giovedì 4 luglio 2024

Ifigenia CXXXVIII La conclusione del viaggio nell’Ellade sacra.


 

Ifigenia si accorse che stavo meditando sul nostro rapporto.

Quindi depose la maschera e il ruolo della moglie assassina, prese quelli dell’amante premurosa e domandò:

“Che cosa pensi ora tu, amore mio?”

“Che ti amo perché tu sei comunque una donna non ordinaria e osservarti mi fa entrare nel cuore della realtà”.

Mi rivolse uno sguardo di gratitudine, poi, con un pizzico di ironia,  domandò: “Te ne accorgi soltanto qui aiutato a sintonizzarti con me dal palazzo e dalla tomba di Atreo?”

“No. L’ho capito da quando accolsi con trepida gioia la tua meravigliosa proposta di farti da maestro, da fratello e da amante. Adesso per giunta lo sento, cioè mi emoziono pensandolo, e sono sicuro che per te, figlia e madre dello spirito mio, scriverò una storia che spargerà la tua fama su tutta la terra e renderà la tua bellezza

immortale nonostante il volgere di milioni di stagioni che porta via quasi tutto. Adesso io ti amo con la testa e con il cuore, poiché mentre osservo la tua persona che ravviva queste rovine, riconosco che tu hai ridato vita alle mie rovine interiori”.

 

Mi fissava con la coscienza che queste non erano soltante parole.

Quindi rispose: “Tu sai riconoscere in me bellezza e poesia siccome le hai dentro. Io ti amo a mia volta e comunque andrà a finire tra noi, ti amerò sempre, poiché nella tua persona straordinaria raduni tutti i valori più alti dell’uomo davvero umano: intelligenza, onestà, volontà. Le doti che in altri sono divise e disperse tu le raccogli dentro di te in una sincrasia meravigliosa.

Né vuoi tenerle soltanto per te ma donarle a chi ne ha bisogno, a me sopratttto. E’ vero tesoro?”

Ci abbracciamo con forza lì sulle macerie della città ricca d’oro. Quasi facemmo l’amore davanti a un gruppo di turisti stupefatti.

Poi ripartimmo. Eravamo felici come poche altre volte. Tutto il bello sembrava rinato. Impiegammo la sera e la notte per uscire dall’Ellade, poi viaggiammo per altri due giorni.

Passammo alle Termopili sotto la statua di Leonida armato. Si leggeva la scritta Vieni a prenderle- Molw;n labev- vieni a prenderle.

“Noi siamo venuti in Grecia a prenderci a vicenda” disse Ifigenia.

C’era armonia tra noi. Si bevevo acqua, l’ottima acqua di Pindaro, la sorella acqua di Santo Francesco la quale è molto utile et umile et preziosa et casta. Mangiavamo anche meno di Santo Giovanni, l’onesto Giovanni: un poco di pane senza miele né locuste, seduti sul parafango anteriore della nostra automobile fermata in luoghi elevati da dove si poteva vedere il mare luccicante, la scura campagna addormentata, le stelle e la luna. A mezzo il giorno ci tuffavamo nei seni profondi e gonfi di luce.

Il 25 agosto arrivammo a Bologna con meno di duemila lire e quasi a secco di benzina, nonostante avessi staccato il motore in ogni discesa. Eravamo ridotti all’osso: Ifigenia pesava 46 chili invece di 50, io 52 al posto dei 55 della mia buona forma da scalatore.

“Meglio ora così rinsecchito-pensai- che quando feci la prima visita militare e pesarono 69 chili che poi crebbero ancora. Un mostro del genere andava riformato. Invece mi fecero abile per giunta”.

Per fortuna era un lunedì  e dopo esserci riposati qualche ora nel letto e poi ristorati, potemmo comprare quanto ci voleva per cavarci la fame.

 

Bologna 4 luglio 2024 ore 17, 43.

p. s.

Domani andrò a Pesro poi tornerò in Grecia in bicicletta- traghetto- bicicletta- traghetto- bicicletta, come ho già fatto tante volte  compresa una, nel 1981, con Ifigenia. Ma questo devo raccontarlo più avanti, se Dio vorrà.   

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Ifigenia CXXXVII. Micene con Ifigenia-Clitennestra.


 

Salimmo a Micene e vi restammo tre ore.

Ifigenia camminava esaltata in mezzo alle antiche rovine sitibonde e contaminate dal sangue scuro dei Pelopidi massacrati tra grida inumane di dolore e di odio. 

La ragazza biancovestita recitava alcuni versi dell’Orestiade  attribuiti da Eschilo alla bipede leonessa- divpou~ levaina[1] chiamata così  da Cassandra.

 

Sentiamo dunque Ifigenia- Clitennestra che proclama la giustizia, la bellezza e il piacere del proprio delitto:

“lo colpisco due volte, e lui con due lamenti lascia cadere le membra proprio lì. Allora io sul caduto aggiungo un terzo colpo e un’offerta votiva a Zeus sotterraneo salvatore dei morti.

Così quello disteso a terra  erutta lo spirito suo

e soffiando un fiotto impetuoso di sangue

mi colpisce con uno spruzzo nero di sanguinosa rugiada

 e mi fa godere non meno di quanto gioisce

della pioggia inviata da Zeus il campo seminato

nel germogliare della spiga”[2].

 

Magari Ifigenia recitando queste parole pensava a quando mi avrebbe eliminato dalla sua vita, meno di due anni più tardi.

