Nel pomeriggio mi diedi a preparare le lezioni del giorno seguente, più l’italiano e la storia che il greco e il latino, ancora ai rudimenti. Cercavo comunque di innovare: insegnavo vocaboli chiave costentualizzati in frasi belle di ottimi autori che colpissero, impressionassero la sfera emotiva e la fantasia degli scolari quattordicenni. Ricordavo come avevo scoperto la mia predisposizione per la letteratura greca una volta superata la fase dei tecnicismi. Volevo l’attenzione di quei ragazzini. Sapevo che potevano aiutarmi mostrando interesse per quanto raccontavo, che mi avrebbero curato l’anima ulcerata. Intanto mi aiutava il mio impegno per loro.
Dopo cena telefonai a Ifigenia. Ero in balia di contraddizioni dolorose e non trovavo il criterio atto a risolverle. Non sapevo nemmeno definirle con precisione. Però sentivo che mi dilaniavano il petto come iene dai denti aguzzi e affamate. Ci fu un dialogo non risolutivo tra noi: ripetevamo le solite parole già dette relative alla fedeltà, ai tradimenti, alle paure, ai ricordi, alle speranze. Le ho già scritte e non le ripeto per non annoiarti, lettore e non sentirmi imbecille del tutto, cretino integrale. Meditai e rimuginai tutta la notte. A tratti davo spazio alla mia indole tragica e all’abito letterario indossato fin dall’infanzia. Allora citavo. “Ho l’anima piena di scorpioni”. In altri momenti mi venivano in mente delle battute del nostro repertorio comico. Come il suo saluto mattutino quando prendevamo il primo caffè insieme in un bar. “Buon giorno Lonzi”, faceva lei. E io: “che cosa vuol dire?” E Ifigenia: “Bellonzi. Ti chiamo così per non farmi capire da altri, mentre io ne godo. Anche tu vero?” “Certo amatissima donna, ne gioisco, non tanto però quanto godrò più tardi nel talamo dei nostri tripudi santi” Quindi mi venivano in mente alcune battute del nostro repertorio goliardico-letteraro: “il mondo quando tu non ci sei non è migliore di un grosso porcile e casa mia diventa la caverna platonica” “La mia dimora di te - rilanciava lei- mi appare più sporca e fetida delle stalle di Augia” Durante buona parte del giorno seguente continuai a dibattermi cercando la risoluzione che dovevo a lei e a me stesso per non impazzire. Finché, sul far della sera, a un tratto dentro di me si accese la luce del criterio che mi avrebbe tirato fuori da quell’inferno. Il criterio della Giustizia che altre volte in passato mi aveva tirato fuori dalla disperazione: da quando, fin da bambino, guerreggiavo contro i soprusi di quanti volevano sottomettermi: parenti, preti, maestri, professori, presidi, colleghi, i falsi amici. le amanti furenti. Mi dissi che quanto stavo facendo e dicendo a Ifgenia non era giusto, anzi era un’iniquità stupida, cattiva e meritevole dell’ira divina che non avrebbe tardato a punirmi. Dio mi aveva illuminato. Mi sentivo forte e felice. Erano le quattro del pomeriggio del 30 novembre 1980. Ifigenia quel giorno compiva ventisette anni. Il 14 io ne avevo compiuti 36. Era già tempo che mettessi la testa a posto. Sollevai il telefono per darle la buona notizia, quasi evangelica. Sentivo di amarla siccome mi rendeva migliore, come aveva fatto Helena quandi ni disse: “Io non sono materia” in una sera remota di agosto..
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Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica
Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica
LE NUOVE DATE! Protagonisti della Storia Antica | Biblioteche Bologna - Tutte le date link per partecipare da casa: meet.google.com/yj...
mercoledì 31 luglio 2024
Ifigenia CXLVIII- La risoluzione. La donna non è materia.
Alessandro Magno. Eracle e Dioniso. L’assedio di Tiro.
Parmenione si impadronisce del tesoro a Damasco con l’aiuto del prefetto traditore del suo re Dai. Poi sarà punito.
infatti gli dèi sono semper ultores ( Curzio, III, 13, 17).
Lo afferma anche Plutarco in De sera numinis vindicta.
