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Platone |
L’educazione attraverso gli esempi chiari. Sofocle, Platone, Seneca, Nietzsche, Orazio. L’esempio concreto è la stella polare nell’educazione antica. A Telemaco viene suggerito l’esempio di Oreste nell’Odissea. Il realismo è greco (Pavese). Che cosa è il realismo secondo Murray
L'educazione si fa in buona parte attraverso gli esempi: esempi teorici ed esempi pratici. Nell'Elettra di Sofocle la protagonista eponima dice alla madre: "aijscroi'" ga;r aijscra; pravgmat' ejkdidavsketai" (v. 621), le azioni turpi si imparano attraverso le turpi.
Platone nella
Repubblica afferma che non sono diversi dai ciechi coloro che non hanno nell’anima nessun esemplare chiaro: "
mhde;n ejnarge;" ejn th'/ yuch'/ e[conte" paravdeigma" (484c).
Seneca sostiene che la via per la saggezza è breve ed efficace attraverso gli esempi, mentre è lungo il cammino che passa per i precetti: "longum iter est per praecepta, breve et efficax per exempla (Epist., 6, 5).
"Ma l'esempio deve essere dato con la vita visibile e non semplicemente con dei libri, a quel modo quindi che insegnavano i filosofi della Grecia: con l'aspetto, l'atteggiamento, il vestito, il cibo, i costumi, più ancora che con il parlare o addirittura con lo scrivere"
.
Il modello principale per chi studia, per chi insegna, per chi scrive, dovrà essere, oltre la cultura, la vita: "
respicere exemplar vitae morumque iubebo/doctum imitatorem et vivas hinc ducere voces"
, consiglierò il dotto imitatore di osservare il modello della vita e dei costumi, e di trarre di qui le sue vive voci.
In effetti l'esempio, positivo e negativo, è la stella polare dell'educazione antica, il punto di orientamento più efficace. Già nel primo canto dell'
Odissea compaiono i paradigmi educativi: Egisto è presentato dallo stesso Zeus quale contromodello, siccome è uno degli uomini che soffrono dolori contro il dovuto per la loro follia: "
sfh'/sin ajtasqalivh/sin ujpe;r movron a[lge j e[cousin" (v. 34), e viceversa Oreste più avanti viene indicato a Telemaco da Atena-Mente quale paradigma positivo in quanto ha ucciso il negativo Egisto appunto, e ha vendicato il padre. Anche tu sii forte, lo incoraggia la dea, poiché ti vedo bello e grande assai: " "
kai; suv, fivlo", mala gavr s& oJrovw kalovn te mevgan te-a[lkimo" e[ss j" (vv. 301-302). Senza l'esempio mancherebbe l'elemento concreto indispensabile per un elleno: "il realismo, in arte, è greco; l'allegorismo è ebraico", ebbe a scrivere Pavese
.
Dell’esemplarità dei fatti e dei personaggi storici abbiamo già detto (4. 1).
Sentiamo che cosa è il realismo dei Greci secondo Murray: “Io intendo per realismo un interesse permanente per la vita in se stessa, e un’avversione per l’irrealtà e le false apparenze”
.
Campione del realismo può essere considerato Tucidide che, proprio per questo motivo, Nietzsche contrappone a Platone
Nel
Crepuscolo degli idoli lo storiografo greco è indicato addirittura come terapia contro “ogni platonismo”: " Il mio ristoro, la mia predilezione, la mia
terapia contro ogni platonismo è sempre stato
Tucidide. Tucidide e, forse,
Il Principedi Machiavelli mi sono particolarmente affini per l'assoluta volontà di non crearsi delle mistificazioni e di vedere la ragione nella
realtà -non nella "ragione", e tanto meno nella "morale"... In lui la cultura dei
sofisti, voglio dire la
cultura dei realisti giunge alla sua compiuta espressione: questo movimento inestimabile, in mezzo alla truffa morale e ideale delle scuole socratiche prorompenti allora da ogni parte. La filosofia greca come
décadence dell'istinto greco: Tucidide come il grande compendio, l'ultima rivelazione di quella forte, severa, dura oggettività che era nell'istinto dei Greci più antichi. Il coraggio di fronte alla realtà distingue infine nature come Tucidide e Platone: Platone è un codardo di fronte alla realtà-conseguentemente si rifugia nell'ideale; Tucidide ha il dominio di
sé -tiene quindi sotto il suo dominio anche cose".
