NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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martedì 31 maggio 2016

L'estate del 1979 a Debrecen. X parte

Io e Helena, 1971
A  Helena.
Per tirarmi fuori da una situazione difficile: 45 anni dopo, aiutami ancora!

Il 2 marzo del 1981 salii da solo sull’alpe di Pampeago, sopra Predazzo.
Sciai per un paio di ore rabbrividendo per il freddo e per alcuni pensieri raccapriccianti.
Sul mezzogiorno privo di sole, non ne potevo più dell’aria cupa e gelata, sicché entrai in un rifugio di latta e di legno, riscaldato da diverse stufe roventi.
Quando mi fui seduto con una bottiglia di birra in mano, una radio diffuse il canto antico di Helena, la Sarjantola biancovestita dei giorni felici dell’estate del ’71: “Summertime, and the living is easy”.
Ascoltando la melodia che mi portava lontano, rividi il suo volto sorridere dolcemente alle prime luci dell’alba mentre camminavamo sotto gli alberi strani del grande bosco di Debrecen, tra le cui foglie biancheggiava ancora la luna e comparivano or sì or no le stelle, lucide e vaghe come occhi di ragazze contente e speranzose di un avvenire felice. Dalla memoria gocciava il ricordo per niente sbiadito di quei giorni già allora lontani.
Pensai per converso che Ifigenia era stanca di me,  io ero nauseato di lei, e il nostro rapporto malato rendeva malati anche noi.
Con Helena era una festa piena di gioia vederci, andare a zonzo anche senza una meta, era una scoperta parlare delle nostre vite tanto lontane e diverse, eppure fatte convergere lì in Ungheria da un destino benevolo, miracoloso, ed era possibile lasciarsi andare: giocare come bambini, senza sospetti, senza timori. Ci piacevamo molto a vicenda, piacevamo ai nostri amici che non ci volevano male, e noi eravamo pieni di gratitudine per questi doni meravigliosi che la vita ci offriva senza risparmio.   Poi era estate, i dì scivolavano lisci, dolci, senza dolori, verso tramonti purpurei, pieni di voli, cui succedevano notti piene di contentezza, di sorrisi e di  baci .
io oggi
“Sei felice?” mi domandava Helena benedicendomi con un sorriso.
 E io: “ come posso non esserlo in questa stagione benedetta, seduto in questo prato sotto questi alberi pieni di foglie mosse da un vento caldo, leggero profumato, mentre osservo con gratitudine una donna della tua levatura che mi sorride, bella e felice come sei tu?”
“Se sono felice lo devo a te”, replicava. “Tu mi hai fatto gustare i sapori più intensi e delicati di questa breve  vita mortale”. 
Negli ultimi mesi con Ifigenia al contrario dovevo misurare ogni parola, siccome colei era pronta a criticarmi con malevolenza, se non altro per prevenire le critiche mie non meno forsennate e cattive. Ci volevamo male.
L’ autunno e l’inverno erano stati infernali.  
Confrontavo le due situazioni lontane quasi dieci anni nel tempo e un’eternità nella mia mente.  Piansi di nostalgia con la faccia girata dove non si vedeva anima viva e mi chiesi quando sarebbero  risorte giornate ricche di affetti buoni e di eventi lieti. Pensavo alle lunghe guerre che avevo dovuto combattere contro avversità dolorose spinto dal desiderio implacabile e inesausto della felicità che poteva esserci solo con una donna della mia levatura, degna di me. La memoria che non ero vissuto sempre nel dolore, quella di Helena soprattutto, ma pure  di alcune altre donne belle e fini[1], ridestavano sentimenti cari e soavi. No, non ero sempre stato lo zimbello della fortuna cattiva. Nemmeno un agonista vincitore di gare risolutive ero stato.
 Avevo ottenuto qualche successo  parziale, avevo  celebrato con  tripudi coribantici tre o quattro trionfi, ma la vittoria davvero olimpica, quella definitiva sul dolore immondo, mi era sempre sfuggita. Però non avevo fatto del male a nessuno, e certi progressi li avevo notati.
Non ero fallito del tutto e non ero cattivo. Dio mi avrebbe aiutato se fossi uscito in tempo da quella situazione malata.
Finita l’antica canzone, mi asciugai gli occhi, li girai verso la gente e uscìi da rifugio che ero un poco ebbro di birra. Il vento si era addolcito. Le  nubi sopra le montagne venivano a poco a poco squarciate dal sole. Guardavo il cielo che si rischiarava, i dorsi dei monti umidi per il disgelo, gli innumerevoli sorrisi degli aghi degli abeti che luccicavano ai raggi del santo volto di luce. Rimasi fermo a osservare finché provai un sentimento di riconoscenza per la natura, per tutte le creature che mi avevano accolto e trattato con simpatia, e per la vita stessa che non mi aveva mai rinnegato del tutto.



