NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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domenica 30 agosto 2015

Twitter, XCVI antologia


Twitter 30 agosto


La "buona" scuola. Bambini allevati dalla pubblicità in un'ignoranza da eunuchi. Ingrassano e maneggiano aggeggi deleteri per il cervello. Non parlano. Un po’ meglio le bambine.

Bambini allevati dalle grida triviali e deleterie della pubblicità nell'assenza di una buona scuola.

A cosa devo assimilare la buona scuola? Alla ripetizione del megafono pubblicitario. All’iterazione dei luoghi comuni più beceri e idioti.

Bambini obesi per coca cola e merendine: un gonfiore malsano confonde tutto e nasconde le fattezze umane che scompaiono nell'accumulo di grasso. Meno stupide e autodistruttive le bambine.

Gli uomini sono pochini. Molti si sposano tra loro, tutti contenti e tanto sorridenti. Altri sono sostituiti da femmine mascoline come la Santanchè, di nome femmina, “stallone il resto dalla grossa coglia”. Come il centauro di D’Annunzio (La morte del cervo, Alcyone, 1903).

 I bambini vengono allevati da donne (per fortuna queste in un modo o in un altro partoriscono ancora) e da eunuchi scimuniti. E ingrassano, giocano con i cellulari, non fanno sport, non studiano. Esattamente come gli eunuchi che fungono-male- da babbi. Più intelligenti le bambine.

Seneca e suo nipote Lucano si uccisero sotto Nerone imperatore pazzo, auriga e citaredo. Io non l’ho fatto sotto il potere oscuro  degli stragisti occulti, né sotto i  ladroni  palesi finiti sbeffeggiati con le monetine. Tanto meno lo farò sotto la banda di questi apprendisti sciocchi, rottamatori autoproclamati della nostra splendidissima Italia, nobile e antica, regale e pitocca.

Bisogna recuperare il senso epico, cioè eroico, della parola e dell’uomo. Contro il dilagare dell’essere eunuchi. Meno sdilinquite e flaccide le ragazze e le bambine. Anzi molte di loro sono gagliarde.

La parola è la vera ajrchv che i filosofi ionici ricercavano, non l’acqua né l’a[peiron. In questo sono d’accordo con l’apostolo evangelista Giovanni: "  jEn ajrch'/  h\n oJ lovgo", kai; oJ lovgo~ h\n pro;" to;n qeovn, kai; qeo;" h\n oJ lovgo". ou|to" h\n ejn ajrch'/ pro;" to;n qeovn. pavnta di' aujtou' ejgevneto, kai; cwri;" aujtou' ejgevneto oujdevn. In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum et Deus erat Verbum. Hoc erat in principio apud Deum. Omnia per ipsum facta sunt, et sine ipso factum est nihil (1, 1-3), in principio c'era la Parola e la Parola era con  Dio e la Parola era Dio. Questa era in principio con Dio. Tutto fu fatto tramite lei e senza lei nulla fu fatto.
Ma il verbum deve diventare factum. Im Anfang war das Wort…Im anfang war die Tat[1]. Fatto e carne. Per questo ci vuole la donna, la femmina umana.
Ancora secondo Giovanni:"kai; oJ lovgo" savrx ejgevneto" (14), e il verbo si fece carne. E’ in corpo  di donna, di solito non vergine del resto, ossia non senza il contributo dell’uomo, che il verbo si fa carne.

Cito il poeta albanese Gëzim Hajdari che conoscerò e presenterò il 14 settembre alla festa dell’Unità di Bologna, alle 21 nella libreria: “fare il contadino della poesia vuol dire fare l’amore dodici volte al giorno come una pernice.” Delta del tuo fiume, Contadino della poesia, Ensemble, Roma, 2015.
Diversi anni fa rimasi indietro di una volta, una sola. A dire il vero non insistetti. Ma sono ancora giovane (71 a novembre) e se Priapo mi vuole bene e mi concede la sua grazia,  mi rifarò. Solo chi è mitico è realistico[2].

Ancora Gëzim Hajdari: “Fare il contadino della poesia vuol dire misurarsi con la Storia, non con i propri coglioni” . Tanto meno con la posticcia Santanché.


giovanni ghiselli

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[1] Goethe, Faust I, Studio. In principio era la Parola…in principio era l’Azione.
[2] Pasolini nel film Medea fa dire al Centauro il quale istruisce il piccolo Giasone che dovrà andare in cerca del vello d’oro “in un paese lontano al di là del mare. Qui farai esperienze di un mondo che è ben lontano dall’uso della nostra ragione, la sua vita è molto realistica come vedrai perché solo chi è mitico è realistico e solo chi è realistico è mitico” P. P. Pasolini, Medea in Il vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, p. 545.