Per giunta in
Aurora leggiamo: "
Un modello. Che cosa amo in Tucidide, che cosa fa sì che io lo onori più di Platone? Egli gioisce nella maniera più onnicomprensiva e spregiudicata di tutto quanto è tipico negli uomini e negli eventi, e trova che ad ogni tipo compete un quantum di
buona ragione: è
questa che egli cerca di scoprire. Egli possiede più di Platone una giustizia pratica: non è un denigratore e un detrattore degli uomini che non gli piacciono, o che nella vita gli hanno fatto del male... rivolge lo sguardo soltanto ai tipi; che cosa se ne farebbe, poi, l'intera posterità cui egli consacra la sua opera di ciò che non è tipico? Così in lui, pensatore di uomini, giunge alla sua estrema, splendida fioritura quella
cultura della più spregiudicata conoscenza del mondo che aveva avuto in Sofocle il suo poeta, in Pericle il suo uomo di stato, in Ippocrate il suo medico, in Democrito il suo scienziato della natura: quella cultura che merita di essere battezzata col nome dei suoi maestri, i
Sofisti ".
Pasolini individua nella luce di Caravaggio, “quotidiana e drammatica”, una contrapposizione al lume universale del Rinascimento platonico” E prosegue: “Sia i nuovi tipi di persone e di cose che il nuovo tipo di luce, il Caravaggio li ha inventati perché li ha visti nella realtà. Si è accorto che intorno a lui-esclusi dall’ideologia culturale vigente da circa due secoli-c’erano uomini che non erano mai apparsi nelle grandi pale o negli affreschi, e c’erano ore del giorno, forme di illuminazione labili ma assolute che non erano mai state riprodotte e respinte sempre più lontano dall’uso e dalla norma, avevano finito col diventare scandalose, e quindi rimosse. Tanto che probabilmente i pittori, e in genere gli uomini fino al Caravaggio probabilmente non le vedevano nemmeno”
. Pasolini riconosce il suo debito al maestro Roberto Longhi.
Critica di tutti i luoghi comuni che non accrescono la vita.. Ogni persona deve assecondare la parte migliore del proprio carattere. Seneca. Cicerone. Dostoevskij. Sofocle e Fromm. Nietzsche. Wilde. La parabola di Kafka con il paraklausivquron anomalo. Lucio di Apuleio: redde me meo Lucio. Ortega: l’infelicità è lo squilibrio tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto. Hesse, Márquez. Prendere le distanze anche dai genitori: Il Vangelo di Giovanni e quello di Matteo. il Doctor Faustus di T. Mann (in nota). Stazio: Achille dice alla madre: “paruimus nimium!”. Di nuovo Fromm. Diventare se stessi prima di morire. L’Adriano della Yourcenar. Màrai. Orwell. Céline. Guido Croci. Pindaro: “diventa quello che sei”. Nietzsche: Amor fati, das ist meine innerste Natur. Eraclito. Döblin. Menandro: che cosa gradevole (cariven) è l’uomo, quando è uomo davvero! Vernant: l’uomo cessa di essere un’entità gradevole quando non assomiglia (ajeikhv~) a se stesso
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Franz Kafka |
Dopo tante considerazioni sui tovpoi, mi sento in dovere di mettere in guardia i giovani contro i luoghi comuni, letterari e non, se essi non accrescono la vita. Autorizzo questa mia conclusione attraverso Seneca: "nulla res nos maioribus malis implicat quam quod ad rumorem componimur " (De vita beata, 1, 3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci secondo il "si dice". Sentiamo ancora Seneca che traduce Epicuro: “si ad naturam vives, numquam eris pauper; si ad opiniones, numquam eris dives” (ep. 16, 7), se vivrai secondo la natura, non sarai mai povero, se secondo i luoghi comuni, non sarai mai ricco.
Sentiamo anche O. Wilde: “La morale moderna consiste nell’accettare i luoghi comuni della nostra epoca, ed io credo che per un uomo colto l’accettare i luoghi comuni della propria epoca sia la più rozza forma di immoralità”
.