giovanni ghiselli  

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Saranno più di 350 mila per il solstizio d’estate e più di 400 mila per quello d’inverno, il 21 dicembre quando di fatto inizia la primavera.

Queste sono le prime dieci nazioni

Stati Uniti
171870
Italia
152300
Russia
5160
Germania
2769
Regno Unito
2230
Ucraina
1573
Francia
1519
Cina
765
Portogallo
692
Svizzera
514






[1] Questo blog racconta tre storie di amore felice. Durano purtroppo solo un mese ciascuna. 

sabato 28 maggio 2016

Twitter, CCXXII antologia. I fucilieri e le Serracchiani

28 maggio 2016


“Ben tornato al fuciliere” – fucilatore di pescatori indiani.
Io dico: “Non in mio nome!”.
In fede giovanni ghiselli

La renziana Serracchiani ospite della Gruber non ha lasciato parlare la Berlinguer né la conduttrice.
Proprio come facevano i berlusconiani più beceri.

Se i fucilatori verranno portati in trionfo quali eroi, questo sarà il segno definitivo della caduta della nostra democrazia posticcia.
Casomai sarebbero da commemorare con atti di contrizione le povere vittime indiane e si dovrebbero aiutare le loro vedove e i loro figli.

La petulanza piatta, vuota, mistificatoria e prepotente delle varie serracchiani, governative e no, spinge i cittadini nauseati a non votare.
Tutto di guadagnato per chi comanda, opprime e falsifica i valori.




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Questi sotto sono i primi dieci paesi.

Stati Uniti
171562
Italia
151986
Russia
5154
Germania
2762
Regno Unito
2234
Ucraina
1573
Francia
1519
Cina
743
Portogallo
689
Svizzera
513

venerdì 27 maggio 2016

IL MITO. Il mito in Platone. Parte II

simposio


Simposio

Il Simposio è un dialogo platonico composto presumibilmente fra il 387 e il 377 a. C. ma ambientato nel 416 in casa del poeta Agatone il giorno dopo che questo ha vinto le gare drammatiche con la sua prima tragedia rappresentata alle Lenee - febbraio - secondo Ateneo (Deipnosofisti, 217A) .
La scena introduttiva è da collocarsi tra il 404 e il 400.
Apollodoro racconta quello che gli ha raccontato Aristodemo su quella serata.

Intermezzo dedicato al tragediografo Agatone
Per Agatone, Cfr. Aristofane le Tesmoforiazuse del 411 (come la Lisistrata) .
Euripide va con un suo parente da Agatone. Il parente dice di non averlo mai visto. Euripide fa: eppure tu l’hai inculato (kai; mh;n bebivnhka~ suv, ma non te ne ricordi (35) . - binevw.
Appare il servo di Agatone che annuncia il padrone con grande prosopopea: il signore dai bei canti che si accinge (mevllei) …Euripide completa con mw`n binei`sqai; a farsi fottere, forse?
Il servo illustra l’arte raffinata del padrone che tornisce e incolla.
Euripide mormora e fa i bocchini (kai; laikavzei, lat. fellat)
Il parente si annuncia come uno pronto a infilzare il servo e il poeta armonioso con il suo bischero (to; pevo~) arrotondato
Euripide come vede uscire Agatone cita l’Edipo re (v. 738) o Zeus che cosa vuoi fare oggi di me?
Euripide spiega che le donne vogliono ucciderlo poiché kakw`~ aujta;~ levgw (84) , dico male di loro.
Vorrebbe che andasse Agatone travestito a difenderlo.
Esce Agatone sdraiato in un letto trasportato da un carrello. E’ vestito da donna
Euripide dice : dov’è? Io qui non vedo uomini, vedo solo Cirene, una famosa cortigiana famosa per le dodici posizioni (cfr. Rane, 1327)
Agatone canta inni pieni di luoghi comuni del lirismo corale e tragico, in onore di Febo e di Artemide
Il parente cita un verso dalla Licurgia di Eschilo: Licurgo chiede da dove venga Dioniso oJ guvnni~ il donno (136) , l’uomo effeminato.