Comunque io la osservavo affascinato pensando: “sarà squlibrata e opportunista nello stesso tempo, a volte sarà pesante e noiosa, talora tremenda; però è bella e ha il sentimento del bello. Quando sarò caduto sotto i suoi colpi ripetuti, diversamente da Agamennone, io mi rialzerò e inzierò a scrivere di lei quanto nemmeno Eschilo ha saputo fare per Clitennestra, né Sofocle per Antigone, né Euripide né lo stesso Omero per Elena.

La finnica più bella, Elena, nel mio capolavoro sarà l’antitesi e anche l’anticipazione di Ifigenia.

Dopo le tante letture e le diverse amanti contengo nell’anima tutti questi aspetti di donne: la furia scellerata della figlia di Tindaro, l’ostinazione eroica di Antigone, figlia e sorella di Edipo, la sovrumana bellezza della figlia di Zeus: Elena la meravigliosa adultera per cui non è nemesi patire a lungo tanti dolori poiché terribilmente assomiglia alle dèe immortali[3]

 

Bologna 4 luglio 2024 ore 11, 55 giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Eschilo, Agamennone, 1258

[2] Agamennone, 1384-1392

[3] Cfr. Iliade, III, 156- 158.

Ifigenia CXXXVII. La fame inattenuata di Nauplion.


 

La mattina seguente contammi i denari e constatammo che se si voleva arrivare a Bologna senza chiedere l’elemosina, non potevamo più dormire in un letto né mangiare seduti nemmeno in una bettola infima. Avevamo sessantaduemila lire necessarie quasi tutte per la benzina.

 

A Nauplion l’inedia e il pensiero della nostra carestia non ci tolsero la voglia di fare una nuotata nel mare sfavillante di luce  che diffusa copiosamente dalle mani generose del Sole attraversava l’acqua facendo brillare i sassi del fondo, le schiene iridate del pesci e i dorsi spinosi dei ricci. In queste creature marine a dire il vero vedevo del cibo. Putroppo imprendibile,

 

Il corpo di Ifigenia che guizzava snella e armoniosa come una Nereide stimolò ancora di più la mia voglia di vivanda. “Inattenuata restava la fame crudele, e vigoreggiava implacato l’ardore della gola” [1].

Mi venne in mente il desiderio di cibo dell’empio Erisittone   

Un bisogno naturale, se rimane insoddisfatto a lungo  diventa innaturale.

In parole povere avrei voluto mangiarla, magari dopo averla fiocinata in un modo o in un altro

Quando uscimmo dall’acqua non potei trattenermi dal mordere una delle sue cosce carnose.

Molte sono le cose tremende ma la più tremenda è la fame.

 

Bologna e luglio 2024 ore 10, 38 giovanni ghiselli

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[1] Cfr. Ovidio, Metamorfosi, VIII, 844-845

Ifigenia CXXXV. La cagnara notturna tra i monti.


 

Dopo la cena più dispendiosa  che soddisfacente litigammo.

Ifigenia disse che voleva restare sveglia tutta la notte per giocare fino all’alba con me. Risposi che io invece volevo dormire in quanto nei tre giorni seguenti  avrei dovuto guidare quasi senza cibo e senza caffè. Ma questo era un particolare inifluente sulla spensierata giovane donna che avrebbe dormito durante buona parte delle mie ore di guida. Non era mai capace di mettersi nei panni degli altri. Se non imparava tale facoltà di rovesciamento non sarebbe mai diventata un’attrice. Era una donna di ventisei anni oramai però voleva conservare molti tratti caratteristici della bambina: quasi tutti tranne l’innocenza.

Arrivò dire: “ascolta amore mio, ho un’idea meravigliosa: invece di andare a dormire giocheremo: tu mi inseguirai tra i monti tra e quando mi ghermirai faremo l’amore. Non mi trasformerò in una pianta d’alloro come quella degenerata di Dafne. Tu avrai maggiori soddisfazioni di Apollo”.

Mi dava fastidio. Forse non aveva voglia di fare l’amore oppure temeva che non ce l’avessi io. La sua malizia infatti era tanta. Io ero stato un bambino e un ragazzo dal cuore in mano ma poi avevo imparato a guardarmi da certe sirene maligne.

Mi venne pure in mente che volesse suggerirmi  la superiore levatura delle sue abitudini e del proprio rango alla camera  presa in affitto per dormire.

Dopo averci pensato un poco, risposi: “senti carina, sarebbe uno spasso delizioso per me giocare con te tutta la notte, ringiovanendo oltretutto, ma domani dovrò guidare fino a sera per avvicinarci a Bologna il più possibile. Abbiamo i soldi appena per la benzina e magiare pane con burro che toglie la fame solo perché fa schifo”.

Colei cercò di stravolgere la logica e la realtà dei fatti

“Appunto-rispose-noi passeremo due o tre giorni chiusi dentro l’automobile tua mangiando schifezze: migliaia di calorie senza fare un passo, perciò dobbiamo camminare tutta la notte se non vogliamo arrivare enormi e sconciati. Lo sai vero, tesoro, che ti lascerò, appena sarai arrivato a sessanta chili!”

“Facciamo finta di niente- pensai- In realtà siamo affamati e denutriti dal pomeriggio seguente la cena di Szeged, venturosa e benedetta anche se maledetta da costei”.

Risposi: “Se questa notte non riposo, domani non potrò guidare. Dunque non c’è più discussione, nemmeno per scherzo. Ho sonno e vado a dormire. Tu fai pure quello che vuoi”,

Allora l’istriona provò uno dei suoi ruoli: quello della amatissima figlia cui nulla può negare il babbo suo che l’adora.