Ci fu un saccheggio di grandi ricchezze: “non sufficiebant praedantium manus praedae” III, 13, 11, le mani dei saccheggiatori non bastavano per il saccheggio
Arriano. Intanto il re spartano Agide chiedeva denaro ai satrapi e riceveva trenta talenti e dieci triremi da Autofradate. (Come Licurgo da Ciro il Giovane alla fine della Guerra del Peloponneso)
Al. mosse verso la Fenicia. Dario mandò un messaggio chiedendo amicizia e la restituzione dei suoi familiari. Al. rispose che vendicava i Greci, suo padre e il re sasanide Arsete, e che adesso il signore di tutta l’Asia era lui. Dario non poteva scrivergli da pari a pari ejx i[sou (2, 14, 9).
E’ il diritto del più forte. Si fece portare innanzi gli ambasciatori dei Greci mercenari di Dario e li trattò bene: un tebano, Dionisodoro, per la sua vittoria ai giochi olimpici (2, 15, 4), l’ateniese Ificrate, figlio dello stratego Ificrate, per amicizia verso la città di Atene, mentre tenne sotto sorveglianza lo spartano Euticle, cittadino di una città nemica.
Biblo e Sidone gli si consegnarono 2, 16, 7.
Curzio Rufo Libro IV. Dopo Isso.
Dario intanto che era entrato in battaglia torreggiante sul carro curru sublimis inierat proelium, più con l’atteggiamento del trionfatore che del combattente, triumphantis magis quam dimicantis more, fuggiva per loca, quae prope immensis agminibus impleverat, inania et ingenti solitudine vasta (4, 1, 1) per luoghi, che aveva riempito di schiere quasi innumerevoli, oramai vuoti e desolati in un deserto smisurato.
Luoghi prefigurati dall’albero secco del mosaico trovato nella casa del Fauno di Pompei..
Dario mandò una lettera con proposte di pace.
Alessandro rispose ricordando le impia bella 4, 1, 12, di Maratona e Salamina e attribuì alle trame persiane anche l’assassinio di Filippo. Il giovane eroe si identifica con gli dèi ultores.
Più avanti, accingendosi a conquistare Persepoli (331 a. C.) Alessandro ricorda alle truppe che nessuna città era più ostile ai Greci della sede regia degli antichi monarchi persiani “ hinc Dareum prius, dein Xerxen Europae impium intulisse bellum” (5, 6, 1) Dario e Serse erano partiti di lì portando guerra all’Europa.
“La guerra di Dario-e del suo antenato Serse- è definita “empia”…quindi appare come l’opposto del bellum iustum dei Romani, della guerra fatta sotto la protezione degli dèi, per contrastare le indebite pretese dei nemici”[1].
Ma vedi il discorso di Calgaco
Splendida condanna dell'imperialismo dei Romani e delle loro guerre di rapina e sterminio pronuncia Calgaco, il capo dei Caledoni ribelli nell'Agricola[2] di Tacito:" Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. Auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant " (30), ladroni del mondo, dopo che alle loro devastazioni totali vennero meno le terre, frugano il mare: se il nemico è ricco, avidi, se povero, tracotanti, essi che né l'Oriente né l'Occidente potrebbe saziare: soli tra tutti bramano i mezzi e la loro mancanza con pari passione. Rubare, massacrare, rapire con nome falso chiamano impero e dove fanno il deserto lo chiamano pace.
Un topos che continua nelle Ultime lettere di Iacopo Ortis di Ugo Foscolo:"vi furono de' popoli che per non obbedire a' Romani ladroni del mondo, diedero all'incendio le loro case, le loro mogli, i loro figli e sé medesimi, sotterrando fra le gloriose ruine e le ceneri della loro patria la loro sacra indipendenza"[3]. E più avanti:" quando i Romani rapinavano il mondo, cercavano oltre i mari e i deserti nuovi imperi da devastare, manomettevano gl' Iddii de' vinti, incatenavano principi e popoli liberissimi, finché non trovando più dove insanguinare i loro ferri li ritorceano contro le proprie viscere"[4].