Questi presentati qui sono
tovpoi assai nobili, di vario genere, e tra essi è possibile fare delle scelte, cercando sempre di vivere "
ad rationem ", ragionando, piuttosto che "
ad similitudinem " imitando. Nel ragionamento deve entrare la considerazione del carattere di ogni individuo, del proprio innanzitutto. Allora non possiamo ignorare che ogni persona ha un suo genio e che nessuno può riuscire bene se agisce in contrasto con il proprio demone: "
nihil decet invita Minerva, ut aiunt, id est adversante et repugnante natura"
, nulla si addice contro il volere di Minerva, come dicono, cioè con l'opposizione e la riluttanza della natura. Quindi ciascun giovane dovrebbe essere aiutato a trovare e valorizzare la propria natura originale: "
id enim maxime quemque decet, quod est cuiusque maxime suum"
, a ciascuno infatti soprattutto si addice quello che è soprattutto suo.
“Ma ecco, non bisogna essere come gli altri”. suggerisce Alioscia Karamazov allo studente Kolia
. “Continuate, dunque, a essere diverso dagli altri; anche se doveste rimanere solo, continuate lo stesso”
. L'uomo formato sui classici non può accontentarsi di un'identità gregaria.
Facciamo un esempio: Creonte domanda ad Antigone: "E tu non ti vergogni se la pensi in maniera diversa da questi?", e la ragazza risponde: “No perché non è per niente vergognoso onorare quelli nati dalle stesse viscere”
. La propaganda di ogni tirannide tende a inculcare la necessità del conformismo. Creonte sa che i più sono capaci soltanto di un'identità gregaria basata su un sentimento di appartenenza alla massa. Ma la figlia di Edipo è di altra stoffa, e, ben lontana dal vergognarsi, è fiera della propria diversità. Per lei anzi è inconcepibile che ci sia gente pronta "a rinunciare alla libertà, a far sacrificio del proprio pensiero, per essere uno del gregge, per conformarsi e ottenere così un sentimento di identità, benché illusorio"
.
"Della nostra esistenza dobbiamo rispondere a noi stessi, di conseguenza vogliamo agire come i reali timonieri di essa e non permettere che assomigli ad una casualità priva di pensiero…E' così provinciale obbligarsi a delle opinioni che, qualche centinaio di metri più in là già cessano di obbligare…Al mondo vi è un'unica via che nessuno oltre a te può fare: dove porta? Non domandare, seguila"
.
“Quanto poi alla vita rovinata, credetemi, una vita è rovinata in quanto ne è arrestato lo sviluppo”
.
“Il gregge avverte l’eccezione, tanto al di sopra di sé quanto al di sotto di sé, come qualcosa che ha per esso riflessi ostili e dannosi…La diffidenza è rivolta contro le eccezioni; essere eccezione è ritenuto una colpa”
. Essere se stessi dunque è difficile, persino pericoloso, ma non diventare quello che si è significa non vivere la propria vita, bensì quella degli altri: “
Nihil ergo magis praestandum est quam ne pecorum ritu sequamur antecedentium gregem, pergentes non quo eundum est sed quo itur”
, niente allora dobbiamo fare con cura maggiore che evitare di seguire il gregge di coloro i quali ci stanno davanti, alla maniera delle bestie, dirigendoci non dove dobbiamo andare ma dove si va.
Nel
Processo di Kafka
c’è una parabola con un
paraklausivquron anomalo, quasi rovesciato: si tratta infatti di un'attesa ansiosa e querula davanti a una porta aperta, quella della legge, aperta proprio per colui che attende ma non ha il coraggio di entrare.