Scrivendo questo penso che probabilmente sarei stato tale con una figlia mia. Forse tale ragione non mi è stato concessa dal fato.

La ragazza dunque ricorse alla sua solita litania: “gianni, tesoro, ti prego, ti prego, ti prego: se mi vuoi un poco di bene cammina tutta la notte con me in mezzo a questi monti incantati. Che cosa ti costa? Ti prego, ti prego”    

Dovetti sgridarla con un’asprezza inusitata: “ Ora basta. Tu mi fai perdere tempo e mi disturbi parecchio. Questa tua scena da bambina meno che decenne è contro natura. Fra poco ne compirai ventisei. Ora che non sei in te, non solo non collabori come dovresti ma fai di tutto per accrescere le difficoltà di entrambi dato che siamo nella stessa situazione di indigenza”.

L’avevo colpita soltanto rammentandole l’età.

Quindi ispose: se con le tue befane quarantenni ti trovavi tanto bene, in Grecia dovevi portare una o due di loro. Le  Esculpie, le Pinucce e le altre tue serve sarebbero state felici di collaborare con te, qui come a Bologna. Torna da loro!”

“Sai quanto erano meglio quelle donne! Per non dire delle tre  meravigliose finlandesi!”, pensai

 

Bologna 4 luglio 2024 ore 9, 27 giovanni ghiselli

 

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mercoledì 3 luglio 2024

Ifigenia CXXXIV Olimpia, Sparta, Epidauro.


 

Anndammo nel sito delle antiche e nobili gare cantate al suono della dorica lira da Pindaro che ha eternato la fama degi agonisti vittoriosi. Anche noi due aspiravamo all’arte e alla gloria.

Ifigenia era bella e pensosa. Era davvero la mia compagna quel giorno. Ricordando il vate tebano, le dissi che noi, destinati comunque a morire, non dobbiamo aspettare nell’inerzia una vecchiaia inferma, diventare inutili pesi alla terra e fastidiosi fardelli a chi non fugge via lontano dallo spengersi della nostra breve candela, bensì acquistare ogni giorno energie nuove per potenziare  sapienza e bellezza e fissarle con le parole, trattenerle dall’abisso orrido immenso dove precipiteranno i nostri corpi, per farle  brillare  sul mondo perché dai cuori delle donne e degli uomini zampilli il ricordo di Dio.

Ifigenia annuì in silenzio.

Eravamo nel recinto dei templi caduti sotto i pini che si levano al cielo e sussurrano arcane voci profetiche trasmesse dal vento caldo del Peloponneso alle orecchie delle persone devote.

Mi vennero in mente alcune parole della Sibilla Cumana da recitare a Ifigenia, la mia compagna sempre in bilico tra il bene dove poteva elevare anche me e  il male dove talora cercava di  trascinarmi a precipizio con sé:

“facilis descensus Averno:

noctes atque dies patet atri ianua Ditis

sed revocare gradum superasque evadere ad auras,

hoc opus, hic labor est.

Dobbiamo farcela, conclusi”

Ifigenia approvò  tutto quanto aveva capito.

Quindi entrammo nel museo  per vedere i frontoni raccolti. Soprattutto ci piacque e commosse la figura di Febo signore che si erge imperturbato sopra la zuffa dei Lapiti con i Centauri ubriachi, violenti e immondi profanatori delle nozze del re Piritoo con Ippodamia.

“Dobbiamo trovare anche noi la forza di elevarci sopra il caos degli istinti cattivi e nocivi, se vogliamo trovare una nobile identità umana e la bellezza imperitura dell’arte”. Eravamo d’accordo,

Sostammo pensosi anche davanti al frontone orientale e all’Ermes di Prassitele, quindi attraversammo il Peloponneso fino a Sparta. Qui non c’era niente di bello tranne certe fanciulle fiere e robuste.

Mi fecero venire in mente le antiche ragazze che correvano lungo l’Eurota saltando come puledre e scagliando verso il cielo le chiome odorose prima di stendersi stanche,  sparpagliate nell’erba qua e là.

In un piccolo museo c’era solo un oplita desolato e meschino.

Ifigenia mi domandò se gli Spartani avessero lasciato qualcosa di bello.

Le recitai alcuni versi di Alcmane rimastimi impressi nella memoria fin dal liceo. Un notturno dei più belli:

"Dormono le cime dei monti e i burroni

e le balze e anche le gole

e la selva e gli animali quante ne nutre la nera terra

e le fiere montane e la stirpe delle api

e i mostri negli abissi del mare purpureo;

dormono le razze degli uccelli dalle ampie ali".

Verso le sei del pomeriggio partimmo. Tre ore più tardi arrivammo a Epidauro appena in tempo per vedere l’antico teatro. Lo chiusero presto facendoci fretta. Non potemmo commuoverci sentendo l’emozione del luogo sacro dove celebrare una sacra unione tra noi, una specie  di pur provvisoria e precaria ierogamia.

Oltretutto eravamo digiuni dalla sera precedente e poco provvisti di denaro necessario a sfamarci. Tuttavia non potemmo resistere e spendemmo più del consentito dai conti meschini e pur doverosi.  

 

Bologna 3 luglio 2024 ore 18, 56 giovanni ghiselli

 

 

 

  

 

 

Ifigenia CXXXIII Tornerò in Grecia a pregare se i presagi non sono vani.