Repello igitur bellum, non infero et di quoque pro meliore stant causa (IV, 1, 13), faccio dunque una guerra di difesa e gli dèi sostengono la causa giusta. E’ una “guerra preventiva”, ed è un “Dio è con noi”. Ti restituirò le donne se verrai come supplice: “et vincere et consulere victis scio”, so vincere e prendermi cura dei vinti. Ricordati che scrivi al tuo re.
Alessandro poi scese in Fenicia: a Biblon e a Sidone.
Efestione doveva scegliere un re di Sidone. Gli indicarono uno della famiglia reale ma povero, Abdalonimo: “Causa ei paupertatis, sicut plerisque, probitas erat” 4, 1, 20.
Alessandro gli domandò qua patientia avesse sopportato la povertà. Ed egli rispose che sperava di sopportare il regno con lo stesso animo: “ utinam inquit eodem animo regnum pati possim! Hae manus suffecēre desiderio meo: nihil habenti nihil defuit”, 4,1, 25 a chi non possiede niente non manca niente.
Cfr Platone, Apologia, 31 dove Socrate dice: “ testimone della verità di quanto dico è la mia povertà”.
Secondo Diodoro questo episodio avvenne a Tiro e fu un esempio dei mutamenti inaspettati prodotti dalla fortuna (17, 47).
Questo topos è presente nella letteratura italiana. Nell'episodio di Erminia tra i pastori della Gerusalemme liberata un vecchio, pentito delle "inique corti" e fattosi rusticus, spiega a Erminia, giunta in fuga la notte precedente dall'accampamento cristiano sulle rive del Giordano, in quale luogo sereno e lontano dalla guerra si trovi:"O sia grazia del Ciel che l'umiltade/d'innocente pastor salvi e sublime,/o che, sì come folgore non cade/in basso pian ma su l'eccelse cime,/così il furor di peregrine spade/sol de' gran re l'altere teste opprime,/né gli avidi soldati a preda alletta/la nostra povertà vile e negletta.// Altrui vile e negletta, a me sì cara/che non bramo tesor né regal verga,/né cura o voglia ambiziosa o avara/mai nel tranquillo del mio petto alberga./Spengo la sete mia ne l'acqua chiara,/che non tem'io che di venen s'asperga,/e questa greggia e l'orticel dispensa/cibi non compri a la mia parca mensa"[5].
Aminta che comandava i mercenari greci di Dario si reca in Egitto. Era nemico di entrambi i re e sempre fluttuante. Aveva 4000 Greci. Arrivò fino a Pelusio, sulla foce orientale del Nilo, poi marciò verso Menfi, l'antica capitale dell'Egitto. Gli Egiziani sono vana gens et novandis quam gerendis aptior rebus (IV, 1, 30), gente fatua e più adatta alle innovazioni che alle realizzazioni.
Alla fine fu sconfitto e ucciso da Mazace, satrapo dell'Egitto.
Intanto Agide (re di Sparta dal 338 al 331) preparava la guerra contro Antipatro, prefetto della Macedonia. I Cretesi ondeggiavano. Ma queste erano scaramucce: "unum certamen ex quo cetera pendebant, intuente fortuna", 4, 1, 40, la fortuna guardava quella sola lotta da cui dipendeva tutto il resto. Tale è adesso la guerra in Ucraina.
Arriano. Eracle (sono tre) e Dioniso (due).
A Tiro venerano un Eracle più antico di quello argivo figlio di Alcmena, fin da molte generazioni prima di Cadmo (Anabasi di Alessandro, 2, 16, 1).
L’Eracle argivo invece è dell’età di Edipo figlio di Laio, di Labdaco, di Polidoro, di Cadmo, di Agenore[6]. L’Eracle di Tiro è quello venerato a Tartesso sulle colonne d’Eracle perché Tartesso è una colonia fenicia (Arriano, 2, 16, 4).
Quanto a Gerione custode delle vacche, era un re dell’Epiro come afferma Ecateo ( Arriano, 2, 16, 6).
C’è pure un terzo Eracle egiziano (2, 16, 2). Arriano menziona Erodoto il quale sostiene che gli Egiziani venerano Eracle tra i dodici dèi (2, 16, 3). In II, 43 Erodoto considera Anfitrione e Alcmena originari dell’Egitto, ed Eracle una divinità antica cui giustamente i Greci dedicano culti diversi (II, 44).