Secondo Proust gli uomini-donna  sono i discendenti di quegli abitanti di Sodoma che furono risparmiati dal fuoco celeste.

Il parente non capisce se Agatone qhluvmorfo~ o ajrsenovqhlu~ sia maschio o femmina. Non vede to; pevo~ e non vede ta; titqiva (143)
Agatone risponde che lui fa gunaikei`a dravmata (150) drammi muliebri, e il suo corpo ne ha preso la forma.
Il parente gli chiede: e quando scrivi la Fedra, cavalchi? (152)
Agatone risponde che è la mivmhsi~ a procurarci quello che non abbiamo.
Il parente dice: allora chiamami quando fai dei satiri , collaborerò standoti dietro con il bischero ritto (ejstukwv~, da stuvw) .
Agatone ribatte che un poeta rozzo e peloso è indecente. Ibico, Anacreonte e Alceo portavano la mitra e sfoggiavano eleganze ioniche. Frinico era bello e si vestiva con gusto.

Frinico scrisse La conquista di Mileto (492) da parte dei Persiani. Fece piangere il pubblico e venne multato. L’arconte del 492 fu Temistocle che assegnò il coro alla tragedia e ne trasse vantaggio perché voleva una grande flotta da opporre alla Persia
Frinico nel 476 rappresentò le Fenicie con il dolore delle vedove dei marinai fenici della flotta persiana.

Agatone dunque ha cura di se stesso (171) perché vuole comporre drammi belli.
Euripide chiede il favore al collega. Non ci va lui personalmente poiché è poliov~ (canuto) e ha la barba pwvgwn j e[cw (190)
Agatone invece ha un bel viso, è bianco, ben rasato, ha la voce da donna gunaikovfwno~ (192) ed è bello
Agatone risponde citando il v. 191 dell’Alcesti quando il padre si rifiuta di morire al posto del figlio.
Le disgrazie si sopportano non con gli artifici ma con il soffrire.
Euripide allora gli fa: tu rotto in culo hai il culo aperto non con le parole ma con il subire (200 - 201) .
Agatone dice che le donne lo ucciderebbero, credendo che voglia rapire la Cipride femminile
E il parente risponde: ma che rapire, farti fottere piuttosto binei`sqai (206) 206) .
Il parente si offre lui. Euripide chiede un rasoio (xurovn - to;) ad Agatone che se ne porta sempre uno dietro.
Euripide lo rade e gli mette uno specchio davanti. Allora il parente dice che vede Clistene, un famoso invertito. Negli Acarnesi si legge che Clistene è uno che ha depilato il culo focoso (qermovboulon prwktovn)
Poi Euripide depila il parente nel prwktov~ con la fiamma, quindi chiede ad Agatone iJmavtion, tunica kai; strovfion e reggipetto. Non dirmi che non ce li hai.
Agatone dà una tunica color zafferano e il parente trova che ha un buon profumo di cazzo piccolo (hJdu; g j o[zei posqivou, v. 253) .

Nelle Rane, Aristofane dà notizia della partenza di Agatone che verso il 408 andò in Macedonia dal re Archelao. Dioniso dice di lui ajgaqo;~ pohth;~ kai; poqeino;~ toi`~ sofoi`~ (84) un buon poeta e rimpianto dai saggi.