 

La sera del 17 agosto arrivammo a Delfi. Cercai una casa nella ojdo~ jApovllwno~, invano. Così fummo costretti a ripiegare su una strada dal nome meno fatidico. Ifigenia mi rimproverò perché non avevo trovato un alloggio nella via con il nome della lieta divinità che nel sonno ci avrebbe svelato veracemente il futuro.

Risposi che nella via di Apollo  la camera poteva continuare a cercarla lei anche per tutta la notte. Io ero talmente stanco di guidare l’automobile cercando di non consumare troppa benzina, e tanto annoiato dalle sue lamentele che mi accontentavo di dormire  in un posto qualunque, purché non sporco. In effetti il signore di cui c’è l’oracolo a Delfi non ci fece antivedere il futuro nelle immagini oniriche.

La mattina seguente percorremmo la salita rocciosa, spinosa, infuocata del santuario: pregavamo Apollo di tenerci insieme ancora del tempo, abbracciati  e fusi nell’arte. Ma il Peana rimase nascosto dentro l’ombelico del mondo e dietro le due cime del Parnaso, senza darci risposta.

Anche il sole sembrava soltanto una muta pietra di fuoco.

 

Allora andammo a cercare presagi a Olimpia. Ci arrivammo di sera.

Appena trovato l’alloggio sgradito a Ifigenia siccome era un povero ostello  della gioventù, la fastidiosa ragazza ebbe l’impertinenza di propormi dei salti in discoteca. Le risposi: “tu vuoi condurmi al martirio. Noi siamo venuti in Grecia a pregare, e se andassimo a intronarci in un luogo così miseramente, empiamente profano daremmo da bere del veleno alla nostra sete di Dio”.

L’empia donna mugugnò qualche altra bestemmia  con cupo rancore.

La mattina seguente del resto mi donò una scena simpatica. Appena desto dopo una dormita  rasserenante, baciai la bellona sulla pancia abbronzata: Ifigenia che non era desta del tutto fece un movimento repentino, quindi spalancò gli occhi e sorrise.  Era scattata  come una gatta accarezzata sulla schiena, vicino alla coda. Rapida e inopinata, poco mancò che mi graffiasse.

“Se avessi visto come ti sei mossa, non potresti negare di essere una gatta”, le dissi 

“Adesso capisco perché litighiamo tanto-ribatté- l’altro ieri tu hai rivelato la tua natura di vero cane, io oggi quella di tipica gatta”.

Aveva risposto bene e non replicai . Ridemmo e facemmo l’amore più volte per scambiarci piacere e rendere onore al dio della gioia.

Alla brutta faccia dei furfanti bigotti che mi avevano terrorizzato quando ero bambino.    

 

Bologna 3 luglio 2024  ore 12, 10 giovanni ghiselli

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Ifigenia CXXXII. “Uno dei tanti”.


 

Il giorno seguente partimmo, senza Fulvio.

 Eravamo diretti in Grecia dove volevamo pregare per l’amore e per l’arte. Avevamo poco denaro, appena sufficiente, forse nemmeno abbastanza da tornare a Bologna. Poverelli ma devoti. L’avevo convinta che tali pellegrinaggi ai santuari greci danno indicazioni preziose. Avevo trovato lei, la mia Musa, con una pedalata solitaria tra Brauron, Maratona, Capo Sunio, Corinto, Epidauro due anni prima.

Questa volta saremmo andati in luoghi ancora più sacrosanti per interrogare gli dei e gli eroi della Grecia. La gara da me vinta nello stadio di Debrecen propiziava il viaggio. Dei miseri quattrini si poteva fare a meno. Digiunare e dormire negli ostelli è tutta santità.

 La prima sera alloggiammo a Szeged in casa dell’amico Ezio che faceva il lettore di italiano in quella Università. Ifigenia fu scortese con i nostri ospiti: seguitava a non tollerare i miei amici, comunque essi fossero.

Arrivò a palarmi in un orecchio per criticare Ezio, sua moglie, la loro casa e il loro cibo durante la cena,

Pensai che aveva offeso nobile costume greco con tanta volgarità e che gli dèi non l’avrebbero mai esaudita in quanto empia. Ma sul momento non glielo dissi.

La mattina seguente partimmo comunque già incattiviti. Alla frontiera yugoslava però cambiammo umore. Bastava poco, squilibrati come eravamo. In coda dietro altre automobili sentimmo suonare un clacson. Girai la testa drizzando le orecchie e aprendo la bocca. Come fa un cane spaventato o una iena affamata o un coyote o un licaone. Per un momento mi sentìi appartenere alla specie  che detesto dei canidi. Come lo dissi a Ifigenia, lo confermò: mi sei sembrato il vero cane.

Questo ci mise di buonumore.

La sera giungemmo a Predejane, in fondo alla Serbia allora. Ora è nel Kosovo. Ci fermammo a dormire in un motel.

 

La mattina assistemmo a una scena ridicola. So che ora non sta bene ridere sugli omosessuali ma devo avvertirti lettore che ai miei tempi usava. Mica perseguitarli per carità, né offenderli ci mancherebbe, ma trovarli buffi era un’abitudine invalsa. Oggi non si può più. Anzi, i pervertiti biasimati casomai sono quelli che corteggiano le donne anche con stile e buon gusto.

Il malfamato, quello che deve vergognarsi  e non darlo a vedere, oggi è il donnaiolo.  

Durante la colazione dunque assistemmo a una commedia buffa. Ifigenia mi fece notare un anziano piuttosto distinto seduto a un tavolo con un ragazzo negro giovane e bello.