In effetti le funzioni di Eracle differiscono in diverse letture del mito.
Il mito infatti può avere sottolineature diverse ed essere usato con significati vari, come una parola del vocabolario.
Eracle, per esempio, si presta a essere utilizzato nella poesia con funzioni differenti a volta addirittura opposte. E' un'idea che viene precisata da un saggio in inglese di G. B. Conte. Egli nota che ogni mito (con le sue varianti) possiede una pluralità di significati che si aggregano intorno a una funzione tematica fondamentale. Ma quando un poeta utilizza un mito o un carattere mitico, egli opera attraverso una selezione, riorientando la storia nella direzione del suo testo. Eracle è stato impiegato dai poeti come eroe civilizzatore, come maschio esuberante nelle faccende sessuali (fino al punto di diventare lo schiavo di Onfale) ma è anche un insaziabile mangiatore e un intemperante bevitore di vino[7]; una figura tragica che impazzisce poi ammazza i figli e la moglie[8]; il mitico progenitore dei re spartani e così via. Lo studioso procede in quella che chiama enumeratio chaotica , poi chiede: vi sareste aspettato che il sofista Prodico (come Senofonte riferisce nei suoi Memorabili II. 1. 21-34) avrebbe un giorno inventato una favola[9] il cui protagonista era Eracle, ma questa volta come esempio di saggezza e autocontrollo, come paradigma di virtù morale? Prodico evidentemente ha fatto una scelta tra i vari aspetti di Eracle. In fondo Al. si identifica con tutti questi aspetti dell’eroe.
Sentiamo alcune parole del testo di Conte:"For poets, myth is like a word contained in a dictionary: when it leaves the dictionary and enters their text, it retains only one of its possible meanings "[10], per i poeti il mito è come una parola contenuta in un dizionario: quando essa lascia il dizionario ed entra nel testo, mantiene soltanto uno dei suoi possibili significati.
Allo stesso modo gli Ateniesi venerano un altro Dioniso, figlio di Zeus e di Core, e il canto Iacco dei misteri viene intonato a questo Dioniso, non a quello tebano figlio di Zeus e Semele (Arriano, 2, 16, 3).
Così forse si spiega la differenza tra il Dioniso feroce delle Baccanti e quello di Omero, un dio impaurito (Iliade, VI, 135 Diwvnuso" de; fobhqeiv" ) e infantile, che, minacciato da Licurgo, si getta in mare dove Tetide lo accolse in seno spaventato e tremante per le grida dell’uomo. Poi c’è quello ridicolo delle Rane di Aristofane. Aristofane nelle Rane rappresenta Dioniso che fugge terrorizzato da Empusa tra le braccia del suo sacerdote (v. 297) e che viene apostrofato dal servo Xantia con:" oh tu, davvero il più vigliacco degli dèi e degli uomini!"(v. 486). Il dio se l'era voluta, cacandosi addosso dalla paura (v. 479). Anche Dioniso è un modello per Al. che talora manifesta crudeltà e ferocia, talora delicatezza d’animo, talora anche volgarità.
I Tiri non vollero accogliere Al. in città 332. Al. disse che era necessario conquistarla. Di notte gli parve di dare l’assalto alle mura di Tiro e che Eracle gli desse il benvenuto e lo introducesse in città (to; de; JHrakleva dexiou'sqai te aujto;n janavgein ej" th;n povlin, Arriano, 2, 18, 1). Cfr. Plutarco, Durante l’assedio vide in sogno Eracle che gli dava il benvenuto e lo chiamava dalle mura (Vita, 24, 5.).
Il contrario fa Ercole con Marco Antonio. Si sente una musica in aria, o sotto terra, davanti al palazzo di Cleopatra; un soldato chiede: “It signs well, does it not?” E un altro “No”. Allora “What should this mean?” E il pessimista: “’Tis the god Hercules, whom Antony loved, Now leaves him” (Shakespeare, Antonio e Cleopatra, 4, 3).
T. S. Eliot: “the God Hercules/Had left him, that had loved him well” (Burbank with a Baedeker, Bleistein with a cigar (1920).