venerdì 28 agosto 2015

L'inizio del lavoro di insegnante. IX parte

Budapest di notte

Katina 1970

Riprendo l’epica della mia gioventù. Con epica intendo atti non necessariamente di valore eroico, le ajristeivai di Omero, ma comunque significativi.
I ragazzi della mia generazione trovavano lavoro, anche a tempo indeterminato, appena laureati, e, quindi, potevano permettersi il “lusso” di cercare significati nella vita oltre la sopravvivenza materiale e l’indipendenza dai genitori.
Nell’estate del 1970 dopo i mesi assai duri di Carmignano e Cittadella sedes ancor più moribundae della mia Pesaro[1], tornai nel collegio universitario di Debrecen, in mezzo alle giovani borsiste europèe. Avevo fame arretrata di compagnia, soprattutto di quella delle giovani donne libere e non a caccia di marito. Insomma vezzose ragazze[2] con un’educazione accademica. Le femmine specifiche del paese dove avevo insegnato erano allieve giovanissime, quindi sacre e intoccabili, o colleghe dai denti zitelleschi pronti ad azzannare anche l’ombra di un possibile sposo. Sposo infelicissimo sarei stato, dato il carattere mio. Non dico solo con una zitella dai denti voraci, ma pure con un soavissimo angelo-femmina. Il matrimonio, nella mia testa, se volete bacata, va bene per chi non sa stare solo, o per quanti, non pochi, vogliono tenere nascosta la loro omosessualità. Secondo me, sposarsi è un atto contro natura. Per lo meno contro la mia natura. Giurare fedeltà eterna a una donna, o a un uomo, è un’avventatezza del tutto irresponsabile: può farlo un bambino, non una persona matura e avveduta. E poi diciamo la verità: “Chi a una sola è fedele/verso l’altre è crudele”[3].
Il mio omonimo forse anche eponimo[4] aveva capito tutto. Che dire di più?
A Debrecen dunque incontrai Katina, una delle finlandesi della mia collana. Questa era bella e colta meno delle altre[5], ma ha avuto una parte lei pure nel mio apprendistato e nella mia formazione: mi fece capire quanto potessi riuscire simpatico e gradevole a una donna nel letto, il mobile più importante di ogni casa secondo Euripide[6], secondo le donne e pure secondo me[7].
Katina veniva da Helsinki, aveva ventidue anni passati senza sviluppare qualità eccelse, ma faceva sesso molto volentieri e con un buonumore continuo, comunicativo, rallegrante ed eccitante: ricordo che l’ultima sera del corso estivo, eravamo a Budapest nel Budaörsi Kollegium[8], la simpatica ragazza mi guardò a lungo negli occhi, sorrise e disse: “Gianni, ti ringrazio e ti sarò sempre grata per la magnifica estate che mi hai regalato”. “Grazie a te”, risposi, e non solo perché si usa tra persone educate. Quindi la fanciulla concluse: “questa che è l’ultima sera nostra, voglio essere più felice del solito: “sixty nine, I hope”. Non traduco per pudore e perché, tutto sommato sono ancora timido e riservato.
Feci l’errore di sottovalutare Katina, sopravvalutando tra le altre chi non ha messo al mondo la creatura che aspettava da me. Ogni volta che vedo una bambina correre e ridere, vado a nascondermi e piango. Quella nostra figlia aveva diritto di vivere. Prima di dare il permesso di abortire a una donna incinta si dovrebbe interpellare anche chi l’ha fecondata, pure se le Erinni di Eschilo hanno sentenziato[9] che l’uomo conta poco nel generare.
Ho sotto gli occhi due fotografie con me e Katina: in entrambe lei sorride felice e io guardo la macchina fotografica con l’espressione dolce, ammiccante, quasi sicura, del giovane maschio soddisfatto e orgoglioso delle proprie prestazioni. Infatti questa mia amante, che il Signore la benedica, viva o morts che sia, mi gratificava spesso, nel talamo nostro, dicendo tutta contenta e orgogliosa di noi: “but you are not normal”, e così via. Questa volta è per modestia che non traduco. Io che venivo dal digiuno forzato del motel Palace di Cittadella, ero contento della gran scorpacciata erotica, e mi sentivo un uomo già non poco vissuto, intelligente, capace di una bella e sana complicità con la vita, ossia di ottenere quanto desidera, sia questo educare i giovani, sia piacere alle donne e trarne piacere e darne a loro, il “piacer maggiore - che per lo mar dell’essere si trova”[10], come ha scritto l’infelice di Recanati.
In realtà all’epoca ero poco più di un bambino. Mi aspettavano prove molto dure e severe, utili del resto, a temprare la mia umanità. Avrei provocato la fortuna pochi mesi più tardi, durante il servizio militare, quindi insegnando, facendo l’amore, perfino facendo sport[11], e sarei diventato quell’uomo forte raffigurato da Seneca con queste parole : "ecce par deo dignum, vir fortis cum fortuna mala compositus, utique si ei et provocavit"[12].
Ma per ora basta di questo

giovanni

il blog è arrivato a 264002. Punto ancora ai 300 mila entro questo anno, al più tardi entro i tre anni di vita del blog (febbraio 2016). Altrimenti perché scrivere?





[1] Cfr, Catullo, 81, 3: “moribunda ab sede Pisauri”
[2] Cfr. Don Giovanni di Da Ponte musicato da Mozart, I, 20-
[3] Don Giovanni, II, 1
[4] Pure Giovanni Battista però mi piace come omonimo-eponimo. Mi sento vicino a lui come agitatore di coscienze e sovversivo politico. Ho sempre cercato del resto di non farmi decapitare
[5] Helena (1971), Kaisa (1972) e Päivi (1974) delle quali ho già raccontato le storie presenti in questo blog. Le raccomando a chi non le avesse ancora lette, e non perché scritte da me, ma perché sono belle, molto belle.
[6] Leggi in particolare la Medea e l’Alcesti.
[7] Magari a pari merito con la libreria
[8] Già ricordato nella storia di Päivi, il grande amore (presunto) del 1974.
[9] Consiglio a chi mi legge, di leggere, a maggior ragione, l’intera Orestea, anzi tutte le tragedie di Eschilo, Sofocle, Euripide.
[10] Amore e morte, 6-7
[11] Nel maggio del 1972 mi sarei rotto il braccio destro correndo precipitosamente in discesa.
[12] De providentia, 2, 9. ecco una coppia di atleti degna di dio: Uomo forte opposto alla cattiva fortuna, soprattutto se l’ha provocata 

mercoledì 26 agosto 2015

Metodologia per l'insegnamento del greco e del latino, parte XLVI

Agamennone al Teatro della Fortuna (Fano)


Pessimismo e ottimismo pedagogico. Pindaro. Euripide: Ecuba (oJ me;n ponhro;" oujde;n a[llo plh;n kakov") e Supplici (hJ eujandriva-didaktovn). Protagora in Platone: paraskeuasto;n ei\nai ajrethvn

