NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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mercoledì 30 settembre 2015

La rettifica e il piacevole scambio epistolare dopo l'articolo "Sull’ignoranza di certi giornalisti" del 28/09/2015

Jacques Louis David, Psiche
Ritengo giusto pubblicare bel blog questi chiarimento dopo quanto ho scritto troppo precipitosamente in “L’ignoranza di certi giornalisti” un paio di giorni fa

  
Sent: Monday, September 28, 2015 8:06 PM
Subject: Un chiarimento
Egregio prof. Ghiselli, 
in risposta alla sua lettera che mi è stata inoltrata da Massarenti, osservo che il rilievo da lei fatto al mio articolo sul libro di A. Long dipende da un'errata lettura del mio testo. Quando dico: "Ma Platone si spinge oltre teorizzando nella Repubblica un'anima non più in conflitto con il corpo, bensì con se stessa. Suddividendola in tre parti, il filosofo assegna alla ragione, la sua dimensione più alta, il compito di governare con l'aiuto dell'anima emotiva quella in cui risiedono i desideri più pericolosi...." Ora, "quella" che ho appena messo in corsivo è evidentemente oggetto di "governare" e non attributo di "anima emotiva"! Dicendolo in altro modo, Platone prospetta un'alleanza di logistikon e thymos o thymoeides perché insieme governino, moderino le pulsioni dell'epithymetikon. La mia sintassi è a ben guardare corretta, e le precisazioni che seguivano avrebbero dovuto fugare ogni suo possibile (e un po' curioso) fraintendimento. Mi dà invece dell'ignorante, proponendomi tutta una spiegazione che, se permette, ho ben chiara. Oltre ad invitarla a leggere con più attenzione quello che scrivo, per sua tranquillità le allego il mio C.V. perché possa capire che non ho bisogno di questo tipo di lezioni, fondate come sono su un suo precipitoso fraintendimento. Distinti saluti. Martino Menghi 

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Il giorno 29 settembre 2015 10:18, ghiselli <g.ghiselli@tin.it> ha scritto:
Egregio prof. Menghi,
Sono stato tratto al fraintendimento da una lettura forse davvero frettolosa. 
Mi scuso dunque di averLa tacciata di ignoranza, siccome vedo che in effetti Lei conosce bene il testo di Platone.  Et tu litteras scis  et ego,come dice dice Encolpio ad Ascilto (Satyricon, 10, 5 ).
Tuttavia debbo dirle che  la presenza di due virgole, una prima e una dopo con l'aiuto dell'anima emotiva, mi avrebbe aiutato a non fraintenderLa.  Avrebbe aggiunto  ulteriore chiarezza premettere a quella l'epithymetikon. Nel mio piccolo, mi metto sempre nei panni di chi mi ascolta o mi legge quando parlo o scrivo. Se l'ho fraintesa io che ho insegnato greco per quasi quaranta anni dal ginnasio all'università, si immagini cosa può avere capito chi non conosce Platone! 
Mi scuso di nuovo per la mia impulsività, del resto Euripide con la sua Medea  (vv. 1079-1080) ci ha insegnato che  lo thymòs è più forte dei ragionamenti (bouleumata).
La saluto con soddisfazione per il chiarimento che Lei mi ha dato e che credo di avere contraccambiato, questa volta senza troppa fretta.
Suo
Giovanni ghiselli

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To: ghiselli
Sent: Tuesday, September 29, 2015 11:48 AM
Subject: Re: Un chiarimento 
Caro Ghiselli, 
la ringrazio della sua lettera. Sì, avrei ben potuto premettere epithymetikon a "quella", e probabilmente non ci sarebbe stato adito a nessun possibile equivoco. Comunque apprezzo la sua franchezza: noi studiosi, e soprattutto di queste cose, abbiamo un'etica che ci consente di rettificare senza problemi un giudizio magari precipitoso. Apprezzo, perché molto azzeccate, le due belle citazioni. La saluto caramente. Martino 

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From: ghiselli
Sent: Tuesday, September 29, 2015 12:03 PM
Subject: Re: Un chiarimento
Caro Martino,
sono contento della nostra pacificazione. Venni due o tre volte all'Università di Pavia per tenere lezioni a contratto. Ora sono in pensione e tengo conferenze tra Bologna, dove vivo, Pesaro, da dove traggo origine, Roma, Verona, Venezia e Siracusa dove vado tutti gli anni per le tragedie.
Ora sto tenendo un ciclo nella biblioteca Ginzburg di Bologna, in ottobre sarò ancora qui, poi a Pesaro e a Verona, in dicembre a Roma. Se capiti in questi luoghi, possiamo farne una insieme. Nel caso ti informo su date e argomenti,  
Fammi sapere anche delle tue attività
Saluti cari