Antonio, al pari di Alessandro, si vantava di discendere da Eracle e di essere parente di Dioniso poiché ne imitava il modo di vita (Plutarco, Vita di Antonio, 60, 4-5). Ci furono segni brutti mentre Antonio soggiornava a Patrasso: il tempio di Eracle andò in fiamme colpito dal fulmine e ad Atene il Dioniso della Gigantomachia fu fatto cadere dal vento dall’acropoli nel teatro.
Giustino afferma che i Tiri accolsero Al. con la guerra incitati dall’esempio di Didone che aveva cercato di conquistare l’Africa: si vergognavano di essere meno coraggiosi di una donna (XI, 10, 13).
Il vate Aristandro interpretò il sogno di Alessandro con Eracle dicendo che l’impresa sarebbe stata condotta xu;n povnw/…o{ti kai; ta; tou` JHraklevou~ e[rga xu;n povnw/ ejgevnetw (2, 18, 1).
L’assedio di Tiro infatti fu mevga e[rgon, durò dal febbraio all’agosto del 332. I Tiri sembravano essere in vantaggio in quanto tw`n te Persw`n e[ti qalassokratouvntwn (2, 18, 2). I Persiani ancora dominavano il mare.
Alessandro dirigeva ogni cosa personalmente, lovgw/ ejpaivronto~, incitando a parole, e alleviando con premi chi si affaticava distinguendosi con virtù kat j ajreth;n ponoumevnou~ (2, 18, 4).
Lovgo" povno" e ajrethv sono gli ingredienti del successo.
Anche durante questo assedio Al. contribuì a creare il proprio mito drammatizzandosi: attraverso un ponte di legno sospeso tra una torre di legno e le mura della città salì da solo sul muro, senza guardarsi dall’invidia della fortuna né temere i nemici ma avendo come spettatrice del suo valore l’armata che aveva già vinto i Persiani (Diodoro, 17, 46).
Altre 80 navi fenicie si aggiunsero all’armata di Al. (2, 20, 1) e i regnanti di Cipro, saputo di Isso, mandarono 120 navi al vincitore (2, 20, 3). I Tiri non accettarono la battaglia navale (2, 20, 9).
In luglio-agosto Tiro cadde. Al. rese onore a Eracle e organizzò una gara ginnica nel santuario e una corsa con fiaccole (ajgw'na gumniko;n ejn tw'/ iJerw'/ kai; lampavda, Arriano, 2, 24, 6).
Al. non smette di pensare agli agoni nemmeno dopo avere vinto una battaglia.
Come Odisseo in questo caso che, giunto a Itaca, neppure là era sfuggito alle prove (eij" jIqavkhn, oujd j e[nqa pefugmevno" h\en ajevqlwn , Odissea, 1, 18). A Odisseo però vennero imposte.
Dario offrì proposte di pace regali (cedeva l’impero fino all’Eufrate) e Parmenione disse che lui se fosse stato Alessandro avrebbe accettato.
Al. rispose che anche lui, se fosse stato Parmenione, avrebbe fatto così.. “kai; aujto;~ a]n, ei[per Parmenivwn h\n, ou{tw~ e[praxen (2, 25, 2), ma era Al.
Battuta da teatro che sottolinea l’unicità dell’eroe.
Alessandro aggiunse che era già tutto suo comunque.
Curzio Rufo
Tiro incoraggiata da Cartagine non apre le porte ad Al.: "quippe Carthaginem Tyrii condiderunt" (IV, 2, 10).
Tiro era la madre patria di Cartagine:"Urbs antiqua fuit (Tyrii tenuere coloni) /Karthago", Eneide, I, 12-13, c'era una città antica, la fondarono coloni di Tiro, Cartagine.
Da Tiro proveniva anche Cadmo, il fondatore di Tebe.
Cfr. Euripide, Fenicie, 638-639: “Kavdmo" e[[mole tavnde ga'n-Tuvrio"”, Cadmo di Tiro giunse in questa terra.
Avere tradizioni antiche significa nobiltà e minore acquiescenza. Al. del resto aveva già distrutto Tebe. Al. manda araldi che vengono assassinati contra ius gentium, 4, 2, 15.
In Livio al contrario sono gli ambasciatori a commettere un sopruso: mandati da Roma a Chiusi assediata dai Galli Senoni nel 390 a. C. legati contra ius gentium arma capiunt” (5, 36, 6).