Ora è chiaro che non tutti sono portati per le stesse materie; che il greco e il latino sono facili per alcuni, difficilissimi per altri. L’intuizione infatti è una qualità indispensabile, come la leggerezza e la potenza per un campione. Quelli predisposti alle nostre materie ci inducono all’ottimismo pedagogico, quelli maldisposti, al pessimismo. Sull’argomento riferisco le opinioni di tre maestri.
Pindaro nell’ Olimpica II chiarisce il suo pessimismo pedagogico: "sofo;" oJ polla; eijdw;" fua'/ -maqovnte" dev, lavbroi - pagglwssiva/ kovrake" w{" a[kranta garuveton - Dio;" pro;" o[rnica qei'on ” (vv. 86-89), saggio è chi sa molto per natura, voi due[1] addottrinati invece, intemperanti, vaghi di ciance, come corvi di fronte al divino uccello di Zeus, gracchiate parole vuote.
Nell’Ecuba (del 424) di Euripide la protagonista sente raccontare da Taltibio il sacrificio di Polissena e prova “una strana consolazione” per la nobiltà con la quale la ragazza è morta, splendendo di bellezza, come un’opera d’arte, e parlando con il coraggio di un eroe: “Non è strano che, se la terra è cattiva, /ma ottiene buone condizioni dagli dèi, produce buona spiga, /mentre se è buona, ma non riceve quanto essa deve ottenere, / dà cattivi frutti; tra gli uomini invece, sempre/il malvagio non è nient'altro che cattivo / mentre il buono è buono, né per una disgrazia/guasta la sua natura, ma rimane sempre onesto? (“oJ me;n ponhro;" oujde;n a[llo plh;n kakov", - oJ d j ejsqlo;" ejsqlov", oujde; sumfora'" u{po - fuvsin dievfqeir j, ajlla; crhstov" ejst j ajeiv;”) /Dunque i genitori fanno la differenza o l'educazione?/Certamente anche essere educati bene, porta/ un insegnamento di onestà; e se uno l’ha imparato bene, / sa che cosa è turpe, avendolo appreso con il metro del bello. /Ma questi pensieri la mente li ha scagliati invano", (Ecuba, vv. 592-603). In questa tragedia dunque prevale il pessimismo, come nell’ode di Pindaro.
Nelle Supplici, del 422, un dramma che è tutto un encomio degli Ateniesi, leggiamo invece l'espressione di un incondizionato ottimismo pedagogico, forse per il fatto che si stava preparando la pur malsicura pace di Nicia: Adrasto fa l'elogio funebre dei sette caduti nella guerra contro Tebe, poi conclude rivolgendosi direttamente a Teseo: “ Non ti stupire dopo quanto ho detto, / Teseo, che questi abbiano avuto il coraggio di morire davanti alle torri. /Infatti essere educati non ignobilmente comporta il senso dell'onore: /e ogni uomo che ha esercitato il bene/
si vergogna di diventare vile. Il coraggio è/ virtù insegnabile (hJ eujandriva-didaktovn), se è vero che il bambino impara/a dire e ad ascoltare quello di cui non ha cognizione. /Ma quello che uno abbia imparato, suole conservarlo/fino alla vecchiaia. Così educate bene i vostri figli" (vv. 909-917).
Un’opinione diffusa, non solo ad Atene, di ottimismo pedagogico viene riportata nel Protagora di Platone.
Il sofista, personaggio eponimo del dialogo, sostiene che alcuni aspetti naturali degli uomini (piccolezza, bruttezza o debolezza, p. e.) non si possono correggere, e dunque non suscitano irritazione e non provocano punizioni; mentre l’assenza delle qualità che derivano all’uomo dall’esercizio, provoca ire, ammonimenti e sanzioni. Ingiustizia, empietà e assenza di virtù politica vengono punite “o{ti ge oi{ ge a[nqrwpoi hjgou'ntai paraskeuasto;n ei\nai ajrethvn” (324), poiché gli uomini pensano che la virtù sia acquisibile. Si punisce per correggere e distogliere dal commettere ingiustizia: “kai; toiauvthn diavnoian e[cwn dianoei'tai paideuth;n ei\nai ajrethvn” (324b), e chi la pensa in questo modo crede che la virtù sia insegnabile. Se gli Ateniesi, come gli altri, puniscono i colpevoli di ingiustizia, ciò significa che anche loro sono tra quelli i quali considerano la virtù acquisibile e insegnabile. Stessa posizione negli Stoici.


Conclusione etica: la felicità ha bisogno del bello morale e non vi è profonda felicità senza morale profonda. Moralità è favorire la vita, immoralità danneggiarla. Chi danneggia la vita prima o poi viene sconfitto. La scuola deve dare un’educazione morale

Per quanto riguarda l’esigenza di una conclusione etica di questo mio lavoro mi affido ad alcune citazioni che convalidano quanto ho sempre pensato della mia deontologia professionale e di educatore: "Ogni altra scienza è dannosa a colui che non ha la scienza della bontà… Il profitto del nostro studio è esserne divenuto migliore e più saggio"[2]; "e sostengo che non vi è profonda felicità senza morale profonda"[3].
Bisogna riflettere su queste parole e su queste altre di Nietzsche: “Siamo arrivati al punto che le nostre scuole e i nostri maestri prescindono semplicemente da una educazione morale o si contentano di formalismi: e virtù è una parola sotto la quale maestri e scolari non riescono a pensare a niente, una parola passata di moda, della quale si sorride- e male se non si sorride perché allora si è ipocriti”[4].
L’educazione morale deve insegnare a non danneggiare la vita. Si confanno a tale scopo queste citazioni finali, una sorta di quintessenza della morale di tre profeti della Giustizia: “prepara il male a se stesso l’uomo che lo prepara per un altro, / e il cattivo progetto è pessimo per chi l’ha progettato” (Esiodo, Opere e giorni, vv. 265-266).
Quindi Solone: “Ricchezze desidero averne, ma acquistarle ingiustamente/ non voglio: in ogni caso in seguito è solita arrivare Giustizia” (Allle Muse, Fr. 13 West, vv. 7-8).
Poi Eschilo: “la violenza infatti fiorendo dà per frutto una spiga/
di accecamento donde falcia una messe tutta di lacrime" (Persiani, vv. 821-822).
l’Orestea: “infatti non c'è difesa/ di ricchezza, volta alla sazietà, per l'uomo / che ha preso a calci il grande altare/di Giustizia, con il proposito di farla sparire" (Agamennone, vv. 381-384).
Un'immagine che tornerà, variata, nelle Eumenidi: "rispetta l'altare della Giustizia, /e non disprezzarlo con calci di piede sacrilego/guardando al lucro: infatti il castigo sopraggiungerà" (vv. 539-541).
Chiudo con i versi che rendono visibile, quasi con un senso di compassione, l’insensatezza infantile e crudele di chi danneggia la vita[5] che lo punirà: “Ogni rimedio è vano. Non rimane nascosto, /ma risalta, luce di sinistro bagliore, il danno;/e, come bronzo cattivo/per sfregamento e colpi, /diventa nero, se sottoposto a giustizia, poiché/insegue, come un fanciullo, un uccello che vola" (Agamennone, vv 388-394).


Gianni Ghiselli




[1] Simonide e Bacchilide, secondo gli scoliasti
[2] Montaigne, Saggi, p. 185 e p. 199.
[3] R. Musil, L'uomo senza qualità, p. 846.
[4] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III, Schopenhauer come educatore, p. 172.
[5] "In qualche modo verrete sconfitti. Qualche cosa vi sconfiggerà. La vita vi sconfiggerà" (G. Orwell, 1984, p. 282) dice Winston, il protagonista del romanzo al suo torturatore.

lunedì 24 agosto 2015

Twitter, XCV antologia

Diversi politici e politici diversi hanno il cervello contumace.
Il pregiudizio antipopulista è spesso anche antipopolare.
La virtù politica comporta sapere e capacità. La possiede papa Francesco non senza etica.

il 24 agosto racconterò quello che dobbiamo ai Greci. Io devo loro un aiuto nella formazione dell'identità, il gusto della bellezza e della verità.
inoltre devo ai Greci l'avversione per le menzogne e le false apparenze.