gianni 

martedì 29 settembre 2015

Introduzione alla tragedia greca. Parte IX

Arthur Schopenhauer

Vediamo ora una critica contrastiva: quella di A. Schopenhauer, il quale denigra la tragedia greca in quanto essa non insegna la rassegnazione, la rinunzia e la negazione della volontà. Sentiamo il filosofo anti - idealista e anti - storicista che Nietzsche, nella terza delle Considerazioni inattuali, quattordici anni dopo la sua morte (1874), esaltò come il solo educatore della nuova Germania.
“Il nostro godimento della tragedia non appartiene al sentimento del bello, ma a quello del sublime; anzi è il più alto grado di quel sentimento. Poiché, come noi alla vista del sublime nella natura ci togliamo dall’interesse della volontà, per mantenerci puramente contemplativi; così nella catastrofe tragica ci rivolgiamo via dalla stessa volontà alla vita. Nella tragedia dunque ci viene presentato il lato terribile della vita, lo strazio dell'umanità, il dominio del caso e dell'errore, la caduta del giusto, il trionfo del malvagio... A tale vista noi ci sentiamo spinti a distogliere la nostra volontà dalla vita, a non volerla e a non amarla più…Nel momento della catastrofe tragica sorge in noi, più chiara che mai, la persuasione che la vita sia un affannoso sogno, dal quale dobbiamo destarci…Ciò che dà al tragico, in qualunque forma esso si presenti, la vera spinta alla sublimità, è il sorgere della conoscenza che il mondo e la vita non possano concedere vera soddisfazione, quindi non meritino il nostro attaccamento: in ciò consiste lo spirito tragico: esso perciò conduce alla rassegnazione"[1].
Tale rassegnazione secondo Schopenhauer non è messa abbastanza in rilievo dalla tragedia greca, e non è assoluta: “Ammetto che nella tragedia degli antichi questo spirito di rassegnazione raramente appaia e venga espresso in modo diretto. A Colono Edipo muore invero volontariamente e rassegnatamente; però lo consola la vendetta contro la sua patria. Ifigenia giovinetta è assai disposta a morire; però è il pensiero del bene della Grecia che la consola e produce il mutamento del suo animo, per cui ella accetta volontariamente la morte, alla quale voleva prima in tutti i modi sfuggire. Cassandra, nell'Agamennone del grande Eschilo, muore di buon grado, ajrkeivtw bivo" (v. 1306) [2]; ma anche ella è consolata dal pensiero della vendetta.
Ercole, nelle Trachinie, cede alla necessità, muore tranquillo, ma non rassegnato" [3]. Anche Ippolito “come quasi tutti gli eroi tragici degli antichi, mostra dedizione al fato inevitabile ed alla volontà inflessibile degli dèi, ma nessuna rinunzia alla volontà di vivere”[4].
“Edipo, dal canto suo, scende tra i morti tutt’altro che pacificato: non ha assolto chi lo ha offeso, non ha chiesto perdono per i suoi misfatti (il perdono e la riconciliazione, in ogni caso, sarebbero concetti anacronistici, applicati alla cultura greca di età classica)”[5].

Meglio dunque, secondo Schopenhauer fa la "tragedia cristiana" in quanto"espone la rinunzia di tutta la volontà alla vita, il lieto abbandono del mondo, nella coscienza della sua vanità e nullità". Quindi: "Shakespeare è molto più grande di Sofocle: in confronto all'Ifigenia di Goethe si potrebbe trovare quasi rozza e volgare quella di Euripide. Le Baccanti di Euripide sono un indegno pasticcio in onore dei sacerdoti pagani. Molti drammi antichi non hanno alcuna tendenza tragica; come l'Alcesti e l'Ifigenia fra i Tauri di Euripide; alcuni hanno motivi repellenti, o perfino nauseanti; come l'Antigone ed il Filottete. Quasi tutti mostrano il genere umano sotto l'orribile dominio del caso e dell'errore, ma senza la rassegnazione da ciò provocata e di ciò redentrice. Tutto questo perché gli antichi non erano giunti ancora al sommo ed al fine della tragedia, anzi della concezione dell vita in generale…Quindi l’esortazione alla rinunzia della volontà alla vita rimane la vera tendenza della tragedia[6]".
La tragedia classica in effetti non è “solo rappresentazione di eventi terribili (deinav). Euripide, in particolare, è autore di tragedie a lieto fine che per la loro peculiare natura hanno imbarazzato, sin dall’antichità, numerosi critici. Una delle hypotheseis all’Alcesti giudica il dramma “vicino ai modi del dramma satiresco” (saturikwvteron) ; e tragedie come lo Ione, l’Ifigenia Taurica e l’Elena sono state variamente definite dagli studiosi moderni “tragicommedie” o “melodrammi[7].
Più avanti, negli stessi Supplementi, Schopenhauer mette in rilievo che “i greci assumevano per eroi della tragedia sempre persone regali; e per lo più anche i moderni”. Poi continua: “Anche la tragedia borghese non è da rigettarsi incodizionatamente. Le persone però di grande potenza e di grande prestigio sono le più appropriate alla tragedia, perché la infelicità, nella quale noi dobbiamo riconoscere il destino della vita umana, deve avere una sufficiente grandezza, per apparire terribile allo spettatore, chiunque esso sia. Euripide stesso dice: feu`, feu`, ta; megavla megavla kai; pavscei kakav [8] (Stob. Flor., II, 299)... Alle persone borghesi manca quindi l’altezza di caduta[9].

Nel terzo libro di Il mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer indica alcune tragedie “cristiane” come esemplari in quanto aiutano a squarciare l’ingannevole velo di Maja: “Una è identica volontà è quella, che in tutti vive e si manifesta, ma le sue manifestazioni si combattono e si dilaniano a vicenda”[10]. Non senza grande dolore. In alcuni individui la conoscenza “purificata ed elevata mediante il dolore stesso, tocca il punto in cui il fenomeno, il velo di Maja, non più l’inganna. Allora la forma del fenomeno, il principium individuationis, viene visto bene addentro; e perciò l’egoismo che su questo si fonda è spento, sì che motivi prima poderosi perdono la loro forza, e in luogo di quelli la piena cognizione dell’essenza del mondo, agendo come quietivo della volontà, fa nascer la rassegnazione, la rinunzia non alla vita soltanto, ma all’intera volontà di vivere. Così vediamo nella tragedia i più nobili caratteri da ultimo rinunziar per sempre, dopo un lungo combattere e soffrire, agli scopi fino allora sì vivamente perseguiti, e a tutti i piaceri della vita, o la vita stessa abbandonare volenterosi e lieti. Così il principe Costante di Calderón; così Margherita nel Faust[11]; così Amleto…così ancora la Pulcella d’Orléans[12], la Fidanzata di Messina[13]: tutti muoiono purificati dal dolore, ossia quando in loro la volontà di vivere è già morta…Il vero senso della tragedia è la cognizione... che l'eroe non sconta i suoi peccati personali, ma il peccato universale, ossia la colpa stessa dell'essere:

Pues el delito mayor
del hombre es haber nacido [14],

come apertamente afferma Calderón... Il rappresentare una grande sventura è la sola cosa essenziale alla tragedia. Ma le molte vie, per le quali la sventura può essere introdotta dal poeta, sono di tre specie.