Al. ne fece motivo di incitamento alla guerra , inoltre disse che aveva sognato Ercole il quale gli porgeva la destra. Egli era haudquaquam rudis tractandi militares animos, 4, 2, 17, per niente incapace.
Dapprincipio le cose andavano male per i Macedoni: allora "quod in adversis rebus solet fieri alius in alium culpam referebant" (IV, 3, 7), mentre avrebbero dovuto lamentarsi de saevitia maris. In un momento di grave difficoltà per la flotta macedone periti ignaris parebant, 4, 3, 18 gli esperti obbedivano agli inesperti, e i comandanti, per paura di morire obbedivano agli ordini. C’è confusione.
I Cartaginesi incoraggiavano i Tirii ma non portavano aiuto poiché avevano i Siracusani (Agatocle) sbarcati in Africa, vicini a Cartagine.
Agatocle è stato tiranno di Siracusa dal 317/316 a.C. e basileus di Sicilia dal 307 a.C. o dal 304 a.C. fino alla morte (289) La campagna africana di Agatocle si colloca nel 310. Qui siamo nel 332 e dunque c’è un erroe cronologico di Curzio.
Pesaro 31 luglio 2024 ore 12 giovanni ghiselli
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[1] G. Cipriani, op. cit., p. 183.
[2] Del 98 d. C.
[3] 28 ottobre 1797 .
[4] Ventimiglia, 19 e 20 febbraro.
[5] Gerusalemme liberata, VII, ottave 9-10.
[6] Cfr. Edipo re vv. 266-268:"cercando di prendere l'autore manuale della strage/per il figlio di Labdaco, di Polidoro e anche/ di Cadmo che li precedeva e dell'antico Agenore".
[7]Funzione assunta nell'Alcesti di Euripide.
[8]Nell'Eracle di Euripide.
[9]Quella di Eracle al bivio.
[10] Gian Biagio Conte, Aristaeus, Orpheus, and the Georgics: Once Again , in Poets And Critics Read Vergil, , p. 52.
Gli atleti italiani si stanno facendo onore alle Olimpiadi di Parigi. Bravi!
Ho seguito alcune gare olimpiche seduto davanti alla televisione con l’intenzione di scriverne qualche riga di commento.
Ho visto che gli atleti italiani hanno già conseguito buoni risultati e mi domando per quale ragione-ancora a proposito di funzionare- in Italia i giovani funzionano meglio nello sport- a parte il ciclismo e il calcio- che nello studio. In questo campo i nostri ragazzi più bravi per venire valorizzati devono emigrare in altri paesi.
Gli atleti invece possono prepararsi anche qui tanto bene da vincere medaglie d’oro ai giochi olimpici. Giochi molto seri.
La risposta è semplice: le gare sportive seguite in diretta dalle moltitudini non possono essere truccate: per vincerle bisogna essere bravi. Chi le vince è più bravo di chi le perde: ha un talento maggiore, si è preparato meglio, si è sacrificato di più.
Questo nel campo della scuola, che è stato il mio per 41 anni, dell’editoria e dei media, in generale non succede.
In questi settori contano le conoscenze più che la sapienza, le aderenze, le raccomandazioni. Sicché tanti mediocri e non poche nullità risultano avvantaggiate rispetto ai talenti veri, agli studiosi seri, agli atleti della parola e del pensiero. Qui manca il controllo di un pubblico vasto che invece è in grado di porre dei veti all’apoteosi dei brocchi nelle competizioni sportive seguite sul campo o davanti alla televisione.
Pesaro 31 luglio 2024 ore 10, 47 giovanni ghiselli
Ifigenia CXLVII. L’attesa del dies natalis, il giorno della rinascita.
La mattina seguente quando mi alzai vidi l’annuncio di una giornata orribile di fine novembre: il cielo buio e nebbioso aggravò la mia depressione. Avevo gli occhi gonfi, la testa intronata, la lingua inceppata mentre cercava di deprecare il male che vedevo fuori e sentivo dentro di me. Telefonò Ifigenia e mi domandò come stessi. “Non bene”, risposi e le chiesi del tempo per potermi chiarire con lucidità che cosa pensassi della nostra situazione. Durante le quattro ore di scuola lavorai in qualche maniera continuando a rodermi il cuore e il cervello. Niente nella mia vita funzionava come doveva, come avrei voluto in quanto ero io a non funzionare bene. Ogni giorno mi chiedo: “Come funziono oggi?”. Intendo nel lavoro, nello sport, negli affetti.