Voglio ritrovare la divinità della parola dissacrata e profanata: in principio erat Verbum. Almeno restituire al Logos la dignità calpestata.

Mi piacciono le trasgressioni contro il disordine. I vari Dalla, Guccini e simili sono invece maestri di trasgressioni disordinate.

Chiedere la crescita infinita del PIL e dei consumi è una preghiera non retta anzi del tutto storta e non può giungere a dèi buoni e giusti.

Sono comunista in quanto antepongo la comunanza (koinonìa) all'idiotèia (da cui idiozia), cioè alla vita privata, egoista e qualunquista.

Ho imparato anche a rispettare il mio corpo: a non vivere ingrassando en tròpo boskèmatos (Platone Leggi, 807) come bestiame al pascolo.
Platone aggiunge che le bestie ingrassate nell'ozio e nell'indolenza vengono sbranate da animali snelli, forti e coraggiosi (Leggi 807 b) .

"Quello che noi dobbiamo ai greci". Conferenza


I bravi maestri


io durante una conferenza
Eugenio Scalfari in “la Repubblica” del 23 agosto 2015 cita papa Francesco: “Il mito di Ulisse ci parla del “nostos algos”, la nostalgia, che può provare soddisfazione solo in una realtà infinita” (Quando un Papa cita Ulisse e si oppone al potere temporale, p. 27).
A dire il vero Odisseo aveva nostalgia della piccola Itaca e non di una realtà infinita. Non poche volte i Greci sono citati quasi a vanvera, data la scarsa conoscenza dei loro testi.
Scalfari continua: “Che io sappia nessun Papa aveva evocato il mito odisseaco, l’eroe moderno per eccellenza che Dante, pur collocandolo all’inferno, eleva alle vette più alte del pensiero”. Segue la citazione piuttosto scontata e ovvia di “Considerate la vostra semenza” et cetera.
Parole, quelle di Scalfari, che non dicono molto.

Nella Domenica di “Il sole 24 ore” del 23 agosto c’è un altro articolo che poteva non essere scritto: Lamento di Orazio sul maestro (p. 22). E’ la storia del plagosus Orbilio  che una volta era nota a qualsiasi studente di Liceo. L’autore, Alessandro Banda, ricorda dunque che il maestro di Orazio picchiava gli allievi distratti: “Li motivava adeguatamente. Come? A suon di sganassoni. O meglio: di nerbate. Orazio, a tanti anni di distanza, descrive il maestro con un unico aggettivo: manesco, in latino plagosus. In effetti plagosus viene da plaga: ferita. Orbilio non metteva le mani addosso direttamente. Sr serviva della ferula, della verga tipica dei maestri e con quella provocava lividi e ferite agli inermi studenti. Forse si potrebbe rendere quel plagosus con un più ardito “contundente”. Orbilio maestro contundente”.
Fin qui l’articolista ha fatto un poco di cronaca pettegola a tratti quasi triviale, ma più avanti entra nel merito degli auctores. Vediamo come: “E’, crediamo, abbastanza istruttivo notare come, pur con tutte le differenze del caso, sia rimasta ancor oggi la situazione fondamentale descritta da Orazio: la repulsione dei giovani verso i testi antichi, da loro considerati insignificanti e invece reputati sacri dai maestri. I nomi di questi testi possono cambiare: Divina Commedia, Canzoniere, Promessi Sposi eccetera; l’avversione, la resistenza dei giovani è la stessa; naturalmente siamo tutti contenti che verghe, scudisci, fruste, flagelli e affini siano spariti definitivamente dal panorama scolastico”.
Questo gazzettiere non dice che già Quintiliano aveva bandito le botte dei maestri agli scolari come offensive e diseducative, e soprattutto non dice che la repulsione dei giovani non è diretta agli autori ma al modo insignificante con cui vengono presentati da maestri davvero repellenti. I bravi maestri fanno innamorare gli allievi, quando gli scrittori vengono presentati con intelligenza e vivacità. Le mie conferenze sugli autorio greci e latini suscitano entusiasmo.


giovanni ghiselli 

Metodologia per l'insegnamento del greco e del latino, parte XLV

Platone




L’educazione attraverso gli esempi chiari. Sofocle, Platone, Seneca, Nietzsche, Orazio. L’esempio concreto è la stella polare nell’educazione antica. A Telemaco viene suggerito l’esempio di Oreste nell’Odissea. Il realismo è greco (Pavese). Che cosa è il realismo secondo Murray