Torniamo a Platone
Il Simposio mostra una gara oratoria tra sette "uomini di alta e insigne personalità"[1], più una donna estranea al convito : la sacerdotessa Diotima di Mantinea, la "celebre professoressa dell'amore"[2] che ha istruito Socrate. Ed è proprio il maestro di Platone "colui che riporta la vittoria nell'agone oratorio, una vittoria che val più dell'applauso tributato il giorno prima ad Agatone da più di trentamila spettatori nel teatro (Symp. 175e) "[3].

 Il tema è l'elogio di Eros. I sette personaggi che dialogano "rappresentano figure emblematiche delle differenti correnti della cultura europea"[4].
Vediamo in breve i contenuti dei loro discorsi.

Fedro parla per primo (178 a 6 - 180 b8) ed è il path;r tou' lovgou (177 d 5) , padre del discorso. Alcune delle sue idee, espresse sinteticamente "come nelle ouvertures delle opere"[5] vengono sviluppate più avanti da Socrate. Amore è il più antico fra gli dèi, sostiene questo giovane oratore[6], e offre agli uomini i doni maggiori. Il sentimento che lega gli amanti suscita in loro vergogna per le cose turpi e li rende generosi fino all'abnegazione. Quindi Eros ha anche un aspetto politico, e perfino militare, positivo: se una città o un esercito fossero formati di amanti e amati essi verrebbero governati in maniera perfetta in quanto si terrebbero lontano dalle turpitudini e gareggerebbero tra loro in nobile ambizione. Solo chi ama è disposto a morire per un altro, e non esclusivamente gli uomini ma anche le donne: lo testimonia Alcesti la figlia di Pelia.

Segue il discorso di Pausania (180 c 4 - 185 c 3) che fu un discepolo del sofista Prodico e giustifica l'Eros pederastico.
 Amore non è unico ma duplice come Afrodite: c'è un Eros Uranio o Celeste, connesso ad Afrodite Urania, figlia del Cielo, quindi derivato solo dal maschio; e c'è un Eros Pandemio, Volgare, legato ad Afrodite Pandemia figlia di Zeus e Dione.
Soltanto l'amore celeste deve essere elogiato. Quello volgare infatti ama i corpi più delle anime e si volge tanto ai fanciulli quanto alle donne; inoltre agisce a casaccio senza tendere al bene. Chi segue Eros Celeste invece ama i maschi nei quali ammira la natura più forte e l'intelligenza più viva, l'anima più che il corpo, e tende al perfezionamento dell'amato. E' dunque buona cosa che l'amato conceda i propri favori all'amante in vista della sapienza e della virtù.

Quindi parla il medico Erissimaco (185 e 6 - 188 e 4) . Eros è una forza cosmica universale. Quando è bello, consiste nell' accordo e nell' armonia dei contrari in senso naturalistico. Questo scienziato ammette la duplicità di Eros e distingue pure lui un Amore bello, Celeste, quello della Musa Urania, da uno Volgare, quello di Polimnia. Il primo produce armonia e salute, il secondo, essendo disarmonico, provoca disordine, danni, sopraffazioni e distruzioni. Cfr. amare e bene velle in Catullo.
la componente sensuale avulsa da quella affettiva, viene chiarita bene dal distico finale del carme 72 :"Qui potis est?, inquis. Quod amantem iniuria talis/ cogit amare magis, sed bene velle minus " (vv. 7 - 8) , come può essere?, chiedi. Poiché una tale offesa costringe l'amante ad amare di più ma a voler bene di meno.
Il passaggio dall'uno all'altro amore viene sentito e dichiarato dal passionale Dimitri Karamazov:"questo amore mi tortura, mi tortura!...Prima, mi facevano languire soltanto le flessuosità del suo corpo infernale, ma adesso tutta la sua anima l'ho trasfusa nella mia, e grazie a lei anch'io sono diventato un uomo!"[7].