Il sonno mi pesava al pari di un bue sulla memoria e sulla lingua. A scuola leggo il meno possibile e se non mi assiste la memoria, lo scrigno dell’intelligenza, faccio pena a me stesso e a quanti mi ascoltano. Mentre parlavo con stento, sentivo che la testa mi pulsava come una ferita dove sembrava bussare il cuore stesso sradicato e travolto dal sangue che l’aveva trascinato dentro il cervello.
Quando fui uscito dal tetro liceo nell’aria ancora più cupa della città abbandonata dalla luce del sole, capivo che il problema tra noi non era tanto quello del ballerino quanto il fatto desolante che tra Ifigenia e me non c’era più niente in comune poiché la ragazza aveva perduto ogni interesse per lo studio: ella voleva entrare nel mondo dello spettacolo attraverso qualsiasi porta, buco o spiraglio che fosse stata capace di aprire in qualunque maniera. Doveva avere pensato che Gennaro le aveva socchiuso un uscio stretto o un breve pertugio. Lei lo avrebbe allargato.
A me non restava che raccontare la nostra storia nel tanto tempo libero che l’insegnamento ginnasiale mi lasciava. Ifigenia avrebbe avuto un araldo della sua bellezza condannata a sfiorire presto dalla voracità dell’irreparabile tempo e della sua stessa vanità. La giovane donna fiorente sarebbe rimasta tale per sempre nelle mie pagine, come le tre finlandesi di cui avrei raccontato come preludio a questo ultimo amore. Quelle erano donne studiose: due di loro avevano fatto una buona carriera. Come mai non avevo funzionato per più di quattro settimane nemmeno con loro? Forse perché non avevo fatto altrettanta carriera. Dal cielo scendeva pioggia mista a neve. Mi consolai pensando che non era lontano il dies natalis Solis invicti. Quanto alla carriera potevo ancora rifarmi. Ma ci volleva tempo e quello delle finlandesi era già passato.
Pesaro 31 luglio 2024 ore 9, 54 giovanni ghiselli. p. s. Statistiche del blog All time1604135 Today138 Yesterday293 This month11126 Last month13707 I mesi di luglio e agosto sono quelli nei quali le letture del mio blog sono meno numerose. Ma quest’anno va meglio del solito. Anno detto alla latina e alla toscana, cioè l’anno scorso, quelle di luglio furono 6870.
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martedì 30 luglio 2024
Aspetti del tenore di vita di Alessandro che fu anche casto, sobrio e parco.
Moderazione di Alessandro. Rifiuto del lusso, del cibo smodato, e della mollezza. Elogio della fatica.
Curzio Rufo prosegue affermando che se Alessandro avesse mantenuto fino all’ultimo la continentia animi 3, 12, 18, sarebbe stato più felice di quanto lo fu imitando i trionfi di Bacco. Prima di lasciarsi ubriacare dai successi egli accolse moderate et prudenter la fortuna che ancora non era straripata nel suo animo: “nondum fortuna se animo eius superfuderat”, 3, 12, 20, mentre ad ultimum magnitudinem eius non cepit, Alessandro non ne contenne la grandezza.
Comunque rispettò regine e principesse prigioniere come se fossero sue sorelle (III, 12, 21).
“Alessandro non volle che fossero trattate come prigioniere, ma come regine. Desiderava che la maestà del sangue reale tronfasse sulla rivalità tra Greci e Barbari. Intravvediamo dopo Isso per la prima volta l’attegiamento che egli contava di assumere più tardi riguardo alla Persia”[1].
Plutarco racconta che Al. ritenendo che fosse più regale vincere se stesso che i nemici (to; kratei'n eJautou' basilikwvteron hJgouvmeno~) non toccò le prigioniere, né conobbe altre donne prima del matrimonio, tranne Barsine (Vita, 21, 7).