L'educazione si fa in buona parte attraverso gli esempi: esempi teorici ed esempi pratici. Nell'Elettra di Sofocle la protagonista eponima dice alla madre: "aijscroi'" ga;r aijscra; pravgmat' ejkdidavsketai" (v. 621), le azioni turpi si imparano attraverso le turpi.
Platone nella Repubblica afferma che non sono diversi dai ciechi coloro che non hanno nell’anima nessun esemplare chiaro: "mhde;n ejnarge;"[1] ejn th'/ yuch'/ e[conte" paravdeigma" (484c).
Seneca sostiene che la via per la saggezza è breve ed efficace attraverso gli esempi, mentre è lungo il cammino che passa per i precetti: "longum iter est per praecepta, breve et efficax per exempla (Epist., 6, 5).
"Ma l'esempio deve essere dato con la vita visibile e non semplicemente con dei libri, a quel modo quindi che insegnavano i filosofi della Grecia: con l'aspetto, l'atteggiamento, il vestito, il cibo, i costumi, più ancora che con il parlare o addirittura con lo scrivere"[2].
Il modello principale per chi studia, per chi insegna, per chi scrive, dovrà essere, oltre la cultura, la vita: "respicere exemplar vitae morumque iubebo/doctum imitatorem et vivas hinc ducere voces"[3], consiglierò il dotto imitatore di osservare il modello della vita e dei costumi, e di trarre di qui le sue vive voci.
In effetti l'esempio, positivo e negativo, è la stella polare dell'educazione antica, il punto di orientamento più efficace. Già nel primo canto dell'Odissea compaiono i paradigmi educativi: Egisto è presentato dallo stesso Zeus quale contromodello, siccome è uno degli uomini che soffrono dolori contro il dovuto per la loro follia: "sfh'/sin ajtasqalivh/sin ujpe;r movron a[lge j e[cousin" (v. 34), e viceversa Oreste più avanti viene indicato a Telemaco da Atena-Mente quale paradigma positivo in quanto ha ucciso il negativo Egisto appunto, e ha vendicato il padre. Anche tu sii forte, lo incoraggia la dea, poiché ti vedo bello e grande assai: " "kai; suv, fivlo", mala gavr s& oJrovw kalovn te mevgan te-a[lkimo" e[ss j" (vv. 301-302). Senza l'esempio mancherebbe l'elemento concreto indispensabile per un elleno: "il realismo, in arte, è greco; l'allegorismo è ebraico", ebbe a scrivere Pavese[4].
Dell’esemplarità dei fatti e dei personaggi storici abbiamo già detto (4. 1).
Sentiamo che cosa è il realismo dei Greci secondo Murray: “Io intendo per realismo un interesse permanente per la vita in se stessa, e un’avversione per l’irrealtà e le false apparenze”[5].
Campione del realismo può essere considerato Tucidide che, proprio per questo motivo, Nietzsche contrappone a Platone
Nel Crepuscolo degli idoli [6] lo storiografo greco è indicato addirittura come terapia contro “ogni platonismo”: " Il mio ristoro, la mia predilezione, la mia terapia contro ogni platonismo è sempre stato Tucidide. Tucidide e, forse, Il Principedi Machiavelli mi sono particolarmente affini per l'assoluta volontà di non crearsi delle mistificazioni e di vedere la ragione nella realtà -non nella "ragione", e tanto meno nella "morale"... In lui la cultura dei sofisti, voglio dire la cultura dei realisti giunge alla sua compiuta espressione: questo movimento inestimabile, in mezzo alla truffa morale e ideale delle scuole socratiche prorompenti allora da ogni parte. La filosofia greca come décadence dell'istinto greco: Tucidide come il grande compendio, l'ultima rivelazione di quella forte, severa, dura oggettività che era nell'istinto dei Greci più antichi. Il coraggio di fronte alla realtà distingue infine nature come Tucidide e Platone: Platone è un codardo di fronte alla realtà-conseguentemente si rifugia nell'ideale; Tucidide ha il dominio di  -tiene quindi sotto il suo dominio anche cose".
Per giunta in Aurora [7] leggiamo: " Un modello. Che cosa amo in Tucidide, che cosa fa sì che io lo onori più di Platone? Egli gioisce nella maniera più onnicomprensiva e spregiudicata di tutto quanto è tipico negli uomini e negli eventi, e trova che ad ogni tipo compete un quantum di buona ragione: è questa che egli cerca di scoprire. Egli possiede più di Platone una giustizia pratica: non è un denigratore e un detrattore degli uomini che non gli piacciono, o che nella vita gli hanno fatto del male... rivolge lo sguardo soltanto ai tipi; che cosa se ne farebbe, poi, l'intera posterità cui egli consacra la sua opera di ciò che non è tipico? Così in lui, pensatore di uomini, giunge alla sua estrema, splendida fioritura quella cultura della più spregiudicata conoscenza del mondo che aveva avuto in Sofocle il suo poeta, in Pericle il suo uomo di stato, in Ippocrate il suo medico, in Democrito il suo scienziato della natura: quella cultura che merita di essere battezzata col nome dei suoi maestri, i Sofisti ".
Pasolini individua nella luce di Caravaggio, “quotidiana e drammatica”, una contrapposizione al lume universale del Rinascimento platonico” E prosegue: “Sia i nuovi tipi di persone e di cose che il nuovo tipo di luce, il Caravaggio li ha inventati perché li ha visti nella realtà. Si è accorto che intorno a lui-esclusi dall’ideologia culturale vigente da circa due secoli-c’erano uomini che non erano mai apparsi nelle grandi pale o negli affreschi, e c’erano ore del giorno, forme di illuminazione labili ma assolute che non erano mai state riprodotte e respinte sempre più lontano dall’uso e dalla norma, avevano finito col diventare scandalose, e quindi rimosse. Tanto che probabilmente i pittori, e in genere gli uomini fino al Caravaggio probabilmente non le vedevano nemmeno”[8]. Pasolini riconosce il suo debito al maestro Roberto Longhi.


Critica di tutti i luoghi comuni che non accrescono la vita.. Ogni persona deve assecondare la parte migliore del proprio carattere. Seneca. Cicerone. Dostoevskij. Sofocle e Fromm. Nietzsche. Wilde. La parabola di Kafka con il paraklausivquron anomalo. Lucio di Apuleio: redde me meo Lucio. Ortega: l’infelicità è lo squilibrio tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto. Hesse, Márquez. Prendere le distanze anche dai genitori: Il Vangelo di Giovanni e quello di Matteo. il Doctor Faustus di T. Mann (in nota). Stazio: Achille dice alla madre: “paruimus nimium!”. Di nuovo Fromm. Diventare se stessi prima di morire. L’Adriano della Yourcenar. Màrai. Orwell. Céline. Guido Croci. Pindaro: “diventa quello che sei”. Nietzsche: Amor fati, das ist meine innerste Natur. Eraclito. Döblin. Menandro: che cosa gradevole (cariven) è l’uomo, quando è uomo davvero! Vernant: l’uomo cessa di essere un’entità gradevole quando non assomiglia (ajeikhv~) a se stesso
Franz Kafka