Leopardi nella Storia del genere umano sostiene che il massimo della felicità e della forza amorosa è concessa da "Amore, figliuolo di Venere Celeste". E spiega:" Quando viene in sulla terra sceglie i cuori più teneri e più gentili delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoli di affetti nobili e di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa del tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l'uno e l'altro a un medesimo tempo e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con grandissima istanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non gli consente di compiacergli, trattone alcuni pochi; perché la felicità che nasce da tale beneficio è di troppo breve intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l'essere pieni del suo nume vince per sé qualunque più fortunata condizione fosse in alcuno uomo ai migliori tempi".
Cfr. la trasfusione delle anime nel Satyricon :"qualis nox fuit illa, di deaeque,/quam mollis torus. haesimus calentes/et transfudimus hinc et hinc labellis/errantes animas. valete, curae/mortales. ego sic perire coepi " (Satyricon, 79) , che notte fu quella, dei e dee, che morbido letto. ci stringemmo ardenti e ci trasfondemmo con le labbra a vicenda le anime deliranti. addio, affanni mortali. così io cominciai a morire.


continua



[1] W. Jaeger, Paideia 2, p. 303.
[2] R. Musil, L'uomo senza qualità, p. 86.
[3] W. Jaeger, Paideia 2, p. 302.
[4] Giovanni Reale (a cura di) Platone, Simposio, p. XXII.
[5] Giovanni Reale, op. cit., p.XXIV
[6] Cui Socrate nel Fedro, un altro dialogo sull'amore dice:"Sei sublime Fedro nel tuo entusiasmo per i discorsi…a parte Simmia di Tebe, tutti gli altri li vinci di gran lunga" (242b) .
[7]F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov (del 1880) , p. 709.

giovedì 26 maggio 2016

IL MITO. Il mito in Platone

Platone
(Raffaello, Scuola di Atene)

Fedone
Composto tra il 387 e il 367, come il Simposio.

Fedone racconta a Echecrate le ultime ore di Socrate
Le anime che non si sono liberate dall’elemento tellurico praticano gozzoviglie, lussurie e ubriacature a dismisura e si calano eij" ta; o[nwn gevnh nelle razze dei somari e di simili animali (82) . Cfr, L’asino d’oro di Apuleio, Pinocchio di Collodi.

Invece quelli che preferiscono ingiustizia, tirannide e rapine assumono forme di lupi e sparvieri
I più felici sono quelli che praticano le virtù pubbliche e politiche che si chiamano temperanza e giustizia. Questi diventeranno api o vespe o formiche o torneranno a essere uomini misurati. Per l’ape animale reputato cfr. Il giambo antifemminista di Simonide
Arrivano a forma divina solo quelli che hanno amato la conoscenza. Questi si tengono lontani da tutti i desideri del corpo che è una terribile prigione
Socrate manda via Santippe che lo disturba. Dice a Critone: “w\ Krivtwn ajpagevtw ti" oi[kade, qualcuno la porti a casa. Alcuni familiari di Critone la portarono via mentre gridava e si percuoteva.

Il corpo dunque è un impedimento dell’anima.
Conoscere è ricordare. Infatti siamo passati sulla terra più volte. Socrate come i cigni vuole fare i discorsi più belli prima di morire.
I cigni quando si accorgono di dover morire cantano più e meglio che nel passato, lieti di andare dalla divinità di cui sono servitori, Apollo. Gli uomini calunniano i cigni per la loro paura della morte, e dicono che cantano per il dolore, mentre nessun uccello canta per dolore. Io mi sento loro fratello e come loro sono stato provvisto della divinazione da Apollo (85)
Socrate provò entusiasmo poi disillusione per Anassagora.
Nel Fedone, Socrate racconta che provò interesse per le dottrine dei fisici. Andò a scuola da Archelao, discepolo di Anassagora, e sentì dire che c'è una mente, ordinatrice e causa di tutte le cose, e questo gli piacque; però poi leggendo i libri di Anassagora si accorse che quell'uomo non si avvaleva affatto della mente, non gli assegnava alcun principio di causalità nell'ordine dell'universo, ma presentava come cause l'aria, l'etere e l'acqua. Egli dunque si era messo alla lettura di Anassagora con grande aspettativa, ma poi rimase deluso poiché il filosofo il più delle volte riconduceva tutto a cause materiali come gli altri fisici, e non era la Mente (Nou'") il principio informatore dell'universo. Sperava di avere trovato un maestro che spiegasse le cause kata; nou'n (97d), ma poi leggendo il libro di Anassagora oJrw' a[ndra tw/' me; n nw'/ oude; n crwvmenon (98b) , vedo che l’uomo non si avvale della mente.

