nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobavisset"[50], niente considerava bello e fine in quel fasto se non quanto Petronio gli avesse approvato.
Del resto l'eccessiva trascuratezza non viene mai approvata: Seneca biasima una moda del genere seguìta soprattutto da cinici e stoici e consiglia a Lucilio di evitarla: "asperum cultum et intonsum caput et neglegentiorem barbam et indictum argento odium et cubile humi positum et quidquid aliud ambitionem perversa via sequitur evīta" (Epist. , 5, 1), evita una mancanza di cura ferina e la testa incolta e la barba troppo trascurata e l'odio dichiarato all'argenteria e il giaciglio posto a terra e tutto il restante apparato che segue l'ambizione per una via distorta

 Petronio approvava l'apparenza della semplicità: "Ac dicta factaque eius quanto solutiora et quandam sui neglegentiam[51], praeferentia, tanto gratius in speciem simplicitatis accipiebantur"[52] le sue parole e i suoi atti quanto più erano liberi e manifestavano una certa noncuranza di sé, tanto più piacevolmente erano presi come segno di semplicità. Sembra un manifesto del dandy antico, e in effetti il raffinato autore del Satyricon, Petronius Arbiter, probabilmente la stessa persona, considera la propria opera caratterizzata da una straordinaria semplicità "novae simplicitatis opus " (Satyricon, 132).
Insomma, come nel caso di Sofronia della Gerusalemme liberata, "La vergine tra 'l vulgo uscì soletta, /non coprì sue bellezze, e non l'espose, /raccolse gli occhi, andò nel vel ristretta, /con ischive maniere e generose. /Non sai ben dir s'adorna o se negletta, se caso od arte il bel volto compose. /Di natura, d'Amor, de' cieli amici/le negligenze sue sono artifici" (II, 18).

Parini impiega il topos della neglecta coma e delle artificiose negligenze a proposito dell'acconciatura del Giovin Signore suo pupillo: "Ma il crin, Signore, /Forma non abbia ancor da la man dotta/Dell'artefice suo… Non senz'arte però vada negletto/su gli omeri a cader… Poi che in tal guisa te medesmo ornato/Con artificio negligente avrai; /Esci pedestre a respirar talvolta/I mattutini fiati (Il mattino[53], vv. 1005 e sgg.).
Questo stile della semplicità ricercata è adottato anche dal seduttore di Madame Bovary: "si scusò di essere anche lui così trascurato. Nel suo modo di vestirsi era quel miscuglio di trasandataggine e di ricercatezza in cui la gente, di solito, crede di intravedere la rivelazione di un'esistenza eccentrica, le sfrenatezze del sentimento, le tirannie dell'arte, il perpetuo disprezzo delle convenienze, insomma quanto può sedurre o esasperare" (p. 113).

Nei Guermantes di Proust, che costituiscono quasi il codice dell'aristocrazia redatto da un borghese, si legge che "i nobili fraternizzano più volentieri coi loro contadini che coi borghesi"[54]. Il raffinato Saint - Loup appariva di un'eleganza " libera e trascurata"[55] che si adattava perfettamente a "quel corpo, non opaco e oscuro…ma limpido e significativo". Un corpo attraverso il quale " le qualità tutte essenziali dell'aristocrazia …trasparivano, come si manifesta in un'opera d'arte la industre ed efficace potenza che l'ha creata, e rendevano i movimenti di quella corsa leggera…intellegibili e pieni di grazia come quelli di un cavaliere su un fregio architettonico"[56]. Si può avvicinare a questa descrizione quella che Plinio il Giovane dà di Aciliano che propone come sposo per la figlia di un amico: "Est illi facies liberalis, multo sanguine, multo rubore suffusa; est ingenua totius corporis pulchritudo" (I, 14), ha una faccia nobile, inondata di molta vita e molto colore; è schietta la bellezza di tutto il corpo.


Sentiamo John Keats
Incipit del poemetto Endymion (1818)
A thing of beauty is a joy for ever:
Its loveliness increases; it will never
Pass into nothingness”, una cosa bella è una gioia perenne: / la sua grazia aumenta sempre; mai/svanirà nel nulla

Ultimi versi dell’ Ode on a Grecian Urn (1819)
“Beauty is truth, truth beauty”, that is all -
Ye know on earth, and all ye need to know,
” “Bellezza è verità e verità bellezza”, questo è tutto/ quanto voi sapete sulla terra, e tutto quanto avete bisogno di sapere.

Chiudo con Foscolo
Ode all’amica risanata. (1803)
“E in te beltà rivive
L’aurea beltade ond’ebbero
Ristoro unico a’ mali
Le nate a vaneggiar menti mortali”.

Vediamo alcune parole dell'Idiota di Dostoevskij sulla bellezza femminile, quella di Aglaja Ivanovna de L'idiota: "E' difficile giudicare la bellezza… La bellezza è un enigma... Una bellezza simile è una forza... con una simile bellezza si può rovesciare il mondo"[57].