E' la parabola che il cappellano delle carceri racconta a K. nel Duomo: "Davanti alla legge c'è un guardiano. A lui viene un uomo di campagna e chiede di entrare nella legge. Ma il guardiano dice che ora non gli può concedere di entrare. L'uomo riflette e chiede se almeno potrà entrare più tardi. "Può darsi" risponde il guardiano, "ma per ora no". Siccome la porta che conduce alla legge è aperta come sempre e il custode si fa da parte, l'uomo si china per dare un'occhiata, dalla porta, nell'interno. Quando se ne accorge, il guardiano si mette a ridere: "Se ne hai tanta voglia, prova pure a entrare nonostante la mia proibizione. Bada, però: io sono potente, e sono soltanto l'infimo dei guardiani. Davanti a ogni sala sta un guardiano, uno più potente dell'altro. Già la vista del terzo non riesco a sopportarla nemmeno io". L'uomo di campagna non aspettava tali difficoltà; la legge, pensa, dovrebbe pur essere accessibile a tutti e sempre, ma a guardar bene il guardiano avvolto nel cappotto di pelliccia, il suo lungo naso a punta, la lunga barba tartara, nera e rada, decide di attendere piuttosto finché non abbia ottenuto il permesso di entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere di fianco alla porta. Là rimane seduto per giorni e anni. Fa numerosi tentativi per passare e stanca il guardiano con le sue richieste. Il guardiano istituisce più volte brevi interrogatori, gli chiede notizie della sua patria e di molte altre cose, ma sono domande prive di interesse come le fanno i gran signori, e alla fine gli ripete sempre che non lo può far entrare. L'uomo, che per il viaggio si è provveduto di molte cose, dà fondo a tutto per quanto prezioso sia, tentando di corrompere il guardiano. Questi accetta ogni cosa, ma osserva: "Lo accetto soltanto perché tu non creda di aver trascurato qualcosa". Durante tutti quegli anni l'uomo osserva il guardiano quasi senza interruzione. Dimentica gli altri guardiani e solo il primo gli sembra l'unico ostacolo all'ingresso nella legge. Egli maledice il caso disgraziato, nei primi anni ad alta voce, poi quando invecchia si limita a brontolare tra sé. Rimbambisce e, siccome studiando per anni il guardiano, conosce ormai anche le pulci nel suo bavero di pelliccia, implora anche queste di aiutarlo e di far cambiare opinione al guardiano. Infine il lume degli occhi gli si indebolisce ed egli non sa se veramente fa più buio intorno a lui o se soltanto gli occhi lo ingannano. Ma ancora distingue nell'oscurità uno splendore che erompe inestinguibile dalla porta della legge. Ormai non vive più a lungo. Prima di morire, tutte le esperienze di quel tempo si condensano nella sua testa in una domanda che finora non ha rivolto al guardiano. Gli fa un cenno poiché non può più ergere il corpo che si sta irrigidendo. Il guardiano è costretto a piegarsi profondamente verso di lui, poiché la differenza di statura è mutata molto a sfavore dell'uomo di campagna. "Che cosa vuoi sapere ancora?" chiede il guardiano, "sei insaziabile". L'uomo risponde: "Tutti tendono verso la legge, come mai in tutti questi anni nessun altro ha chiesto di entrare?". Il guardiano si rende conto che l'uomo è giunto alla fine e per farsi intendere ancora da quelle orecchie che stanno per diventare insensibili, grida: "Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo"
.
"Nella natura nessuna creatura è più squallida e ripugnante dell'uomo che è sfuggito al suo genio e adesso sbircia a destra e a sinistra, indietro e ovunque. Alla fine non è più lecito attaccare un tal uomo, perché egli è tutto esteriorità senza nocciolo, una veste logora, tinta, rigonfia, uno spettro agghindato, che non può suscitare paura e certo neppure compassione"
. Cfr. il mito di Er in 16. 8.
Nell’ultimo libro dell’Asino d’oro di Apuleio, Lucio prega la Regina del cielo, la luna che gli è apparsa con uno straordinario splendore sulla riva del mare, vicino a Corinto, e le chiede la fine delle fatiche e dei pericolo corsi nella sua vita asinina, una vita senza Iside: “sit satis laborum, sit satis periculorum”. Quindi la prega di restituirlo alla forma umana, ai suoi affetti e, dopo tutto a se stesso, al Lucio che è: ” Depelle quadripedis diram faciem, redde me conspectui meorum, redde me meo Lucio” (XI, 2), stacca da me l’orribile aspetto di quadrupede, rendimi alla vista dei miei, rendimi al Lucio che sono.
"Qui, proprio qui, sta l'origine dell'infelicità…Avvertiamo allora lo squilibrio tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto. E questa, questa è l'infelicità"
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"Molti provavano, per un istante, una penosa tristezza perché tra la loro vita e i loro istinti c'era un tale dissidio, un tal conflitto che la loro vita non era affatto una danza, bensì un faticoso e affannato respirare sotto i pesi: pesi che in fin dei conti essi stessi si erano accollati"
.