Può accadere per la straordinaria perfidia, spinta a toccare gli estremi limiti della possibilità, d’un carattere, il qual diventa causa della sventura: esempi di questo genere sono Riccardo III, Jago dell’Otello, Shylock nel Mercante di Venezia, Franz Moor[15], la Fedra di Euripide, Creonte nell’Antigone e così via.

Oppure può accadere per un cieco destino, ossia caso ed errore: di tale specie è un vero modello il re Edipo di Sofocle, ed anche le Trachinie, e in genere la maggior parte delle tragedie antiche; tra le moderne sono esempi Romeo e Giulietta, il Tancred di Voltaire, la Fidanzata di Messina.

La sventura può essere cagionata in fine dalla semplice situazione rispettiva delle persone, dai loro rapporti…Quest’ultima specie sembra a me di molto preferibile alle altre due: imperocché ci fa apparire la più grande delle sventure non come un’eccezione, non come effetto di circostanze rare o di mostruosi caratteri, ma come alcunché venuto facilmente e spontaneamente, quasi per naturale necessità, dall’azione e dai caratteri degli uomini; e appunto perciò la rende in terribile modo vicina a noi stessi…Allora rabbrividendo ci sentiamo già in mezzo all’inferno”[16]. Quale perfetto modello del genere tragico Schopenhauer indica il dramma Clavigo di Goethe. Poi continua: “Della stessa natura è in un certo senso Amleto, se non guardiamo che alla situazione del protagonista davanti a Laerte ed Ofelia; anche il Wallenstein[17] ha questo merito; tale è pure il Faust, se si considera soltanto ciò che accade a Margherita ed a suo fratello; così il Cid di Corneille, al quale manca nondimeno l’esito tragico, che invece si trova nell’analoga situazione di Max rispetto a Tecla nel Wallenstein[18].

Diversi anni dopo le Considerazioni inattuali, Nietzsche rifiuta questa interpretazione e confessa il proprio pentimento per " avere oscurato e guastato con formule schopenhaueriane intuizioni dionisiache"[19]. Leggiamo quanto scrive nei Frammenti Postumi: "Schopenhauer sbaglia quando fa di certe opere d'arte uno strumento del pessimismo. La tragedia non insegna la "rassegnazione". Il rappresentare le cose terribili e problematiche è esso stesso già un istinto di potenza e di magnificenza nell'artista: egli non le teme. Non c'è un'arte pessimistica. L'arte afferma"[20].

Possiamo trovare una nota addirittura ottimistica nelle Supplici di Euripide, del 422, quando si profilava la pur malsicura pace di Nicia. Teseo, il re di Atene, confuta quanti sostengono che il male prevalga, e afferma che invece per gli uomini è maggiore il bene che il male. Se fosse maggiore il male non vivremmo nella luce.
 Dunque il Pericle in vesti eroiche elogia quello tra gli dèi che ha regolato la nostra vita da confusa e bestiale (p. 25) che era (ejk pefurmevnou[21] - kai; qhriwvdou"), innanzitutto mettendoci dentro l’intelligenza, poi dandoci la lingua messaggera delle parole, in modo da capire la voce (vv. 201 - 205).
Nelle Supplici Teseo elogia la costituzione democratica dialogando con l'araldo mandato da Creonte, re, anzi tiranno di Tebe. Atene, a differenza della città beota non è comandata da un uomo solo, ma è libera (ejleuqevra povli", v. 405).
Teseo è lo stratego ideale: il messo che racconta la battaglia contro i Tebani conclude la sua rJh`si~ elogiando il re ateniese che ha vinto la battaglia ma non ha voluto distruggere Tebe: bisogna proprio scegliere un comandante come Teseo che misei` uJbristh; n laovn (v. 728), odia la massa tracotante la quale, se ha successo, cerca di salire sul gradino più alto[22] e distrugge il vantaggio conseguito prima. E’ un appello ai cittadini perché non eleggano un altro Cleone il quale dopo il successo di Sfacteria aveva indotto gli Ateniesi a rifiutare proposte di pace ed era succeduta la disfatta di Delio (424).


