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Jakob Schlesinger, ritratto di Hegel, 1831 |
Vediamo alcune
osservazioni di Hegel sulla commedia.
Il poeta deve
suscitare l'interesse del pubblico, ma non è necessario che lo assecondi sempre:
"in numerose epoche soprattutto la poesia drammatica è anche servita ad
introdurre in modo vivo nuove idee riguardanti il campo della politica, dell'etica,
della poesia, della religione ecc. Già Aristofane
polemizza nelle sue prime commedie contro le condizioni interne di Atene e la
guerra del Peloponneso" (Estetica,
p. 1564).
Il commediografo in effetti indirizza strali
satirici contro il cretinismo parlamentare e i demagoghi guerrafondai beniamini
del popolo, sopra tutti Cleone raffigurato, nei
Cavalieri, nel personaggio del ladro, violento, volgarissimo
Paflagone. Negli
Acarnesi dell'anno
precedente l'autore aveva mosso guerra alla guerra voluta dalla maggioranza. La
commedia offre maggiore spazio all'attualità e alla soggettività: "così
nelle parabasi Aristofane spesso si dà da fare con il pubblico ateniese, sia
perché non nasconde le sue opinioni politiche sugli avvenimenti e le situazioni
del giorno.. sia perché cerca di mettere a tacere i suoi avversari e rivali in
arte" (p. 1565).
La parabasi comica è
una specie di intermezzo nel quale il coro si toglie la maschera ed espone
direttamente al pubblico l'opinione del poeta sulla poetica o la politica o sul
costume. Nelle
Nuvole p. e. Aristofane rivendica la propria forza
creativa, il coraggio, e la nobiltà del proprio animo dicendo al pubblico: "
non cerco di ingannarvi rappresentando due o tre volte la stessa storia/anzi mi
ingegno per portarvi sempre nuove idee/
per niente uguali
tra loro e tutte intelligenti/io che colpii nel ventre Cleone quando era al
massimo della potenza/ e non ebbi la sfrontatezza di calpestarlo quando era
caduto" (vv. 546 - 550).
In effetti Aristofane come opinionista fu
assai critico nei confronti dei colleghi, dei concittadini e dei governanti, e
la tolleranza di cui fruì è un esempio di assoluta parrhsiva, libertà di parola, nell'Atene degli anni
compresi tra il 425 e il 415. Poi questa un poco alla volta viene limitata e
con lei sparisce la parabasi. L'ultima è
quella degli Uccelli del 414.
Interessanti sono alcune osservazioni
sull'attore il quale deve
essere"lo strumento su cui suona l'autore, una spugna che assorbe tutti i
colori e li restituisce immutati. Presso gli antichi - aggiunge Hegel - questo
era più facile perché...
le maschere coprivano i tratti del volto" (
Estetica, p. 1575), e il lato mimico era
reso obbligatorio dalla musica che accompagnava i canti del coro. Volendo fare
un confronto con l'Opera moderna, la differenza principale è che in questa la
musica sovrasta la parola; inoltre nella tragedia antica non c'era lo sfarzo
scenografico e la "pompa sensibile" dell'addobbo che da una parte
"è segno dell'inizio della decadenza dell'arte autentica", dall'altra
corrisponde a trame intessute di meraviglioso, fantastico, favoloso, “avulsi
dalla connessione intellettuale; e l’esempio condotto a termine con maggior
misura ed arte ci è dato a tale proposito da Mozart con il suo
Flauto magico” (p. 1580).
Nella commedia si trova a proprio agio la
soggettività che "certa
di se stessa può sopportare la dissoluzione dei suoi fini e delle sue
realizzazioni" (p. 1591). Il comico richiede contrasti che possono
derivare da sforzi seri indirizzati verso fini meschini, come quando l'avaro
prende quale scopo"la morta astrazione della ricchezza, il danaro", oppure
da persone frivole che mirano a bersagli importanti e difficili: "di tale
natura sono, p. e., le Ecclesiazuse di Aristofane, perché
qui le donne, che vogliono deliberare e fondare una nuova costituzione, conservano
tutti i loro capricci e passioni di donne" (p. 1592).