"Di tutte le offese, quelle arrecate alla mia vocazione-quando ho mancato di rispondere con passione all'immagine del cuore-sono le più dolorose. Con i suoi attacchi implacabili, la contrizione denuncia le insufficienze del cuore"
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"Florentino Ariza…l'aveva convinta che uno viene al mondo con le sue polveri contate, e quelle che non vengono usate per qualsiasi motivo, proprio o estraneo, si perdono per sempre"
.
Per diventare se stessi è necessario prendere le distanze anche dai genitori: lo insegna il
Vangelo di Giovanni nel quale il Cristo dice alla madre: "
tiv ejmoi; kai; soiv, guvnai; -
Quid mihi et tibi mulier? "
(2, 4), che cosa ho da fare con te, donna?
Ancora più esplicito è il Cristo nel Vangelo di Matteo: “non veni pacem mittere sed gladium. Veni enim separare
Hominem adversus patrem suum
Et filiam adversus matrem suam” (10, 34-35), non sono venuto a portare pace ma una spada. Sono venuto infatti a separare l’uomo dal padre suo e la figlia dalla madre.
Nell’Achilleide di Stazio il giovanissimo Pelide deve ribellarsi alla madre, che ne aveva fatto un travestito, per recarsi alla guerra di Troia: “Paruimus, genetrix, quamquam haud toleranda iuberes, /paruimus nimium: bella ad Troiana ratesque/Argolicas quaesitus eo” (II, 17-19), ho obbedito, madre, sebbene tu ordinassi cose non tollerabili, ti ho obbedito troppo: vado alla guerra di Troia sulle navi dei Greci che mi hanno cercato.
Si ricordi
quanto afferma Esiodo dei bambini ritardati, potenzialmente violenti, che vivevano fino a cento anni con la madre.
Sentiamo di nuovo Fromm: " Rimanendo legato alla natura, alla madre o al padre, l'uomo riesce quindi a sentirsi a suo agio nel mondo, ma, per la sua sicurezza, paga un prezzo altissimo, quello della sottomissione e della dipendenza, nonché il blocco del pieno sviluppo della sua ragione e della sua capacità di amare. Egli resta un fanciullo mentre vorrebbe diventare un adulto"
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"La capacità d'amare dipende dalla propria capacità di emergere dal narcisismo e dall'attaccamento incestuoso per la propria madre e il proprio clan; dipende dalla propria capacità di crescere, di sviluppare un orientamento produttivo nei rapporti col mondo e se stessi"
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"E' forse questo che si cerca attraverso la vita, null'altro che quello, la più grande sofferenza possibile per diventare se stessi prima di morire"
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Per questo l'Adriano della Yourcenar ha conquistato il potere sul mondo: "Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere interamente me stesso, prima di morire…Ho compreso che ben pochi realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro opere interrotte. Quell'ossessione di una vita mancata concentrava i miei pensieri su di un punto, li fissava come un ascesso"
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Altrettanto l’imperatore Giuliano nella commedia di Ibsen: “E che cos’è la felicità se non il vivere in conformità a se stesso? L’aquila chiede forse delle penne d’oro? Il leone ambisce avere artigli d’argento? O forse ilmelograno desidera che i suoi chicchi siano altrettante pietre preziose?”
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Diventare quello che si è costituisce una forma particolare di virtù: “esiste una virtù particolare, che altro non è se non la fedeltà assoluta alla nostra natura, al nostro destino e alle nostre inclinazioni”.
“Ed ecco apparire la cosa più sorprendente del dramma vitale: l’uomo possiede un ampio margine di libertà rispetto al suo io o destino. Può rifiutarsi di realizzarlo, può essere infedele a se stesso. In questo caso la sua vita è priva di autenticità…il nostro io è la nostra vocazione. Ebbene, possiamo essere più o meno fedeli alla nostra vocazione e di conseguenza la nostra vita può essere più o meno autentica…La cosa di maggior interesse non è la lotta dell’uomo con il mondo, con il suo destino esterno, ma la lotta dell’uomo con la sua vocazione. Come si comporta davanti alla sua inesorabile vocazione? Si attiene radicalmente ad essa, oppure, al contrario, la diserta e riempie la sua esistenza con un surrogato di ciò che sarebbe la sua autentica vita? Forse l’aspetto più tragico della condizione umana è che l’uomo può cercare di soppiantare se stesso, cioè di falsificare la sua vita”.