Dopo tante considerazioni sui tovpoi, mi sento in dovere di mettere in guardia i giovani contro i luoghi comuni, letterari e non, se essi non accrescono la vita. Autorizzo questa mia conclusione attraverso Seneca: "nulla res nos maioribus malis implicat quam quod ad rumorem componimur " (De vita beata, 1, 3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci secondo il "si dice". Sentiamo ancora Seneca che traduce Epicuro: “si ad naturam vives, numquam eris pauper; si ad opiniones, numquam eris dives” (ep. 16, 7), se vivrai secondo la natura, non sarai mai povero, se secondo i luoghi comuni, non sarai mai ricco.
Sentiamo anche O. Wilde: “La morale moderna consiste nell’accettare i luoghi comuni della nostra epoca, ed io credo che per un uomo colto l’accettare i luoghi comuni della propria epoca sia la più rozza forma di immoralità”[9].
Questi presentati qui sono tovpoi assai nobili, di vario genere, e tra essi è possibile fare delle scelte, cercando sempre di vivere "ad rationem ", ragionando, piuttosto che "ad similitudinem " imitando. Nel ragionamento deve entrare la considerazione del carattere di ogni individuo, del proprio innanzitutto. Allora non possiamo ignorare che ogni persona ha un suo genio e che nessuno può riuscire bene se agisce in contrasto con il proprio demone: "nihil decet invita Minerva, ut aiunt, id est adversante et repugnante natura"[10], nulla si addice contro il volere di Minerva, come dicono, cioè con l'opposizione e la riluttanza della natura. Quindi ciascun giovane dovrebbe essere aiutato a trovare e valorizzare la propria natura originale: "id enim maxime quemque decet, quod est cuiusque maxime suum"[11], a ciascuno infatti soprattutto si addice quello che è soprattutto suo.
“Ma ecco, non bisogna essere come gli altri”. suggerisce Alioscia Karamazov allo studente Kolia[12]. “Continuate, dunque, a essere diverso dagli altri; anche se doveste rimanere solo, continuate lo stesso”[13]. L'uomo formato sui classici non può accontentarsi di un'identità gregaria.
Facciamo un esempio: Creonte domanda ad Antigone: "E tu non ti vergogni se la pensi in maniera diversa da questi?", e la ragazza risponde: “No perché non è per niente vergognoso onorare quelli nati dalle stesse viscere”[14]. La propaganda di ogni tirannide tende a inculcare la necessità del conformismo. Creonte sa che i più sono capaci soltanto di un'identità gregaria basata su un sentimento di appartenenza alla massa. Ma la figlia di Edipo è di altra stoffa, e, ben lontana dal vergognarsi, è fiera della propria diversità. Per lei anzi è inconcepibile che ci sia gente pronta "a rinunciare alla libertà, a far sacrificio del proprio pensiero, per essere uno del gregge, per conformarsi e ottenere così un sentimento di identità, benché illusorio"[15].
 "Della nostra esistenza dobbiamo rispondere a noi stessi, di conseguenza vogliamo agire come i reali timonieri di essa e non permettere che assomigli ad una casualità priva di pensiero…E' così provinciale obbligarsi a delle opinioni che, qualche centinaio di metri più in là già cessano di obbligare…Al mondo vi è un'unica via che nessuno oltre a te può fare: dove porta? Non domandare, seguila"[16].
“Quanto poi alla vita rovinata, credetemi, una vita è rovinata in quanto ne è arrestato lo sviluppo”[17].
“Il gregge avverte l’eccezione, tanto al di sopra di sé quanto al di sotto di sé, come qualcosa che ha per esso riflessi ostili e dannosi…La diffidenza è rivolta contro le eccezioni; essere eccezione è ritenuto una colpa”[18]. Essere se stessi dunque è difficile, persino pericoloso, ma non diventare quello che si è significa non vivere la propria vita, bensì quella degli altri: “Nihil ergo magis praestandum est quam ne pecorum ritu sequamur antecedentium gregem, pergentes non quo eundum est sed quo itur[19], niente allora dobbiamo fare con cura maggiore che evitare di seguire il gregge di coloro i quali ci stanno davanti, alla maniera delle bestie, dirigendoci non dove dobbiamo andare ma dove si va.
Nel Processo di Kafka[20] c’è una parabola con un paraklausivquron anomalo, quasi rovesciato: si tratta infatti di un'attesa ansiosa e querula davanti a una porta aperta, quella della legge, aperta proprio per colui che attende ma non ha il coraggio di entrare.
 E' la parabola che il cappellano delle carceri racconta a K. nel Duomo: "Davanti alla legge c'è un guardiano. A lui viene un uomo di campagna e chiede di entrare nella legge. Ma il guardiano dice che ora non gli può concedere di entrare. L'uomo riflette e chiede se almeno potrà entrare più tardi. "Può darsi" risponde il guardiano, "ma per ora no". Siccome la porta che conduce alla legge è aperta come sempre e il custode si fa da parte, l'uomo si china per dare un'occhiata, dalla porta, nell'interno. Quando se ne accorge, il guardiano si mette a ridere: "Se ne hai tanta voglia, prova pure a entrare nonostante la mia proibizione. Bada, però: io sono potente, e sono soltanto l'infimo dei guardiani. Davanti a ogni sala sta un guardiano, uno più potente dell'altro. Già la vista del terzo non riesco a sopportarla nemmeno io". L'uomo di campagna non aspettava tali difficoltà; la legge, pensa, dovrebbe pur essere accessibile a tutti e sempre, ma a guardar bene il guardiano avvolto nel cappotto di pelliccia, il suo lungo naso a punta, la lunga barba tartara, nera e rada, decide di attendere piuttosto finché non abbia ottenuto il permesso di entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere di fianco alla porta. Là rimane seduto per giorni e anni. Fa numerosi tentativi per passare e stanca il guardiano con le sue richieste. Il guardiano istituisce più volte brevi interrogatori, gli chiede notizie della sua patria e di molte altre cose, ma sono domande prive di interesse come le fanno i gran signori, e alla fine gli ripete sempre che non lo può far entrare. L'uomo, che per il viaggio si è provveduto di molte cose, dà fondo a tutto per quanto prezioso sia, tentando di corrompere il guardiano. Questi accetta ogni cosa, ma osserva: "Lo accetto soltanto perché tu non creda di aver trascurato qualcosa". Durante tutti quegli anni l'uomo osserva il guardiano quasi senza interruzione. Dimentica gli altri guardiani e solo il primo gli sembra l'unico ostacolo all'ingresso nella legge. Egli maledice il caso disgraziato, nei primi anni ad alta voce, poi quando invecchia si limita a brontolare tra sé. Rimbambisce e, siccome studiando per anni il guardiano, conosce ormai anche le pulci nel suo bavero di pelliccia, implora anche queste di aiutarlo e di far cambiare opinione al guardiano. Infine il lume degli occhi gli si indebolisce ed egli non sa se veramente fa più buio intorno a lui o se soltanto gli occhi lo ingannano. Ma ancora distingue nell'oscurità uno splendore che erompe inestinguibile dalla porta della legge. Ormai non vive più a lungo. Prima di morire, tutte le esperienze di quel tempo si condensano nella sua testa in una domanda che finora non ha rivolto al guardiano. Gli fa un cenno poiché non può più ergere il corpo che si sta irrigidendo. Il guardiano è costretto a piegarsi profondamente verso di lui, poiché la differenza di statura è mutata molto a sfavore dell'uomo di campagna. "Che cosa vuoi sapere ancora?" chiede il guardiano, "sei insaziabile". L'uomo risponde: "Tutti tendono verso la legge, come mai in tutti questi anni nessun altro ha chiesto di entrare?". Il guardiano si rende conto che l'uomo è giunto alla fine e per farsi intendere ancora da quelle orecchie che stanno per diventare insensibili, grida: "Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo"[21].
 "Nella natura nessuna creatura è più squallida e ripugnante dell'uomo che è sfuggito al suo genio e adesso sbircia a destra e a sinistra, indietro e ovunque. Alla fine non è più lecito attaccare un tal uomo, perché egli è tutto esteriorità senza nocciolo, una veste logora, tinta, rigonfia, uno spettro agghindato, che non può suscitare paura e certo neppure compassione"[22]. Cfr. il mito di Er in 16. 8.
Nell’ultimo libro dell’Asino d’oro di Apuleio, Lucio prega la Regina del cielo, la luna che gli è apparsa con uno straordinario splendore sulla riva del mare, vicino a Corinto, e le chiede la fine delle fatiche e dei pericolo corsi nella sua vita asinina, una vita senza Iside: “sit satis laborum, sit satis periculorum”. Quindi la prega di restituirlo alla forma umana, ai suoi affetti e, dopo tutto a se stesso, al Lucio che è: ” Depelle quadripedis diram faciem, redde me conspectui meorum, redde me meo Lucio” (XI, 2), stacca da me l’orribile aspetto di quadrupede, rendimi alla vista dei miei, rendimi al Lucio che sono.
"Qui, proprio qui, sta l'origine dell'infelicità…Avvertiamo allora lo squilibrio tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto. E questa, questa è l'infelicità"[23].
"Molti provavano, per un istante, una penosa tristezza perché tra la loro vita e i loro istinti c'era un tale dissidio, un tal conflitto che la loro vita non era affatto una danza, bensì un faticoso e affannato respirare sotto i pesi: pesi che in fin dei conti essi stessi si erano accollati"[24].
"Di tutte le offese, quelle arrecate alla mia vocazione-quando ho mancato di rispondere con passione all'immagine del cuore-sono le più dolorose. Con i suoi attacchi implacabili, la contrizione denuncia le insufficienze del cuore"[25].
"Florentino Ariza…l'aveva convinta che uno viene al mondo con le sue polveri contate, e quelle che non vengono usate per qualsiasi motivo, proprio o estraneo, si perdono per sempre"[26].
Per diventare se stessi è necessario prendere le distanze anche dai genitori: lo insegna il Vangelo di Giovanni nel quale il Cristo dice alla madre: " tiv ejmoi; kai; soiv, guvnai; -Quid mihi et tibi mulier? " [27] (2, 4), che cosa ho da fare con te, donna?
Ancora più esplicito è il Cristo nel Vangelo di Matteo: “non veni pacem mittere sed gladium. Veni enim separare
Hominem adversus patrem suum
Et filiam adversus matrem suam” (10, 34-35), non sono venuto a portare pace ma una spada. Sono venuto infatti a separare l’uomo dal padre suo e la figlia dalla madre.
Nell’Achilleide di Stazio il giovanissimo Pelide deve ribellarsi alla madre, che ne aveva fatto un travestito, per recarsi alla guerra di Troia: “Paruimus, genetrix, quamquam haud toleranda iuberes, /paruimus nimium: bella ad Troiana ratesque/Argolicas quaesitus eo” (II, 17-19), ho obbedito, madre, sebbene tu ordinassi cose non tollerabili, ti ho obbedito troppo: vado alla guerra di Troia sulle navi dei Greci che mi hanno cercato.
Si ricordi[28] quanto afferma Esiodo dei bambini ritardati, potenzialmente violenti, che vivevano fino a cento anni con la madre.