In questa commedia
le donne a parlamento fanno un colpo di
Stato, prendono il potere, quindi aboliscono la famiglia e la proprietà
instaurando il comunismo della roba e del sesso. Prassagora, la capobanda, prescrive
che "tutti abbiano tutto in comune" (v. 590), la terra, il denaro e
quante altre cose ognuno possiede (v. 598). Anche le femmine sono messe in
comune per i maschi, a una condizione: "le più insignificanti e rincagnate
staranno accanto alle belle; /poi, chi ha voglia di una buona, prima deve
sbattersi la brutta" (vv. 616 - 617). Insomma si è provveduto "perché
nessuna resti a buco vuoto" (v. 624).
“Il comico è la
parola che lavora con la propria impotenza, l’azione che si sa immobile, il
pensiero che pensando se stesso “porta in contraddizione e dissolve il proprio
agire” (Hegel) ”
.
Anche la commedia però, continua Hegel, deve
mettere in evidenza il razionale "come ciò che neanche nella realtà lascia
vincere o sussistere fino alla fine la stoltezza e l'irrazionalità... Aristofane
non si fa gioco di ciò che di veramente etico c'è nella vita del popolo
ateniese, né dell'autentica filosofia, della vera fede religiosa, dell'arte
genuina; ma quel che egli ci pone dinnanzi nella sua stoltezza che da se stessa
si distrugge sono le aberrazioni della democrazia, da cui sono spariti l'antica
fede e gli antichi costumi, è la sofisticheria, il tono lamentevole e pietoso
della tragedia, le chiacchiere volubili, la litigiosità ecc., questa nuda
contropartita di una vera realtà statale, religiosa, artistica" (p. 1593).
Tanto il tragico
quanto il comico devono giungere a conciliare le contraddizioni sulle quali
bisogna che, attraverso l'agire umano, prevalga "una realtà in sé
armonica" (p. 1595).
Nella drammaturgia
antica si trovano tragedie con simili esiti i quali possono risparmiare il
sacrificio degli individui: "p. es. l'Areopago, nelle Eumenidi di Eschilo, concede il diritto alla venerazione ad
entrambe le parti, ad Apollo e alle vergini vendicatrici. Anche nel Filottete si giunge ad appianare con
l'apparizione divina ed il consiglio di Eracle la lotta fra Neottolemo e
Filottete" (p. 1595).
L’ultima parte dell’
Orestea giunge ad una conciliazione tra la religione
dei padri e quella delle madri, tra le ragioni di Oreste che ha ucciso la madre
vendicando il padre tradito e assassinato da lei, e quella delle Erinni, venerande
dee che proteggono i vincoli di sangue, soprattutto il più forte: quello madre
- figlio violato dal giovane il quale viene processato e assolto, non senza
però che le sue accusatrici ricevano culti e onori dagli Ateniesi. Nel
Filottete il rientro dell'eroe ferito nell'armata dei
Greci che l'avevano abbandonato a Lemno nella solitudine, e sono rappresentati
dal subdolo Odisseo il quale con l'inganno vuole sottrargli le armi necessarie
alla presa di Troia, avviene in seguito all'apparizione di Eracle che, disceso
dal cielo quale
deus ex machina, promette
al protagonista la guarigione e il primo posto nell'esercito acheo (vv. 1420 e
sgg.).
Presupposto della
tragedia è una condizione del mondo eroica, l'opposto della situazione moderna
dalla quale scaturisce l'ironia.
La tragedia è fatta
di contrasti: “L’opposizione principale, trattata in modo bellissimo
particolarmente da Sofocle sull’esempio di Eschilo, quella dello Stato, della
vita etica nella sua universalità spirituale, con la famiglia come eticità naturale. Queste sono le potenze più pure
della manifestazione tragica, in quanto l’armonia di queste sfere e l’agire
armonico entro la loro realtà costituiscono la completa realtà dell’esistenza
etica" (p. 1607).
Hegel ribadisce che l'Antigone di Sofocle rappresenta
al meglio tale collisione: "Antigone onora il legame di sangue, gli dèi
sotterranei, Creonte onora solo Zeus, la potenza che governa la vita e il
benessere pubblici". Quindi aggiunge: " Il medesimo conflitto si
trova anche nell'Ifigenia in Aulide, nell'Agamennone, nelle Coefore e nelle Eumenidi
di Eschilo e nell’Elettra di Sofocle.