“Lo scopo della vita è lo sviluppo del proprio io. Il completo sviluppo di se stessi-ecco la ragion d’essere di ognuno di noi. Gli uomini oggi hanno paura di se stessi”
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Insomma, ripeto con Pindaro: “gevnoio oi|o~ ejssiv” (Pitica II v. 72), diventa quello che sei.
Aggiungo una variante, considerando che cercare la propria realizzazione significa amare il compimento, la perfezione del proprio destino, il quale, per stravagante che sia, è una piccola parte del fato universale: “
amor fati è la mia intima natura”
,
das ist meine innerste Natur.
Del resto ogni persona secondo Nietzsche coincide con il suo destino: "Il fatalismo turco contiene l'errore fondamentale di contrapporre fra loro l'uomo e il fato come due cose separate…In verità ogni uomo è egli stesso una parte di fato…Tu stesso, povero uomo pauroso, sei la Moira incoercibile che troneggia anche sugli dèi". Cfr. h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn di Eraclito.
E' tanto tipicamente ellenico questo "amore del fato" che nel romanzo espressionista
Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin leggiamo: " Non si deve fare il grande con la propria sorte. Io sono nemico del fato. Non sono greco io; sono berlinese"
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Possiamo concludere il capitolo con questo frammento di Menandro: "wJ" cariven e[st j a[nqrwpo", a]n a[nqrwpo" h/\” (fr. 484 Kö) "che cosa gradevole è l'uomo quando è uomo davvero!".
Quando è che l’uomo smette di essere una cosa gradevole? Quando non assomiglia a se stesso. Sconcio, scoveniente in greco si dice ajeikhv~, ossia non eijkov~, oggetto neutro non somigliante, non somigliante a se stesso.
"Quando è privo di ogni
charis, l'essere umano non assomiglia più a nulla: è
aeikelios. Quando ne risplende, è simile agli dei,
theoisi eoikei. La somiglianza con se stessi, che costituisce l'identità di ciascuno e si manifesta nell'apparenza che ognuno ha agli occhi di tutti, non è dunque presso i mortali una costante, fissata una volta per tutte…. Oltraggiare-cioè imbruttire e disonorare a un tempo-si dice
aeikizein, rendere
aeikes o
aeikelios, non simile"
.
Il potere incentiva questa deformità che è la difformità della persona da se stessa: “Su che cosa, in fondo, si basa la repressione? Sul falso concetto che l’individuo ha di se stesso, e quindi sul falso concetto che si fa dei propri desideri: della propria libido, dei propri bisogni erotici, dell’amore che gli potrebbe spettare di diritto. La società sfrutta questo misconoscimento di sé, e si adopera con efficacia a confermare l’individuo in questa sua sbagliata concezione dell’amore”
. E di se stesso.
F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, p. 668. Ho citato questo romanzo almeno dieci volte, tante quante l’Odissea, o quasi. Mi conforta in questa scelta l’amico Piero Boitani: “Per il mio compleanno, sul finire di quell’anno 1’anno 1968…mi feci regalare da una coppia di amici l’Odissea greca nell’edizione oxoniense dell’Allen: la conservo ancora, naturalmente, con il loro biglietto di auguri per segnalibro. Da allora, e per almeno dieci anni, ho riletto il poema, nell’originale e in traduzione italiana o inglese, ogni anno: insieme ai Fratelli Karamazov, era il mio libro-e lo è rimasto” (P. Boitani, L’ombra di Ulisse, p. 45).
T. Mann commenta queste parole, da par suo, nel Doctor Faustus: "In fondo, per una madre, il volo di Icaro del figlio eroe, la sublime avventura virile dell'uomo che non è più sotto la sua protezione è un'aberrazione tanto colpevole quanto incomprensibile, donde ella sente risuonare, con segreta mortificazione, le parole lontane e severe: "Donna, io non ti conosco". E così ella riprende nel suo grembo la povera, cara creatura caduta e annientata, tutto perdonando e pensando che questa avrebbe fatto meglio a non staccarsene mai" (p. 691).
Fr. 91 Diano, il carattere è il destino dell’uomo).