So che anche scrivere o dire “negro” invece che “nero”  o scuro di pelle è un’infamia ma preferisco essere infame che ipocrita. Così dico cieco invece che non vedente. Senza tema d’infamia lo dico.

Come affermo e mi vanto di essere stato un donnaiolo impenitente.

Rifarei tutto magari anche di più e meglio.

Quando arrivò il cameriere a prendere l’ordinazione, l’attempato ordinò senza scomporsi; il giovane invece cominciò ad agitarsi scuotendo la testa crespa, a far baluginare il bianco degli occhi e dei denti, quindi con voce stridula e irritata gridò: “Omelette, no? Cosa posso volere io qui dentro? Omelette e basta! Omette o niente!”. Il cameriere sbigottito rispose: “Va bene signore, omlette”.

Il vecchio cercava di ammansire il giovane dai mal connessi nervi accarezzandogli delicatamente la mano sinistra.

Riconobbi le due categorie di omosessuali: quelli miti e quelli sempre contrariati da tutto. Come tante donne, essi sono dell’uno o dell’altro tipo.

Un  loro segno di riconoscimento è farsi vento con cartoline o altri pezzi di carta. Il giovane lo fece con un tovagliolo imprecando contro il caldo. Era vestito con calzoni attillatissimi e una canottiera verde buchelerrata.

Si confidò con il suo mentore ma in modo di farsi sentire anche da altri: “se quel garzone crede che in questa lurida topaia  io possa mangiare altro da una omlette e mi fa domande importune, è un cretino e uno screanzato. Dovresti sgridarlo anche tu per la sua impertinenza!”.

Più tardi commentammo la scena e ne ridemmo. Però  pensai che dopo tutto il loro rapporto con i capricci di un ragazzo davanti a un amante attempato era simile al nostro e che quel giovane era la caricatura di Ifigenia mentre il vecchio era la mia controfigura.

Dunque chi non è senza difetti si astenga dal motteggio e dalla canzonatura.

 

p. s.

Avverto che non ho niente contro gli omosessuali né contro le persone di colore.

Quando insegnavo nel Veneto e mi chiamavano marochin, o addirittura negro ne ero contento. Ho sempre cercato di abbronzarmi.

Ero incerto se pubblicare questo episodio e l’ho fatto per questa ragione: “ oggi quando quasi tutti si sentono in dovere di dire: “non sono comunista né lo sono mai stato” mentre dal 68 al 71 dicevamo quasi tutti di esserlo, nessuno dice “io non sono né sono mai stato omosessuale” perché essere stati comunisti è roba da anatema, mentre essere omosessuali è un vanto, un predicato di nobiltà. Dobbiamo considerare la persona, non l’etichetta, né quella che  appiccicano gli altri con i rumores né quella che mettiamo in mostra noi stessi.

 

Io sono gianni misto di bene e di male, uno dei tanti -tw`n pollw`n ti~ w[n- Menandro, La donna di Samo, v. 11.

 

Bologna 3 luglio ore 10, 58 giovanni ghiselli

 

 

 

 

martedì 2 luglio 2024

Ifigenia CXXXI La gara veramente olimpica.


 

L’ultimo giorno dovevo affrontare una gara allo stadio

Volevo vincerla e in ogni caso sentivo la necessità dell’ascesi somatica, di quell’esercizio sportivo senza il quale si rimane, o si diventa, “più molli del necessario”[1].

L’agone era quello dei 1500 metri per i quali non avevo allenamento né talento specifico. La mia distanza infatti era, ed è, quella dei 5000, 12 giri e mezzo di pista. Eravamo otto agonisti. Il più vecchio ero io. Il più temibile era un francese ventiduenne allenato a quel percorso, tre giri e trecento metri, troppo breve  per le mie caratteristiche fisiche e per quelle mentali, che poi sono connesse. Io ho bisogno di tempi e distanze lunghe. Mi manca lo scatto, fisico e psichico. Tra gli altri c’era un centometrista napoletano, Diego, che se avesse resistito alle mie spalle fino all’ultimo rettilineo, mi avrebbe stracciato. Dovevo imporre un ritmo elevato sin dall’inizio, senza però arrivare sfiancato nella parte finale. Nonostante il mio allenamento negli stadi, dove gareggia velocità di piedi e vincono vertici ardimentosi di forza[2] intelligente, non ero sicuro di me: troppo breve era quella competizione  rispetto ai miei mezzi, ai miei ritmi, perfino ai miei gusti. Nello sport e nella vita ho bisogno del beneficio del tempo per utilizzare la mia tenacia e la mia resistenza alla fatica e al dolore. Anche per questo prego, oltrepassando Solone[3], che il destino di morte mi colga per lo meno novantanovenne, come la zia Giorgia.

Ifigenia faceva il tifo per me, mi incoraggiava: diceva che avrei vinto di sicuro, e quando quella donna mi dava fiducia, preferivo morire che demeritarla.

Al momento della partenza ero nervoso: andavo nel bagno degli spogliatoi a orinare ogni cinque minuti, tutte le volte volta nella speranza di perdere qualche grammo aggravante di peso superfluo la mia gara. Lo sforzo mi provocò perfino una goccia di sangue, con terrore e presagi di qualche sfacelo forse nemmeno abbastanza remoto[4].

Ma oramai ero quasi in ballo, ossia in corsa e dovevo correre.