continua



[1] Supplementi al III libro di Il mondo come volontà e rappresentazione, in Arthur Schopenhauer, Scritti sulla musica e le arti, discanto edizioni, p. 112.
[2] Basta la vita! In realtà è il v. 1314. A questa espressione sconsolata di Cassandra se ne può accostare una simile dell'Elettra di Sofocle che del resto desidera la vendetta non meno della figlia di Priamo: "tou' bivou d j oujdei; " povqo" " (Elettra, v. 822), non ho nessun desiderio di vivere. ndr
[3] Schopenhauer, Supplementi, pp. 112 - 113.
[4] Supplementi al III libro di Il mondo come volontà e rappresentazione, in Arthur Schopenhauer, Scritti sulla musica e le arti, discanto edizioni, p. 113..
[5] G. Guidorizzi, Op. cit., p. XIV.
[6] A. Schopenhauer, Supplementi, p. 113.
[7] Di Marco, Op. cit., p. 129.
[8] E’ un frammento (Nauck, 80) dell’Alcmeone: “ahi, ahi, le cose grandi subiscono mali anche grandi. Ndr.
[9] Schopenhauer, Supplementi, p. 116
[10] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, III. 51, p. 341.
[11] Di Goethe ovviamente ndr.
[12] Di F. Schiller, 1801 ndr.
[13] Pure di F. Schiller, 1802 ndr.
[14] poiché il delitto maggiore dell'uomo è essere nato, La vita è sogno, I, 2.
[15] Personaggio di I masnadieri (1781) di Schiller.
[16]A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, III. 51, pp. 341 - 343.
[17] Trilogia di F. Schiller.
[18]. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, III. 51, p. 344
[19] Tentativo di autocritica (aggiunto nel 1886) alla Nascita della tragedia (del 1876), p. 12.
[20] Scelta di frammenti postumi, primavera 1888 - 14, p. 229.
[21] Participio perfetto medio passivo di fuvrw. La confusione anche qui è emblema di male.
[22] Come Capanno, poi colpito dal fulmine di Zeus. 

lunedì 28 settembre 2015

Sull’ignoranza di certi giornalisti

Jacques Louis David, Psiche

Nella Domenica del Sole 24 ore del 27 settembre trovo un articolo di Martino Menghi (Alla ricerca della “psiche”, p. 30, che recensisce il libro di A. A, Long Greek Models of Mind ad Self, Hard University Press, Cambridge Massachussets, London, England, pagg. 230).
Questa recensione passa in rassegna la presenza della psyche in Omero, Esiodo, Pindaro, senza dire nulla di nuovo e senza commettere errori.
Da notare invece lo sbaglio non piccolo quando passa a Platone.
Prima viene menzionato il Fedone “che sancisce in via definitiva il primato dell’anima sul corpo”. Fin qui più o meno ci siamo.
Però poi procede: “Ma Platone si spinge oltre teorizzando nella Repubblica un’anima non più in conflitto con il corpo, bensì con se stessa. Suddividendola in tre parti, il filosofo assegna alla ragione, la sua dimensione più alta, il compito di governare con l’aiuto dell’anima emotiva quella in cui risiedono i desideri più pericolosi (di cibi, di bevande, di eros e d’altro canto, di ricchezza e di potere necessari per soddisfare i primi). Questo schema, applicabile tanto all’individuo che al corpo cittadino (data l’analogia filosofi-ragione, guardiani-spirito collerico, mondo della produzione-anima desiderante, dove le prime due sono chiamate a governare la terza) rappresenta, com’è noto, un’utopia, poiché storicamente si assiste di solito alla detronizzazione della ragione tanto nel singolo che nella collettività e alla progressiva rivincita degli appetiti più deleteri”.
La parte dell’anima nella quale risiedono “i desideri più pericolosi”, quelli “di cibi, di bevande, di eros e d’altro canto, di ricchezza e di potere necessari per soddisfare i primi” è il to; ejpiqumhtikovn l'elemento appetitivo (cfr. ejpiqumevw, "bramo"), ed è la parte maggiore in ciascuno e la più insaziabile di ricchezze (o} dh; plei`ston th`~ yuch`~ ejn eJkavstw/ ejsti, kai; crhmavtwn fuvsei ajplhstotaton, Repubblica, 442).
Ebbene questo elemento non aiuta la parte razionale-to; logistikovn-cui tocca di comandare (a[rcein proshvkei) alle altre due componenti: allo ejpiqumhtikovn appunto e allo qumoeidev~, l’emotivo animoso, irascibile cui spetta, a lui sì, -(proshvkei) di essere soggetto e alleato di questo, cioè del logistikovn, del razionale (tw`/ de; qumoeidei` uJphkovw/ ei\nai kai; summavcw/ touvtou 441e).
 E “come nella città ci sono tre stirpi (triva gevnh, 441): crhmatistikovn , quello affaristico, ejpikourhtikovn, quello ausiliario militare, e bouleutikovn, e quello idoneo a prendere decisioni politiche, così anche nell’anima c’è lo qumoeidev~ ejpivkouron o]n tw`/ logistikw`/ fuvsei, l’irascibile ausiliario per natura del razionale.
Il recensore dunque, e forse anche il recensito, ha fatto un grosso sbaglio scrivendo che la parte razionale ha “il compito di governare con l’aiuto dell’anima emotiva quella in cui risiedono i desideri più pericolosi (di cibi, di bevande, di eros e d’altro canto, di ricchezza e di potere necessari per soddisfare i primi)”.