Al. affermava che capiva di essere mortale soprattutto perché dormiva o aveva rapporti sessuali (e[lege de; mavlista sunievnai qnhto;~ w]n ejk tou' kaqeuvdein kai; sunousiavzein, Vita, 22, 6), poiché da una sola debolezza di natura derivano fatica e piacere.
Era controllato anche nel cibo. Aveva nominato Ada regina di Caria dopo la presa di Alicarnasso; questa gli aveva mandato cibi e cuochi e Alessandro le rispose non ne aveva bisogno: aveva cuochi migliori datigli dal pedagogo Leonida: pro;~ to; a[riston nuktoporivan, per il pranzo una marcia notturna, pro;~ to; dei'pnon ojligaristivan (Vita, 22, 10) per cena il mangiare scarso.
Cicerone nelle Tusculanae V, 93 scrive che i desideri necessari si possono soddisfare quasi con nulla (satiari posse paene nihilo-divitias enim naturae esse parabiles)
I naturali non è difficile procurarseli né farne a meno.
Quelli non naturali né necessari sono inanes, vuoti e non hanno niente in comune con la necessità né con la natura.
Dario in fuga bevve acqua inquinata da cadaveri e disse di non aver trovato mai bevanda più piacevole: numquam videlicet sitiens biberat (V, 34, 97).
Socrate passeggiava di buona lena (contentius) fino a sera usque ad vesperum e diceva: “ se, quo melius cenaret , obsonare ambulando famem, che per cenare meglio faceva provvista di appetito passeggiando.
Dioniso il vecchio a Sparta disse che quel brodo nero (ius nigrum[2]) non gli era piaciuto.
Il cuoco rispose: “ Minime mirum; condimenta enim defuerunt”
Quae tandem? –inquit ille
Labor in venatu, sudor, cursus ad Eurotam, fames, sitis; his enim rebus Lacedaemoniorum epulae condiuntur”
Quanto al vino, ne era propenso meno di quanto si pensava (h\tton h} edovkei kataferhv~ (Vita, 23): stava a lungo con la coppa in mano ouj pivnwn ma'llon h} lalw'n, non bevendo più che chiacchierando quando aveva molto tempo libero, ma quando doveva agire non lo tratteneva né il vino, né il sonno, né scherzi o feste di nozze, né uno spettacolo, come accadeva ad altri capi militari (23, 2).
Si metteva a tavola tardi ojyev e quando era già sceso il buio- kai; skovtou~ h[dh kataklinovmeno~ 23, 6 poi per il gusto di conversare protraeva a lungo i brindisi. Vero è però che dopo i brindisi si lasciava andare a spacconate ( pro;~ to; kompw'de~, 23, 7) e dava troppo spazio agli adulatori.
Più avanti Plutarco racconta che Al. biasimava il lusso dei suoi amici: p. e. Leonnato che si era fatto portare dall’Egitto la sabbia per la palestra da una carovana di cammelli. Allora disse che vivere nelle mollezze è la cosa più servile, mentre sopportare fatiche è la cosa più regale: “ o{ti doulikwvtaton mevn ejsti to; trufa'n, basilikwvtaton de; to; ponei'n” (Vita, 40, 2).
Si affaticava non solo nelle attività militari ma anche nella caccia, tanto che una volta un messo spartano sopraggiunto mentre abbatteva un grosso leone, gli disse: “kalw'~ g j
j Alevxandre pro;~ to;n levonta hjgwvnisai peri; th'~ basileiva~” (40, 4), hai combattuto bene Al. contro il leone per vedere chi sarebbe rimasto re. Lisippo e Leocare raffigurarono Al. a caccia.
Pindaro nella Nemea III racconta che Achille sterminava leoni, abbatteva cinghiali, e Artemide era piena di stupore, e anche Atena guerriera, perché, senza cani né inganno di reti, uccideva i cervi, più forte anche di loro nella corsa (vv. 44-52).
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Arriano tra l’altro scrisse un Cinegetico sulle orme di quello senofonteo, accentuando però l’aspetto agonistico- cavalleresco che vieta la cattura e l’uccisione dell’animale cacciato
Pesaro 30 luglio 2024 ore 18, 53 giovanni ghiselli