Sul traguardo, con  Ifigenia, c’era Fulvio, l’amico più caro, e una ventina di conoscenti, persone assai meno importanti. Anche con loro però avrei fatto una  figura bella oppure porca, da senescente fallito. Indossavo una maglietta gialla con il nome del nostro liceo dove avrei trionfato anche sui malevoli, vecchicolleghi [5] se avessi vinto quell’agone latore di auspici. Sotto la maglia avevo un paio di calzoncini rossi, aderenti, leggeri, regalo ben augurante della mia bella compagna. Partii dunque in testa imponendo un’andatura veloce per stancare subito Diego, il ragazzo napoletano dal temibile scatto finale. Invero dopo solo trecento metri, ossia all’inizio del terz’ultimo giro, avevano perso terreno tutti, tranne l’antagonista francese che mi restava attaccato alle spalle, e, a giudicare dal respiro,  sembrava più sciolto e meno affaticato di me. Ifigenia intanto, al primo passaggio sul traguardo, saltava e gridava incoraggiandomi . Procedemmo nella stessa maniera per tutto il giro seguente: io davanti, sperando di sentire affannata la  lena del transalpino, lui dietro, continuando a tallonarmi e a respirare senza fretta, quasi senza fatica. Dal suo fiato più lento e disteso del mio, capivo che, se voleva, poteva imporre un ritmo più alto. Infatti, all’inizio del penultimo giro mi superò.

Ifigenia non smetteva di incoraggiarmi, fiduciosa nella mia, nella nostra vittoria.

Tutti gli altri, distanziati parecchio, erano ormai fuori gioco.

L’unico antagonista dunque, agli ottocento metri dalla linea d’arrivo mi superò, poi proseguì nel suo attacco: come il fiato, anche il passo aveva agile e sciolto, e io stentavo a rimanergli dietro. Mi sembrava di ciabattare rigido, contratto, appesantito; mi sentivo pure macchiato di sangue appiccicoso e oneroso nelle mutande , mentre il rivale  pareva divinamente a suo agio: come se si allenasse per gioco, in tranquilla attesa di darmi la botta finale, l’implacabile colpo di grazia. Pensavo alla sconfitta come a un presagio sinistro, un triste preannunzio di danni futuri[6].

 Ai cinquecento metri dall’arrivo, poco prima di passare per la terza volta davanti a Ifigenia che mi incitava a gran voce e mostrava di credere in me, nella mia vittoria, nonostante fossi già prossimo allo stremo, volli fare la prova dello sprint che avrebbe risolto la gara dopo un altro giro, in fondo agli ultimi 400 metri. Per non correre il rischio di restare chiuso all’interno, mi spostai all’esterno, raccolsi buona parte delle forze residue e feci uno scatto con il quale oltrepassai il rivale e, per la penultima volta, il traguardo.

Ifigenia gridò: “bravo, bravo!” e fece due salti battendo freneticamente le mani. Mancavano ancora quattrocento metri però, e io avevo dato quasi tutto. Meta erat longe[7] rispetto a quanto mi restava di forza e di fiato.

Dopo una trentina di metri infatti il rivale tornò a superarmi, e non con uno  scatto repentino e inopinato, come avevo fatto io prima impiegando una dose spropositata di energie, ma con l’alzare progressivamente il ritmo delle sue  lunghe, potenti falcate. Aveva quattordici anni meno di me ed era una decina di centimetri più alto. Ali sembravan le sue gambe snelle[8].

Ali del divino uccello di Zeus[9].

Parevano sollevarsi e distendersi senza troppa fatica, quasi con negligenza sovrana, mentre le mie, per reggere il nuovo ritmo, arrancavano rigidamente con rabbia pesante, con stento, fatica, dolore, umiliazione.

Secco usciva l’affanno dalla mia bocca aperta e stremata[10].

Per non rimanere turpemente staccato, dovevo adoperare tutta quanta la forza che potevo trovare frugando a fondo nella mia persona, tutte le energie positive accumulate in trentacinque anni e mezzo di vita.

Pensai a Ifigenia che mi aveva sempre apprezzato anche per come correvo i 5000 metri. Poi mi feci venire in mente che in luglio avevo scalato il Pordoi con una bici pesante, vecchia, arrugginita, eppure a una media di 18 chilometri all’ora,  che con tre anni di studio intelligente ero diventato un professore egregio e avevo fatto innamorare di me, non bellissimo, non ricco, del tutto privo di ogni potere, la più bella, giovane e corteggiata supplente del liceo classico più frequentato della dotta città di Bologna. Ebbene quella ragazza sarebbe rimasta delusa se fossi arrivato secondo. Probabilmente mi avrebbe disprezzato e lasciato. Infatti la donna che può scegliere in un mazzo di pretendenti, non perdona l’insuccesso[11] al prescelto per sbaglio , ed è giusto così. Dopo tanta prosopopea, debole e  imbecille mi sarei rivelato arrivando secondo.

Me lo dicva la zia Rina quando non prendevo il voto più alto con la prova più egregia di tutta la classe. Non me lo perdonava finché non tornavo a primeggiare e le sono grato di questo.