Per chiarire meglio riporto anche alcune parole del Fedro, dove si ragiona di amore.
In questo dialogo Platone fa dire a Socrate che l’anima umana si può paragonare a una potenza naturalmente composta da un cocchio tirato da due cavalli alati e guidato da un auriga (246a)
 Un cavallo è buono, di colore bianco, ben fatto, amante di gloria e di temperanza; l’altro cavallo è nero, contorto massiccio, messo insieme a casaccio (eijkh`/,), amico della protervia e dell’impostura 253e.
Il bianco è obbediente all’auriga (oJ me;n eujpeiqh;~ tw`/ hJnivovcw/, 254a) ed è tenuto a freno dal pudore e si trattiene dal balzare addosso all’amato. L’altro invece si porta avanti skirtw`n de; biva/, balzando con violenza.
Talora l’auriga e il cavallo bianco vengono trascinati e si sentono costretti a cose vergognose e inique. Giunti vicino all’amato, l’auriga ricorda la natura del Bello e lo vede collocato con la Temperanza (meta; swfrosuvnh~, 254b) su un piedistallo immacolato. Sicché l’hJnivoco~ tira indietro le redini e i due cavalli devono piegarsi sulle cosce; il riottoso contro la sua volontà. Quando riprende fiato, il cavallo nero lancia insulti con ira (ejloidovrhsen ojrgh`/, 254c) contro l’auriga e il compagno accusandoli di viltà e debolezza. Quindi riprende a tirare e trascina con impudenza (met j ajnaideiva~ e{lkei (254d).
Ma l’auriga tira indietro il freno dai denti del cavallo protervo con maggior forza e insanguina la lingua maldicente e le mascelle e gli fa piegare a terra le cosce. Dopo che questa mossa si è ripetuta più volte il malvagio fa cessare la sua protervia, umiliato dalla previdenza dell’auriga, e quando vede il bello si sente venir meno per la paura: kai; o{tan i[dh to;n kalovn, fovbw/ diovllutai (254e).
Non è difficile assimilare il cavallo nero, impudico e riottoso all’ejpiqumhtikovn che dunque non è alleato del logistikovn, dell’auriga, ma un ribelle da tenere a bada con l’aiuto dello qumoeidev~.

giovanni ghiselli


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L'inizio del lavoro di insegnante. XI parte

Con Fulvio ad Atene nel 2005
Nefertiti. La puszta. Fulvio e le donne

Finito l’anno scolastico del santo mio martirio, nel giugno del 1976 ripresi la snellezza che si addice alla mia persona, eliminando il grasso dei tanti animali che avevo aggiunto, sciaguratamente, alla mia forma umana.
 In luglio tornai a Debrecen dove passai troppe ore di tristezza e di noia con una bellina assai e non poco cretina. Si chiamava Susanna, era di Palermo, studiava scienze biologiche.
Ero partito da Pesaro con l’intenzione di cercare una ragazza di cui potermi fidare: ancora credevo, per inesperienza, che l’angoscia dell’accoppiamento mi derivasse dalle dissolutezze inaudite della compagna di letto. Di complicità negli adultèri credevo di averne avuto abbastanza.
 In questa nuova puntata di Debrecen invece compresi che l’angoscia del dopo coito mi salta addosso, dopo essersi raggomitolata come un felino affamato, dalla povertà mentale della ganza, un’inopia spirituale che è quasi sempre accoppiata, in un osceno connubio, con la miseria morale. Questa giovane donna era del resto di aspetto gradevole: assomigliava alle note immagini di Nefertiti, la moglie del faraone Amenofi IV-Ekhnaton, mio correligionario in quanto adoratore del Sole. Facemmo l’amore la prima sera, in automobile, appena ci fummo conosciuti e piaciuti durante la festa iniziale, quella della conoscenza appunto. Avevamo bevuto. Ma il giorno dopo già prima di sera pensavo: “non c’è cosa più amara della stupidità”. E aggiungevo: “val davvero la pena esser solo per essere sempre più solo”[1]. Nei giorni seguenti non poche volte sentii la sonora sghignazzata del diavolo dopo la copula. Presi coscienza del fatto che il terrore della solitudine ha una componente estetica che lo placa e lo autorizza. Meglio terrore e bellezza che la noia dell’insignificanza.

Ricordo un tardo pomeriggio di agosto, quando l’amante oramai era scoperta in tutte le pieghe della sua anima. Camminavo con Fulvio sul ponte a nove arcate che a Hortobàgy passa sopra una palude di canne canute, moscerini e zanzare. Susanna era rimasta con una sua amica, dentro la csàrda, dove i violini zigani suonavano le danze ungheresi di Brahms. Note eterne del mio fatale andare. Verso la morte certo, ma non senza avere imparato il più possibile.
 Durante le settimane passate avevamo litigato tanto, poiché ci mancavano argomenti di cui parlare con calma e attenzione reciproca. Non avevamo interessi comuni e l’unico verso per provare emozioni, forse anche per eccitarci sessualmente, era litigare con astio su questioni senza importanza, tipo il colore degli occhi del cane del bidello dell’università estiva, o la lunghezza delle maniche della cameriera della mensa. Quel pomeriggio però avevamo superato il limite dell’emozione eccitante seppure cattiva: la sensazione credo di entrambi era talmente disgustosa che non ci consentiva più di stare vicini. Uscito dunque con Fulvio, camminavamo sul ponte verso Budapest, verso occidente: dietro le spalle lasciavamo la csàrda con le due donne, sotto si stendeva una palude fangosa, sulla testa avevamo un cielo scuro, afoso, opprimente; tutt’intorno c’era la puszta punteggiata di turisti che fotografavano con mani frenetiche i cavalli solidungoli incalzati dagli schiocchi delle fruste dei butteri, fotografavano le mucche, fotografavano i buoi dalle lunghe corna, i porci immondi, e i tipici pozzi ungheresi muniti di lunghe antenne. Da tutte le parti soffiava un vento caldo che sollevava una polvere, o sabbia, di granelli neri e aguzzi: micidiali per i miei poveri occhi coperti ma per niente difesi dalle lenti a contatto. Fulvio l’amico già decennale, era uscito con me per darmi conforto, ché dopo il litigio assurdo provavo dolore. Soffrivo proprio per l’insensatezza dello scontro, una collisione nello stesso tempo tragica e idiota. “Non c’è cosa più amara di quella che mai capirà, non c’è cosa più ignobile della stupidità” pensavo.
Fulvio disse: “Gianni, devi rassegnarti alle amanti imperfette, perché una donna come la cerchi tu, un’Antigone forse o una Cordelia, non si trova su questa terra. Vedi che dopo quattro anni di matrimonio e di reclusione con una donna del resto non spregevole, sono tornato a Debrecen senza peso di moglie. Ti ho conosciuto qui dieci anni fa. Allora ti andava molto, ma molto peggio. Dovresti essere contento e ringraziare gli dèi. Non ti ricordi la disperata fame sessuale del ’66? Eri grasso di cibo e denutrito di amore, di donne, di sesso[2]. Eri imbruttito, eri brutto. Susanna è attraente, Non lamentarti: è un atto di empia ingratitudine verso gli dèi che ti hanno fatto la grazia. Ti hanno miracolato. Sei perfino diventato bello, o quasi. Quante ne hai beccate da allora quando temevi di morire vergine e la sera prima di spengere la luce annunciavi il proposito di ammazzarti la mattina seguente subito dopo la colazione? Ameno una ventina ne hai beccate, una migliore dell’altra, e senza lasciarti inchiodare come è successo a molti, me compreso. Ora hai tra le mani una femmina piacente, istruita, elegante; che ti importa se non ti capisce? Non possiamo pretendere che la nostra levatura mentale sia a portata di tante persone: “non cape in quelle anguste fronti ugual concetto”[3].
Una folata di vento gettò un pugno di granelli acuminati tra i miei poveri occhi e le lenti a contatto.
“Fulvio è ottimo-pensai- ma non capisce le donne”.
Poi, lacrimando, risposi: “Hai ragione Fulvio. Non piango per come mi è andata. Mi danno noia le lenti a contatto. Non mi lamento. Però io vivo sempre senza l’amore. Da allora mi è passata la pena della frustrazione sessuale, quella l’ho medicata con successi allora insperabili. Ma non ho appagato il mio eterno bisogno. Io impiegherò tutta la vita, se necessario, nel cercare una femmina umana buona, bella, fine, intelligente e colta. Credo che ce ne siano, e non solo nei nostri autori, ma anche qui sulla terra”.