giovanni ghiselli. Bologna 23 marzo 2017








[1]Questa alta valutazione del cuore e del sentimento si ritroverà, com'è noto, negli autori dello Sturm und drang e del romanticismo: Goethe, in I dolori del giovane Werther scrive (9 maggio 1772): "egli apprezza la mia intelligenza ed i miei talenti più del mio cuore, che è pure l'unica cosa della quale sono superbo, che è pure la fonte di tutto, di ogni forza, di ogni beatitudine e di ogni miseria. Ah, quello che io so, lo può sapere chiunque - ma il mio cuore lo possiedo io solo".
[2] Un limite alla facundia, come del resto alla pietas, lo suggerisce Orazio: "Cum semel occideris et de te splendida Minos/ fecerit arbitria, / non Torquate, genus, non te facundia, non te/restituet pietas" (Carm. IV, 7, vv. 21 - 24), una volta che sarai morto e Minosse avrà dato sul tuo conto chiare sentenze, non la stirpe, Torquato, non la facondia, non la devozione ti restaurerà. Questo limite dunque è la morte, solo la morte.
[3] Ovidio, Ars Amatoria, II, 123 - 124. Bello non era ma era bravo a parlare Ulisse e pure fece struggere d'amore le dee del mare. Sono versi non per caso citati da Kierkegaard nel Diario del seduttore.
[4] Havelock, Op. cit. , p. 146.
[5]Il. III, 180. Noi l'abbiamo trovato nell'Odissea (IV, 145) e l'abbiamo tradotto "faccia di cagna".
[6] Iliade, III, 156 - 158.
[7]K. Kerényi, Miti e misteri, p. 54.
[8] Dante, Purgatorio, XXVI, 84.
[9] Da sumforevw.
[10] Del 44 a. C.
[11]A. La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana, p. 201.
[12] 40 ca. - 104 d. C.
[13]Di John Webster (1575 - 1630)
[14]G. Steiner, Tolstoj o Dostoevskij p. 81.
[15] Cfr. Miles gloriosus di Plauto l’ancilla paraninfa dice al Miles: "dum te obtuetur, interim linguam oculi praeciderunt" (v. 1271) , mentre Acroteleuzia ti guardava nel frattempo gli occhi le hanno tagliato la lingua.
[16] Chiare fresche e dolci acque (v. 1) .
[17] Paideia, 1, p. 27 e nota 4
[18] T. Mann, Doctor Faustus, p. 731.
[19] M. Bettini, I classici nell’età dell’indiscrezione, p. 66.
[20] F. Fellini, Intervista sul cinema, a cura di G. Grazzini, p. 114.
[21] Ha citato una sentenza di Publilio Siro e un emisticho dell'Eneide (X, 284) .
[22] E’ ironico ndr.
[23] Leopardi, Zibaldone, 3455 - 3456.
[24] T. Carlyle, Gli eroi (del 1841), p. 117.
[25] K. Jaspers cita Confucio in I grandi filosofi, p. 255.
[26] Del 1823.
[27] Dall'articolo di P. Odifreddi Se in cattedra sale un genio in “Il Sole - 24 ore” del 13 gennaio 2002, p. 33.
[28] Educazione e formazione culturale (del 1862), in Quale scuola?, p. 116.
[29] R: Luperini, Insegnare la letteratura oggi, p. 98.
[30] P. Mastrocola, La scuola raccontata al mio cane, p. 50.
[31] Nel 1760, quando il ragazzino, nato nel 1749 aveva undici anni ndr.
[32] Tolstoy, I ragazzi di campagna devono imparare da noi (del 1862) , in Quale scuola? , p. 126.
[33] F. Nietzsche, Umano troppo umano, II, p. 64.
[34] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 56.
[35] M. Proust, Il tempo ritrovato, p. 228.
[36] Zibaldone 705.
[37] Con i favrmaka (v. 205) e il fivltron (v. 207) Andromaca allude ai filtri e alle droghe delle maghe del mito e della letteratura: Circe, Calipso, Medea. 
[38] S. Kierkegaard, Diario del seduttore, p. 75. La citazione è tratta da Ovidio, Ars Amatoria, II, 123 - 124. Bello non era ma bravo a parlare Ulisse e pure fece struggere d'amore le dee del mare.
[39] E’ frugalità, parsimonia, è il basso prezzo facile da pagare (eu\, tevloς) è la bellezza preferita dai veri signori, quelli antichi, e incompresa dagli arricchiti che sfoggiano volgarmente oggetti costosi.
[40] La visione dionisiaca del mondo, p. 76.
[41] Nietzsche, Prefazione alla seconda edizioni di La gaia scienza (1886)
[42] T. Mann, Nobiltà dello spirito, p. 838.
[43] T. Mann, Nobiltà dello spirito, p. 813
[44] Cfr. Iliade, VI, 146: "oi[h per fuvllwn genehv, toivh de; kai; ajndrw'n", proprio quale la stirpe delle foglie, tale è anche quella degli uomini. (n. d. r.)
[45] Cfr. Odissea, XI, vv. 488 - 491. (n. d. r.)
[46] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 33.
[47] F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872) , p. 7 e p. 163.
[48] F. Nietzsche, Frammenti postumi, Primavera 1888 - 14, p. 216.
[49] F. Nietzsche, Frammenti postumi, Primavera 1888 - 14, p. 217.
[50] Annales, XVI, 18.
 [51]" Seneca nel De vita beata elogia un'altra forma, del tutto psicologica, di noncuranza, la fortunae neglegentia (I, 4, 5), quella della fortuna, quale viatico per la libertà dai piaceri e dai dolori, padroni assai capricciosi e prepotenti.
[52] Annales, XVI, 18.
[53] Pubblicato nel 1763.
[54] I Guermantes, (1920) . Trad. it. , Torino, 1978, p. 534.
[55] M. Proust, I Guermantes, p. 96.
[56] M. Proust, I Guermantes, p. 448.
[57]F. Dostoevskij, L'idiota (del 1869) , p. 96 e p. 101.