Non mi voltai, poiché non sentivo nessuno dietro di me: il secondo posto era assicurato, per carità, ma cosa me ne facevo? Non potevo rassegnarmi a non vincere senza avere spremuto me stesso fino all’ultima goccia di forza, di sangue, di vita, di tutto. Ifigenia da me si aspettava almeno il primo posto. Meglio ancora, del tutto degno di tanta amante sarebbe stato che io vincessi con cento metri di vantaggio. Ma questo non era possibile. Mentre pensavo e mi spronavo come potevo, dovevo usare tutte le energie rimaste per non perdere metri preziosi. Ho scritto sopra che mi manca lo scatto in partenza, però quando arrivo in fondo a un percorso meno stanco degli altri, posso avvalermi di questa relativa freschezza negli ultimi metri. Quindi, se riuscivo a rimanergli dietro fino all’ultima curva, sfruttando oltretutto la scia, nel rettilineo finale potevo cercare di superarlo mettendo in lizza tutto quanto di vivo poteva esserci ancora in me. “Oh mia bella mora, no, non mi lasciare, non mi devi abbandonare, no, no, no, no, no, no!”, canticchiai mentalmente, per sdrammatizzare, il ritornello di una canzoncina della mia prima adolescenza.

 

Marisa era la bella mora di allora. Bella, mora e brava a scuola. Si faceva a chi era più bravo gareggiando nel tradurre il latino alle scuole medie Lucio Accio noi due, pur in sezioni diverse.

“Perché ne sei innamorato? Mi domandava Piero, un compagno di scuola mattacchione: “tanto non ti sposa”. Andavo la sera a trovarlo a casa sua, in viale Trento, per insegnargli a leggere i distici di Ovidio, in metrica.

“Pyramus et Thisbè, iuvenùm pulcherrimus alter

altera, quas Orièns, habuìt, praelata puellis,

contiguàs tenuère domòs, ubi dicitur altam

coctilibùs murìs cinxisse Semiramis urbem”.

 Piero continuava a leggere Thìsbe e lo bocciarono in quinta ginnasio.

E’ ancora un caro amico

Tanto latino si faceva allora al Lucio Accio con la professoressa Giulia Gattoni e al ginnasio con il professor vincenzo Tamino che ricordo con gratitudine

 

L’ultima curva fu atroce. Il rivale mi attaccò ancora, scattando a ripetizione. Prese un vantaggio di tre-quattro metri. Quando sbucai sul rettilineo dell’arrivo, vidi Ifigenia. Agitava le braccia alzate sopra la testa e gridava: “Dai Gianni, non cedere amore, non cedere!”

Mi vennero in mente le tante volte che avevo corso gli stadi: prima per meritarmi l’amore di donne giovani e belle, poi per conservarlo. La più bella, la vera borsa di studio e di ogni erculea fatica era lì, e mi incitava con tutta la forza, e pretendeva che il suo uomo non fosse soltanto il secondo.

“Non cederò”[12] pensai, “prima crepo. Senza l’aurea Afrodite non potrei vivere più”.

Richiamai alla memoria i faticosi successi della mia travagliosa esistenza per ottenere il consenso, l’ammirazione e l’amore delle femmine umane: dagli ottimi voti scolastici con i quali volevo conquistare la mamma, la nonna, le zie, la bruna Marisa,  alle citazioni di Leopardi o di Dante, di Petronio, di Eliot, di Pavese per colpire Helena, alle conversazioni intelligenti, con Päivi, al matto, eppure non disperatissimo impegno nelle materie di insegnamento che mi avrebbe procurato l’agognata borsa di studio umana incarnata nella splendidissima supplente Ifigenia che era lì a Debrecen con me, presente e viva.

Poi pensai di nuovo alle fatiche fisiche: gli allenamenti a piedi e in bicicletta, le nuotate nel mare di Pesaro; ricordai l’impiego faticoso, anche tribolato del mio tempo: le ore passate in solitudine a prendere il sole, disidratato sulla sabbia rovente, o scorticato dal freddo sulla neve delle montagne battute da soffi acuti di vento ghiacciato, rabbrividendo fino alle viscere, in solitudine immobile per ricavarne l’abbronzatura che mi rendesse più piacente e  gradito alle femmine umane.

Poi i digiuni, la fame a volta crudele, talora insonne,  per conquistare, o recuperare, o mantenere la linea da asceta, la vita da torero, la forma stilizzata che mi soddisfaceva e mi rendeva beato in termini di rapporti umani. Nell’itinerario lungo e difficile c’erano molti sacrifici, fino alla spietatezza verso me stesso, c’era del dolore, c’era qualche frustrazione, ma c’erano anche diversi successi.

Potevo vincere ancora.

Feci uno scatto a novanta metri dall’arrivo: ai settanta avevo raggiunto la schiena dell’antagonista. Temporeggiai per dieci metri, onde lenire per un momento l’affanno, quindi mi portai sulla destra e scattai di nuovo: lo superai, poi vidi che guadagnavo terreno; allora, con gli occhi chiusi e il collo tutto teso all’indietro, senza pensare più a niente, quasi non respirando, mi scagliai sul traguardo impiegando e impegnando allo spasimo tutto quanto di vivo mi restava dentro.

Superata la meta, respirai e riaprii gli occhi. Ifigenia esultava. Mi buttai boccheggiante sul prato interno alla pista. Il francese arrivò distanziato di cinque o sei metri. Diego di un centinaio. Gli altri dopo di lui.

Quando ebbi ripreso fiato e piena coscienza, Ifigenia venne a dirmi: “ bravo, non mi aspettavo meno da te”.

Fulvio disse che avevo fatto un figurone con quei ventenni. Ero felice.

Quella sera io e la mia donna capimmo che il nostro rapporto aveva valore finché l’uno dava all’altro la spinta verso le cose egregie. La gara vinta era un segno, un gran buon segno. La sera, non avendo in collegio una stanza comune,  facemmo l’amore diverse volte nella nera Volkswagen tra gli alberi antichi dell’antica foresta incantata. Non sentivo il desiderio né il rimpianto di donne migliori. “Finché mi fa vincere-pensai-l’ottima è lei”.