Agamennone come re e capo dell'esercito sacrifica la figlia all'interesse dei
Greci e della spedizione contro Troia, distruggendo così il vincolo dell'amore
per la figlia e la sposa, che Clitemnestra come madre conserva nel profondo del
cuore, apprestando la vendetta di una uccisione ignominiosa al reduce sposo. Oreste,
figlio e figlio del re, onora la madre, ma deve difendere il diritto del re, del
padre, e colpisce il seno che lo ha generato" (p. 1608).
L'ultima grande
poesia della Grecia è la commedia di
Aristofane il quale rappresenta figure come Strepsiade e Socrate (Nuvole), Bacco (Rane), Cleone (Cavalieri)
piene di presunzione, e risibili per la "sicurezza ingenua della
soggettività"; essi hanno verso loro stessi una ridicola"fiducia
tanto più incrollabile quanto meno si mostrano capaci di eseguire ciò che
intraprendono" (p. 1618).
L'etico e il divino
sono abbandonati al gioco della soggettività, e questo è "uno dei maggiori
sintomi della decadenza della Grecia" (p. 1619).
Hegel mette
il Bacco delle Rane tra i personaggi
“tratteggiati come stolti” delle commedie di Aristofane: “ Così per Strepsiade,
che vuole rivolgersi ai filosofi per sbarazzarsi dei debiti; così per Socrate
che si offre come maestro di Strepsiade e di suo figlio; egualmente per Bacco, che
egli fa scendere nel mondo sotterraneo per ricondurre alla luce un vero tragico;
e lo stesso dicasi di Cleone, delle donne, dei greci che vogliono trarre dal
pozzo la dea della pace ecc. ” Sono personaggi risibili per “la fiducia che
tutte queste figure hanno in se stesse, fiducia tanto più incrollabile quanto
meno si mostrano capaci di eseguire ciò che intraprendono. Gli stolti sono dei
semplicioni…che non perdono mai questa sicurezza ingenua della soggettività”.
Woody
Allen
fa dire a un personaggio del film Crimini
e misfatti (1989) : “Comedy is
tragedy plus time”, la commedia è la tragedia più del tempo, nel senso che
con il passare del tempo i fatti tragici possono diventare ridicoli.
Potremmo aggiungere
che alla commedia antica di Aristofane manca quello che Pirandello chiamerà,
"il sentimento del contrario".
“Umorista non è Aristofane ma Socrate…Socrate ha il sentimento del contrario; Aristofane
ha un sentimento solo, unilaterale”
. Sul saggio di Pirandello torneremo più
avanti.
Intanto sentiamo
Pasolini: “Il popolo non è umorista, nel
senso che possiamo attribuire all’umorismo degli scrittori del Seicento, di
Cervantes, di Dickens, ecc. Il popolo è comico, spiritoso…L’umorismo è distacco
dalla realtà, atteggiamento contemplativo di fronte alla realtà, e quindi
dissociazione tra sé e questa realtà”
.
continua
Sulla maschera leggiamo anche queste osservazioni di
Ortega Y Gasset: “Coloro che si dedicavano al culto di Dioniso si
mascheravano…ci troviamo di fronte a un altro dato sorprendente della
preistoria del teatro, ovvero che la
maschera, assieme alla danza, lo stupefacente e la pantomima, è una delle invenzioni più antiche dell’umanità.
La prima forma umana che ci ricordi un po’ la nostra è quella del paleolitico,
e già qui vediamo come l’uomo utilizzi la maschera. E’ dunque la maschera
sorella e coetanea dell’ascia di selce, della pietra grezza” (Idea del teatro, p. 102).
Sentiamo anche Di Marco:
“L’impiego delle maschere permetteva a ciascun attore di impersonare più ruoli,
ivi compresi quelli femminili: un espediente al quale era inevitabile fare
ricorso in un teatro che utilizzava solo interpreti di sesso maschile e nel
quale, come abbiamo visto, vigeva una norma che limitava a tre il numero
massimo di attori a disposizione di ciasun tragediografo…Le maschere erano
fatte di lino - talvolta anche di cartapesta o di cuoio - su cui veniva passato
dello stucco: una volta divenute rigide, si procedeva a dipingerle: secondo una
precisa convenzione “realistica” in uso nella pittura contemporanea, quelle
femminili di bianco, quelle maschili di un colore più scuro. Opportunamente
fissate al mento o alla nuca con delle stringhe, coprivano l’intero volto; ad
esse era assicurata una parrucca, probabilmente di lana” (Op. cit., p. 95).