Sentiamo di nuovo Fromm: " Rimanendo legato alla natura, alla madre o al padre, l'uomo riesce quindi a sentirsi a suo agio nel mondo, ma, per la sua sicurezza, paga un prezzo altissimo, quello della sottomissione e della dipendenza, nonché il blocco del pieno sviluppo della sua ragione e della sua capacità di amare. Egli resta un fanciullo mentre vorrebbe diventare un adulto"[29].
"La capacità d'amare dipende dalla propria capacità di emergere dal narcisismo e dall'attaccamento incestuoso per la propria madre e il proprio clan; dipende dalla propria capacità di crescere, di sviluppare un orientamento produttivo nei rapporti col mondo e se stessi"[30].

"E' forse questo che si cerca attraverso la vita, null'altro che quello, la più grande sofferenza possibile per diventare se stessi prima di morire"[31].
Per questo l'Adriano della Yourcenar ha conquistato il potere sul mondo: "Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere interamente me stesso, prima di morire…Ho compreso che ben pochi realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro opere interrotte. Quell'ossessione di una vita mancata concentrava i miei pensieri su di un punto, li fissava come un ascesso"[32].
Altrettanto l’imperatore Giuliano nella commedia di Ibsen: “E che cos’è la felicità se non il vivere in conformità a se stesso? L’aquila chiede forse delle penne d’oro? Il leone ambisce avere artigli d’argento? O forse ilmelograno desidera che i suoi chicchi siano altrettante pietre preziose?”[33].
Diventare quello che si è costituisce una forma particolare di virtù: “esiste una virtù particolare, che altro non è se non la fedeltà assoluta alla nostra natura, al nostro destino e alle nostre inclinazioni”[34].
“ Gli esseri umani non sono, nella loro gran maggioranza, così fortemente egoisti. Pressappoco all’età di trent’anni abbandonano le ambizioni personali- in molti casi abbandonano addirittura il senso di possedere un’esistenza individuale- e vivono principalmente per gli altri, oppure sono semplicemente schiacciati dalla dura routine del lavoro quotidiano. Ma esiste anche una minoranza di persone dotate, caparbie e ben decise a vivere la propria vita fino in fondo: gli scrittori appartengono a questa categoria”[35].

 “Ed ecco apparire la cosa più sorprendente del dramma vitale: l’uomo possiede un ampio margine di libertà rispetto al suo io o destino. Può rifiutarsi di realizzarlo, può essere infedele a se stesso. In questo caso la sua vita è priva di autenticità…il nostro io è la nostra vocazione. Ebbene, possiamo essere più o meno fedeli alla nostra vocazione e di conseguenza la nostra vita può essere più o meno autentica…La cosa di maggior interesse non è la lotta dell’uomo con il mondo, con il suo destino esterno, ma la lotta dell’uomo con la sua vocazione. Come si comporta davanti alla sua inesorabile vocazione? Si attiene radicalmente ad essa, oppure, al contrario, la diserta e riempie la sua esistenza con un surrogato di ciò che sarebbe la sua autentica vita? Forse l’aspetto più tragico della condizione umana è che l’uomo può cercare di soppiantare se stesso, cioè di falsificare la sua vita”[36].