continua
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[1] Cfr. Cesare Pavese,  Lavorare stanca e Lo steddazzu
[2] Cfr. L’arrivo a Debrecen presente nel blog.
[3] Cfr. Leopardi, Aspasia, 52-53

sabato 26 settembre 2015

Twitter, CCIV antologia

Gli Americani sono rimasti incantati come serpenti da Papa Francesco

L'apparenza può violentare anche la verità to; dokei`n kai; ta;n ajlavqeian bia`tai (Platone, Repubblica, 365c dove cita Simonide, fr. 55 Diehl)
Magari i parlamentari che sembrano ignoranti farabutti e idioti, sono persone sante colte e intelligenti. Magari l'ombra sfumata, la pittura in chiaroscuro di benevolentissima critica che si tracciano intorno i conduttori come Vespa e Fazio è la più ardita opposizione ai luoghi comuni, ai famosi e ai potenti.

L'allegoria dei politici, quasi tutti: chiamano "bene comune" quello che di fatto è il loro interesse e profitto personale.  Dunque: mirate il vero senso che s'asconde sotto il velame dei discorsi falsi, Sono spesso allegorici.  Io sono filelleno e amo il realismo degli autori  greci.

L'allegoria è non chiarezza. La verità (alètheia) è "non latenza".
  Gino Strada toglie la maschera ai  Gentiloni vari e a tutti i guerrafondai. La guerra e la pena di morte devono diventare tabù quanto l’incesto.
Dio benedica Papa Francesco che ha lanciato un anatema contro le armi 

Platone nella Repubblica  (378) redige un indice dei miti proibiti. Ora sono proibite le storie o anche solo poche  parole  sul comunismo anche benefico, sulla donna che può essere pure imperfetta, sull’omosessuale non sempre immacolato, sul governo israeliano non del tutto irreprensibile, sulla democrazia americana, o italiana, difettosa etc.
Onore grande a  Papa Francesco ha denunciato la pena di morte che è segno delle peggiori tirannidi.

giovanni ghiselli


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venerdì 25 settembre 2015

Introduzione alla tragedia greca. Parte VIII

Jakob Schlesinger, ritratto di Hegel, 1831

Vediamo alcune osservazioni di Hegel sulla commedia.
Il poeta deve suscitare l'interesse del pubblico, ma non è necessario che lo assecondi sempre: "in numerose epoche soprattutto la poesia drammatica è anche servita ad introdurre in modo vivo nuove idee riguardanti il campo della politica, dell'etica, della poesia, della religione ecc. Già Aristofane polemizza nelle sue prime commedie contro le condizioni interne di Atene e la guerra del Peloponneso" (Estetica, p. 1564).
 Il commediografo in effetti indirizza strali satirici contro il cretinismo parlamentare e i demagoghi guerrafondai beniamini del popolo, sopra tutti Cleone raffigurato, nei Cavalieri[1], nel personaggio del ladro, violento, volgarissimo Paflagone. Negli Acarnesi dell'anno precedente l'autore aveva mosso guerra alla guerra voluta dalla maggioranza. La commedia offre maggiore spazio all'attualità e alla soggettività: "così nelle parabasi Aristofane spesso si dà da fare con il pubblico ateniese, sia perché non nasconde le sue opinioni politiche sugli avvenimenti e le situazioni del giorno.. sia perché cerca di mettere a tacere i suoi avversari e rivali in arte" (p. 1565).
La parabasi comica è una specie di intermezzo nel quale il coro si toglie la maschera ed espone direttamente al pubblico l'opinione del poeta sulla poetica o la politica o sul costume. Nelle Nuvole [2] p. e. Aristofane rivendica la propria forza creativa, il coraggio, e la nobiltà del proprio animo dicendo al pubblico: " non cerco di ingannarvi rappresentando due o tre volte la stessa storia/anzi mi ingegno per portarvi sempre nuove idee/
per niente uguali tra loro e tutte intelligenti/io che colpii nel ventre Cleone quando era al massimo della potenza/ e non ebbi la sfrontatezza di calpestarlo quando era caduto" (vv. 546 - 550).
 In effetti Aristofane come opinionista fu assai critico nei confronti dei colleghi, dei concittadini e dei governanti, e la tolleranza di cui fruì è un esempio di assoluta parrhsiva, libertà di parola, nell'Atene degli anni compresi tra il 425 e il 415. Poi questa un poco alla volta viene limitata e con lei sparisce la parabasi. L'ultima è quella degli Uccelli del 414.

