Io e Helena, 1971 |
A Helena.
Per tirarmi fuori da
una situazione difficile: 45 anni dopo, aiutami ancora!
Il 2 marzo del 1981 salii da solo sull’alpe di Pampeago,
sopra Predazzo.
Sciai per un paio di ore rabbrividendo per il freddo e per
alcuni pensieri raccapriccianti.
Sul mezzogiorno privo di sole, non ne potevo più dell’aria
cupa e gelata, sicché entrai in un rifugio di latta e di legno, riscaldato da
diverse stufe roventi.
Quando mi fui seduto con una bottiglia di birra in mano, una
radio diffuse il canto antico di Helena, la Sarjantola
biancovestita dei giorni felici dell’estate del ’71: “Summertime, and the living is easy”.
Ascoltando la melodia che mi portava lontano, rividi il suo
volto sorridere dolcemente alle prime luci dell’alba mentre camminavamo sotto
gli alberi strani del grande bosco di Debrecen, tra le cui foglie biancheggiava
ancora la luna e comparivano or sì or no le stelle, lucide e vaghe come occhi
di ragazze contente e speranzose di un avvenire felice. Dalla memoria gocciava
il ricordo per niente sbiadito di quei giorni già allora lontani.
Pensai per converso che Ifigenia era stanca di me, io ero nauseato di lei, e il nostro rapporto
malato rendeva malati anche noi.
Con Helena era una festa piena di gioia vederci, andare a
zonzo anche senza una meta, era una scoperta parlare delle nostre vite tanto
lontane e diverse, eppure fatte convergere lì in Ungheria da un destino
benevolo, miracoloso, ed era possibile lasciarsi andare: giocare come bambini,
senza sospetti, senza timori. Ci piacevamo molto a vicenda, piacevamo ai nostri
amici che non ci volevano male, e noi eravamo pieni di gratitudine per questi
doni meravigliosi che la vita ci offriva senza risparmio. Poi
era estate, i dì scivolavano lisci, dolci, senza dolori, verso tramonti
purpurei, pieni di voli, cui succedevano notti piene di contentezza, di sorrisi
e di baci .
io oggi |
“Sei felice?” mi domandava Helena benedicendomi con un
sorriso.
E io: “ come posso
non esserlo in questa stagione benedetta, seduto in questo prato sotto questi
alberi pieni di foglie mosse da un vento caldo, leggero profumato, mentre
osservo con gratitudine una donna della tua levatura che mi sorride, bella e
felice come sei tu?”
“Se sono felice lo devo a te”, replicava. “Tu mi hai fatto
gustare i sapori più intensi e delicati di questa breve vita mortale”.
Negli ultimi mesi con Ifigenia al contrario dovevo misurare
ogni parola, siccome colei era pronta a criticarmi con malevolenza, se non
altro per prevenire le critiche mie non meno forsennate e cattive. Ci volevamo
male.
L’ autunno e l’inverno erano stati infernali.
Confrontavo le due situazioni lontane quasi dieci anni nel
tempo e un’eternità nella mia mente.
Piansi di nostalgia con la faccia girata dove non si vedeva anima viva e
mi chiesi quando sarebbero risorte giornate
ricche di affetti buoni e di eventi lieti. Pensavo alle lunghe guerre che avevo
dovuto combattere contro avversità dolorose spinto dal desiderio implacabile e
inesausto della felicità che poteva esserci solo con una donna della mia
levatura, degna di me. La memoria che non ero vissuto sempre nel dolore, quella
di Helena soprattutto, ma pure di alcune
altre donne belle e fini[1],
ridestavano sentimenti cari e soavi. No, non ero sempre stato lo zimbello della
fortuna cattiva. Nemmeno un agonista vincitore di gare risolutive ero stato.
Avevo ottenuto
qualche successo parziale, avevo celebrato con tripudi coribantici tre o quattro trionfi, ma
la vittoria davvero olimpica, quella definitiva sul dolore immondo, mi era
sempre sfuggita. Però non avevo fatto del male a nessuno, e certi progressi li
avevo notati.
Non ero fallito del tutto e non ero cattivo. Dio mi avrebbe
aiutato se fossi uscito in tempo da quella situazione malata.
Finita l’antica canzone, mi asciugai gli occhi, li girai
verso la gente e uscìi da rifugio che ero un poco ebbro di birra. Il vento si
era addolcito. Le nubi sopra le montagne
venivano a poco a poco squarciate dal sole. Guardavo il cielo che si
rischiarava, i dorsi dei monti umidi per il disgelo, gli innumerevoli sorrisi
degli aghi degli abeti che luccicavano ai raggi del santo volto di luce. Rimasi
fermo a osservare finché provai un sentimento di riconoscenza per la natura,
per tutte le creature che mi avevano accolto e trattato con simpatia, e per la
vita stessa che non mi aveva mai rinnegato del tutto.
giovanni ghiselli
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400 mila per quello d’inverno, il 21 dicembre quando di fatto inizia la
primavera.
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