“Lo scopo della vita è lo sviluppo del proprio io. Il completo sviluppo di se stessi-ecco la ragion d’essere di ognuno di noi. Gli uomini oggi hanno paura di se stessi”[37].
 Insomma, ripeto con Pindaro: “gevnoio oi|o~ ejssiv” (Pitica II v. 72), diventa quello che sei.
Aggiungo una variante, considerando che cercare la propria realizzazione significa amare il compimento, la perfezione del proprio destino, il quale, per stravagante che sia, è una piccola parte del fato universale: “amor fati è la mia intima natura”[38]das ist meine innerste Natur.
Del resto ogni persona secondo Nietzsche coincide con il suo destino: "Il fatalismo turco contiene l'errore fondamentale di contrapporre fra loro l'uomo e il fato come due cose separate…In verità ogni uomo è egli stesso una parte di fato…Tu stesso, povero uomo pauroso, sei la Moira incoercibile che troneggia anche sugli dèi"[39]. Cfr. h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn[40] di Eraclito.
E' tanto tipicamente ellenico questo "amore del fato" che nel romanzo espressionista Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin leggiamo: " Non si deve fare il grande con la propria sorte. Io sono nemico del fato. Non sono greco io; sono berlinese"[41].
 Possiamo concludere il capitolo con questo frammento di Menandro: "wJ" cariven e[st j a[nqrwpo", a]n a[nqrwpo" h/\” (fr. 484 Kö) "che cosa gradevole è l'uomo quando è uomo davvero!".
Quando è che l’uomo smette di essere una cosa gradevole? Quando non assomiglia a se stesso. Sconcio, scoveniente in greco si dice ajeikhv~, ossia non eijkov~, oggetto neutro non somigliante, non somigliante a se stesso.
"Quando è privo di ogni charis, l'essere umano non assomiglia più a nulla: è aeikelios. Quando ne risplende, è simile agli dei, theoisi eoikei. La somiglianza con se stessi, che costituisce l'identità di ciascuno e si manifesta nell'apparenza che ognuno ha agli occhi di tutti, non è dunque presso i mortali una costante, fissata una volta per tutte…. Oltraggiare-cioè imbruttire e disonorare a un tempo-si dice aeikizein, rendere aeikes aeikelios, non simile"[42].
Il potere incentiva questa deformità che è la difformità della persona da se stessa: “Su che cosa, in fondo, si basa la repressione? Sul falso concetto che l’individuo ha di se stesso, e quindi sul falso concetto che si fa dei propri desideri: della propria libido, dei propri bisogni erotici, dell’amore che gli potrebbe spettare di diritto. La società sfrutta questo misconoscimento di sé, e si adopera con efficacia a confermare l’individuo in questa sua sbagliata concezione dell’amore”[43]. E di se stesso.








[1] Formato da ejn e ajrgov" che ci collega ai nostri argumenta (capp. 11, 11. 1, 11. 2).
[2] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III, Schopenhauer come educatore, p. 177.
[3] Orazio, Ars poetica, 317-318.
[4]Il mestiere di vivere, 29 settembre 1946.
[5] Le origini dell’epica greca, p. 38.
[6]Quel che debbo agli antichi, 2, pp. 125-126.
[7] p. 124
[8] Pasolini, La luce di Caravaggio in Pasolini Tutte le opere, p. 2673.
[9] Il ritratto di Dorian Gray, p. 88.
[10] Cicerone, De officiis, I, 110.
[11] Cicerone, De officiis, I, 113.
[12] Quello che rifiutava i classici. Evidentemente glieli facevano male.
[13] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, p. 668. Ho citato questo romanzo almeno dieci volte, tante quante l’Odissea, o quasi. Mi conforta in questa scelta l’amico Piero Boitani: “Per il mio compleanno, sul finire di quell’anno 1’anno 1968…mi feci regalare da una coppia di amici l’Odissea greca nell’edizione oxoniense dell’Allen: la conservo ancora, naturalmente, con il loro biglietto di auguri per segnalibro. Da allora, e per almeno dieci anni, ho riletto il poema, nell’originale e in traduzione italiana o inglese, ogni anno: insieme ai Fratelli Karamazov, era il mio libro-e lo è rimasto” (P. Boitani, L’ombra di Ulisse, p. 45).
[14] Sofocle, Antigone, vv. 510-511).
[15]E. Fromm, Psicanalisi della società contemporanea, p. 68.
[16] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III (1874), Schopenhauer come educatore, p 167.
[17] O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, p. 59.
[18] F. Nietzsche, Scelta di frammenti postumi 1887-1888, p. 295.
[19] Seneca, De vita beata, 1, 3.
[20] 1883-1924.
[21]F. Kafka, Il processo (1914-1915), IX capitolo, pp. 220-221.
[22] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III, Schopenhauer come educatore, p. 166.
[23] J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p. 42.
[24] H. Hesse, Klein e Wagner, p. 126.
[25] Hillman, La forza del carattere, p. 183
[26] G. G. Márquez, L’amore ai tempi del colera, p. 162.
[27] T. Mann commenta queste parole, da par suo, nel Doctor Faustus: "In fondo, per una madre, il volo di Icaro del figlio eroe, la sublime avventura virile dell'uomo che non è più sotto la sua protezione è un'aberrazione tanto colpevole quanto incomprensibile, donde ella sente risuonare, con segreta mortificazione, le parole lontane e severe: "Donna, io non ti conosco". E così ella riprende nel suo grembo la povera, cara creatura caduta e annientata, tutto perdonando e pensando che questa avrebbe fatto meglio a non staccarsene mai" (p. 691).
[28] Cap. 58.
[29]E. Fromm, La rivoluzione della speranza, p. 80.
[30]E. Fromm, L'arte d'amare, p. 153.
[31] L. F. Céline, Viaggio al termine della notte, p. 249.
[32] M. Yourcenar, Memorie di Adriano, p. 84.
[33] L’imperatore Giuliano, Atto III, quadro primo.
[34] S. Màrai, La recita di Bolzano, p. 97.
[35] G. orwell, Perché scrivo, “Gangrel”, n. 4, estate 1946, in Romanzi e Saggi, I Meridiani, p. 1288.
[36] J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p. 198 e p 199.
[37] G. Croci, Un gatto rosso mattone, p. 149.
[38] F. Nietzsche, Ecce homo, p. 92.
[39]Nietzsche, Umano troppo umano, vol. II, pp. 155-156..
[40] Fr. 91 Diano, il carattere è il destino dell’uomo). 
[41] Alfred Döblin, Berlin Alexanderplatz, p. 63.
[42]J. P. Vernant, Tra mito e politica, pp. 210-211.
[43] P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, p. 1472.