Interessanti sono alcune osservazioni sull'attore il quale deve essere"lo strumento su cui suona l'autore, una spugna che assorbe tutti i colori e li restituisce immutati. Presso gli antichi - aggiunge Hegel - questo era più facile perché... le maschere[3] coprivano i tratti del volto" (Estetica, p. 1575), e il lato mimico era reso obbligatorio dalla musica che accompagnava i canti del coro. Volendo fare un confronto con l'Opera moderna, la differenza principale è che in questa la musica sovrasta la parola; inoltre nella tragedia antica non c'era lo sfarzo scenografico e la "pompa sensibile" dell'addobbo che da una parte "è segno dell'inizio della decadenza dell'arte autentica", dall'altra corrisponde a trame intessute di meraviglioso, fantastico, favoloso, “avulsi dalla connessione intellettuale; e l’esempio condotto a termine con maggior misura ed arte ci è dato a tale proposito da Mozart con il suo Flauto magico” (p. 1580).

Nella commedia si trova a proprio agio la soggettività che "certa di se stessa può sopportare la dissoluzione dei suoi fini e delle sue realizzazioni" (p. 1591). Il comico richiede contrasti che possono derivare da sforzi seri indirizzati verso fini meschini, come quando l'avaro prende quale scopo"la morta astrazione della ricchezza, il danaro", oppure da persone frivole che mirano a bersagli importanti e difficili: "di tale natura sono, p. e., le Ecclesiazuse di Aristofane, perché qui le donne, che vogliono deliberare e fondare una nuova costituzione, conservano tutti i loro capricci e passioni di donne" (p. 1592).

In questa commedia[4] le donne a parlamento fanno un colpo di Stato, prendono il potere, quindi aboliscono la famiglia e la proprietà instaurando il comunismo della roba e del sesso. Prassagora, la capobanda, prescrive che "tutti abbiano tutto in comune" (v. 590), la terra, il denaro e quante altre cose ognuno possiede (v. 598). Anche le femmine sono messe in comune per i maschi, a una condizione: "le più insignificanti e rincagnate staranno accanto alle belle; /poi, chi ha voglia di una buona, prima deve sbattersi la brutta" (vv. 616 - 617). Insomma si è provveduto "perché nessuna resti a buco vuoto" (v. 624).
“Il comico è la parola che lavora con la propria impotenza, l’azione che si sa immobile, il pensiero che pensando se stesso “porta in contraddizione e dissolve il proprio agire” (Hegel) ”[5].

 Anche la commedia però, continua Hegel, deve mettere in evidenza il razionale "come ciò che neanche nella realtà lascia vincere o sussistere fino alla fine la stoltezza e l'irrazionalità... Aristofane non si fa gioco di ciò che di veramente etico c'è nella vita del popolo ateniese, né dell'autentica filosofia, della vera fede religiosa, dell'arte genuina; ma quel che egli ci pone dinnanzi nella sua stoltezza che da se stessa si distrugge sono le aberrazioni della democrazia, da cui sono spariti l'antica fede e gli antichi costumi, è la sofisticheria, il tono lamentevole e pietoso della tragedia, le chiacchiere volubili, la litigiosità ecc., questa nuda contropartita di una vera realtà statale, religiosa, artistica" (p. 1593).

Tanto il tragico quanto il comico devono giungere a conciliare le contraddizioni sulle quali bisogna che, attraverso l'agire umano, prevalga "una realtà in sé armonica" (p. 1595).
Nella drammaturgia antica si trovano tragedie con simili esiti i quali possono risparmiare il sacrificio degli individui: "p. es. l'Areopago, nelle Eumenidi di Eschilo, concede il diritto alla venerazione ad entrambe le parti, ad Apollo e alle vergini vendicatrici. Anche nel Filottete si giunge ad appianare con l'apparizione divina ed il consiglio di Eracle la lotta fra Neottolemo e Filottete" (p. 1595).
 L’ultima parte dell’Orestea[6] giunge ad una conciliazione tra la religione dei padri e quella delle madri, tra le ragioni di Oreste che ha ucciso la madre vendicando il padre tradito e assassinato da lei, e quella delle Erinni, venerande dee che proteggono i vincoli di sangue, soprattutto il più forte: quello madre - figlio violato dal giovane il quale viene processato e assolto, non senza però che le sue accusatrici ricevano culti e onori dagli Ateniesi. Nel Filottete[7] il rientro dell'eroe ferito nell'armata dei Greci che l'avevano abbandonato a Lemno nella solitudine, e sono rappresentati dal subdolo Odisseo il quale con l'inganno vuole sottrargli le armi necessarie alla presa di Troia, avviene in seguito all'apparizione di Eracle che, disceso dal cielo quale deus ex machina, promette al protagonista la guarigione e il primo posto nell'esercito acheo (vv. 1420 e sgg.).