Naturalmente dovevo, e volevo, a mia volta incoraggiarla a primeggiare  sempre, a essere egregia tra tutte le altre[13].

Ma questo non mi fu consentito da lei stessa e non mi fu possibile.

 

Bologna 2 luglio 2024 ore 19, 53 giovanni ghiselli.

 

p. s

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[1] Nella Repubblica (410d), Platone rappresenta suo fratello Glaucone che conversa co Socrate e sostiene che coloro i quali praticano la sola e pura ginnastica sono ajgriwvteroi tou` devonto~, più rozzi del necessario, ma quelli che non praticano l’esercizio fisico sono malavkwteroi, più molli del necessario. Parole sante. Si può pensare da una parte a tanti sportivi professionisti, dall’altra agli umbratici doctores  alle talpe che si acciecano nel buio e nella polvere delle biblioteche.

[2] Cfr. Pindaro, Olimpica I, vv.95-96

[3] ojgdwkontaevth moi`ra kivcoi qanavtou, (fr. 22D, v. 4),  il  destino di morte mi colga ottantenne.

[4] “Essi fuggono via/da qualche remoto sfacelo;/ma quale, ma dove egli sia,/non sa né la terra né il cielo” (Giovanni Pascoli, Myricae, Scalpitìo,  vv. 9-12)

Nel 2017 dovrò sottopormi a un intervento di riduzione della prostata.

[5] Cfr. Terenzio, Andria, 6-7.

[6] Cfr. Dante, Inferno, XIII, 10-12: “Quivi le brutte Arpìe lor nidi fanno,/che cacciar delle Strofade i Troiani/con tristo annunzio di futuro danno”.

[7] Cfr. Ovidio, Metamorfosi, X, 665, la meta era lontana. Il poeta peligno racconta la gara  tra Atalanta e  Ippomene che vince la corsa grazie all’astuzia dei pomi d’oro.

[8] Cfr. Dante, Inferno, XVI, 87.

[9] Cfr. Pindaro, Olimpica II, 88.

[10] Cfr. Ovidio, Metamorfosi, X, 663: “aridus e lasso veniebat anhelitus ore”. Ippomene non ce l’avrebbe fatta senza l’aiuto di Venere che gli aveva dato le mele d’oro. Né io senza l’incoraggiamento, l’aiuto mentale di Ifigenia.

[11] Cfr. Čechov, Il gabbiano, II. “Le donne non perdonano l’insuccesso”, dice Kostantin che poi si uccide.

[12] Cfr.  Iliade, XIX, 423 ouj lhvxw. E’ Achille che risponde a Xanto, il cavallo fatato che, abbassato il capo e tutta la chioma, gli ha predetto la morte vicina.

[13] Cfr. Iliade,  VI, 208  "aije;n ajristeuvein kai; uJpeivrocon e[mmenai a[llwn”.

Ifigenia CCXXX. La più vana delle emozioni.


 

Tra alti e bassi, come sempre, giungemmo agli sgoccioli di Debrecen. Il penultimo giorno era il dì che si chiudeva con il   bùcsù est, la sera dell’addio, l’ultimo incontro organizzato e solenne che per me e diversi sodali miei era di fatto un arrivederci poiché ogni volta eravamo stati bene nel mese della borsa di studio  e volevamo tornare nella nostra amata Università estiva.

A Ifigenia invece quell’ambiente non era piaciuto.

In effetti non era di suo gusto. A lei piaceva gente rivolta in maniera diversa, orientata  verso un pubblico dall’alto di una ribalta.

Sicché non volle partecipare alla festa del ringraziamento.

 Non veniva valorizzata, nemmeno notata, poiché le sue scene agli occhi di tanti studenti borsisti, per lo più studiosi,  non avevano alcun valore. Ifigenia insomma era fuori luogo tra le persone che piacevano a me.

Ero contrariato, comunque l’accompagnai in camera sua. Quindi tornai nel mevgaron, il salone posto nen centro della Nyáry Egyetem. Tali contaminazioni linguistiche funzionavano bene tra noi borsisti di Debrecen, quasi tutti studiosi di lingue e letterature. Anche io in siffatta compagnia  funzionavo.

Volevo rivedere e salutare una bella ragazza napoletana dallo sguardo che avevo notato con interesse se mi gratificava  rivolgendomi anche solo un’occhiata. Ifigenia capì che andavo a cercare uno stimolo oltre lei e mi chiese di risparmiarle altri dispiaceri. La salutai non senza un po’ di rimorso.

Mentre guardavo la bella partenopea che non sdegnava il mio sguardo, pensai al dispiacere che avevo causato nove anni prima a Helena incinta corteggiando sfacciatamente la deliziosa Josiane di Strasburgo che mi aveva stuzzicatoi  e non volli ripetere il fatto non solo poco commendevole ma anche privo di senso ossia di risultati oramai. Insomma pensai a Ifigenia come al cucciolo di un animale domestico abbandonato da un padrone crudele.

Ifigenia, come mi vide, disse: “Sei andato a coltivare la più vana delle emozioni”. Aveva capito tutto. “Proprio così”, ammisi e in quel momento l’ammirai

 

Bologna 2 luglio 2024 ore 18, 21 giovanni ghiselli ore 18, 47

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Ifigenia CXXXVIII La conclusione del viaggio nell’Ellade sacra.

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