Presupposto della tragedia è una condizione del mondo eroica, l'opposto della situazione moderna dalla quale scaturisce l'ironia.
La tragedia è fatta di contrasti: “L’opposizione principale, trattata in modo bellissimo particolarmente da Sofocle sull’esempio di Eschilo, quella dello Stato, della vita etica nella sua universalità spirituale, con la famiglia come eticità naturale. Queste sono le potenze più pure della manifestazione tragica, in quanto l’armonia di queste sfere e l’agire armonico entro la loro realtà costituiscono la completa realtà dell’esistenza etica" (p. 1607).
 Hegel ribadisce che l'Antigone di Sofocle rappresenta al meglio tale collisione: "Antigone onora il legame di sangue, gli dèi sotterranei, Creonte onora solo Zeus, la potenza che governa la vita e il benessere pubblici". Quindi aggiunge: " Il medesimo conflitto si trova anche nell'Ifigenia in Aulide, nell'Agamennone, nelle Coefore e nelle Eumenidi di Eschilo e nell’Elettra di Sofocle. Agamennone come re e capo dell'esercito sacrifica la figlia all'interesse dei Greci e della spedizione contro Troia, distruggendo così il vincolo dell'amore per la figlia e la sposa, che Clitemnestra come madre conserva nel profondo del cuore, apprestando la vendetta di una uccisione ignominiosa al reduce sposo. Oreste, figlio e figlio del re, onora la madre, ma deve difendere il diritto del re, del padre, e colpisce il seno che lo ha generato" (p. 1608).
L'ultima grande poesia della Grecia è la commedia di Aristofane il quale rappresenta figure come Strepsiade e Socrate (Nuvole), Bacco (Rane), Cleone (Cavalieri) piene di presunzione, e risibili per la "sicurezza ingenua della soggettività"; essi hanno verso loro stessi una ridicola"fiducia tanto più incrollabile quanto meno si mostrano capaci di eseguire ciò che intraprendono" (p. 1618).
L'etico e il divino sono abbandonati al gioco della soggettività, e questo è "uno dei maggiori sintomi della decadenza della Grecia" (p. 1619).
Hegel mette il Bacco delle Rane tra i personaggi “tratteggiati come stolti” delle commedie di Aristofane: “ Così per Strepsiade, che vuole rivolgersi ai filosofi per sbarazzarsi dei debiti; così per Socrate che si offre come maestro di Strepsiade e di suo figlio; egualmente per Bacco, che egli fa scendere nel mondo sotterraneo per ricondurre alla luce un vero tragico; e lo stesso dicasi di Cleone, delle donne, dei greci che vogliono trarre dal pozzo la dea della pace ecc. ” Sono personaggi risibili per “la fiducia che tutte queste figure hanno in se stesse, fiducia tanto più incrollabile quanto meno si mostrano capaci di eseguire ciò che intraprendono. Gli stolti sono dei semplicioni…che non perdono mai questa sicurezza ingenua della soggettività”[8].
Woody Allen fa dire a un personaggio del film Crimini e misfatti (1989) : “Comedy is tragedy plus time”, la commedia è la tragedia più del tempo, nel senso che con il passare del tempo i fatti tragici possono diventare ridicoli.
Potremmo aggiungere che alla commedia antica di Aristofane manca quello che Pirandello chiamerà, "il sentimento del contrario". “Umorista non è Aristofane ma Socrate…Socrate ha il sentimento del contrario; Aristofane ha un sentimento solo, unilaterale”[9]. Sul saggio di Pirandello torneremo più avanti.

Intanto sentiamo Pasolini: “Il popolo non è umorista, nel senso che possiamo attribuire all’umorismo degli scrittori del Seicento, di Cervantes, di Dickens, ecc. Il popolo è comico, spiritoso…L’umorismo è distacco dalla realtà, atteggiamento contemplativo di fronte alla realtà, e quindi dissociazione tra sé e questa realtà”[10].



continua


[1] Del 424 a. C.
[2] Del 423 a. C. A noi è giunto il testo rimaneggiato successivamente dall’autore.
[3] Sulla maschera leggiamo anche queste osservazioni di Ortega Y Gasset: “Coloro che si dedicavano al culto di Dioniso si mascheravano…ci troviamo di fronte a un altro dato sorprendente della preistoria del teatro, ovvero che la maschera, assieme alla danza, lo stupefacente e la pantomima, è una delle invenzioni più antiche dell’umanità. La prima forma umana che ci ricordi un po’ la nostra è quella del paleolitico, e già qui vediamo come l’uomo utilizzi la maschera. E’ dunque la maschera sorella e coetanea dell’ascia di selce, della pietra grezza” (Idea del teatro, p. 102).
Sentiamo anche Di Marco: “L’impiego delle maschere permetteva a ciascun attore di impersonare più ruoli, ivi compresi quelli femminili: un espediente al quale era inevitabile fare ricorso in un teatro che utilizzava solo interpreti di sesso maschile e nel quale, come abbiamo visto, vigeva una norma che limitava a tre il numero massimo di attori a disposizione di ciasun tragediografo…Le maschere erano fatte di lino - talvolta anche di cartapesta o di cuoio - su cui veniva passato dello stucco: una volta divenute rigide, si procedeva a dipingerle: secondo una precisa convenzione “realistica” in uso nella pittura contemporanea, quelle femminili di bianco, quelle maschili di un colore più scuro. Opportunamente fissate al mento o alla nuca con delle stringhe, coprivano l’intero volto; ad esse era assicurata una parrucca, probabilmente di lana” (Op. cit., p. 95). 
[4] Del 393 a. C.
[5] M. Cacciari, Hamletica, p. 102.
[6] Del 458 a. C
[7] Del 409 a. C.
[8] Hegel, Estetica, p. 1618.
[9] Pirandello, L’umorismo, p. 45.
[10] P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, p. 1443.