Il mito geografico del destino delle anime.
La terra è sferica e si trova al centro dell’universo. Noi uomini abitiamo in delle grotte dentro la terra. Più interno è il Tartaro con i 4 fiumi: Oceano, Acheronte, Piriflegetonte e Cocito.
L’Acheronte sfocia nella palude Acherusiade dove si raccolgono molte anime di morti.

Il giudizio dei morti 113c - 114c

L’anima se ne va all’Ade portando con sé nient’altro plh; n th paideiva" te kai; trufh`"”, che la sua educazione e il regime di vita.

Ogni morto viene portato dal suo demone nel luogo del raduno dove vengono giudicati. La via ha molte biforcazioni e trivii, scivsei" te kai;, triovdou" pollav" (108)
L’anima buona segue il demone, la cattiva viene trascinata (cfr. Seneca)
Ogni anima è assegnata al luogo che le si addice,

Noi da vivi abitiamo in cavità della terra (toi'" koivloi") dal Fasi alle colonne d’Ercole e stiamo intorno al mare come formiche o rane intorno a uno stagno. L’aria che respiriamo non è quella che sta sotto il cielo stellato ma non ce ne accorgiamo. Non ci solleviamo per debolezza e pigrizia (uJp j ajsqeneiva" kai; braduth'to" 109e.

Nella terra c’è una voragine (cavsma) particolarmente grande: il Tartaro.
Qui confluiscono tutti i fiumi, e di qui defluiscono.
Lo menziona Omero nell’VIII dell’Iliade quando Zeus minaccia di gettarvi gli dèi che aiuteranno i Greci o i Troiani (v. 14)
I quattro fiumi più importanti tra quanti entrano nel Tartaro e ne escono sono l’Oceano, il più grande (mevgiston) che percorre il cerchio più esterno (ejxwtavtw/ rJevon peri; kuklw/ 112e) , poi l’Acheronte che scorre in senso contrario e dopo essersi inabissato finisce nella palude Acherusiade dove arriva la maggior parte dei defunti.
Questi dopo una permanenza sono rimandati tra i viventi
Poi c’è il Piriflegetonte che forma una palude ribollente (cfr. flevgw, brucio)
Poi lo Stige che forma la palude Stigia. (cfr. stugevw, odio)
Viene nominato anche il Cocito (cfr. kwkuvw, grido di dolore) che si getta nel Tartaro dalla parte opposta del Piriflegetonte 113d.

In Dante
il Flegetonte è un lago bollente di color rosso sangue dove sono immersi i violenti (e’ son tiranni/che dier nel sangue e nell’aver di piglio”, XII, 104 - 105.
Deriva dal veglio di Creta, il paese guasto (Inf, XIV 73 sgg.).

L’Acheronte è sulla soglia dell’Inferno. Solo gli ignavi non possono passarlo.
 Lo Stige è una palude, luogo del tormento di iracondi e accidiosi (VII, 106 sgg,). Vidi genti fangose in quel pantano/ignude tutte, con sembiante offeso” (110 - 111)
Il Cocito sta nel cerchio più basso ed è è gelato. Ci sono i traditori (XXXI) (cfr. kwkuvw, piango).
I fiumi infernali escono dalle fessure delle parti di argento, rame, ferro del corpo del gran veglio.

I morti (teteleuthkovte") condotti dal demone vengono giudicati. Alcuni sono vissuti bene e santamente, altri male, altri mediocremente. I mediocri vanno nella palude Acherusiade a purificarsi
Quelli che appaiono incurabili per l’enormità delle loro colpe oi[ d j a[n dovxwsin ajnivatw" e[cein dia; ta; megevqh tw'n ajmarthmavtwn (113e) vengono gettati nel Tartaro da dove non escono più. Ve li getta un destino appropriato (hJ proshvkousa moi'ra rJivptei eij" to; n Tavrtaron) e non ne escono più.
I curabili che si sono pentiti stanno un anno nel Tartaro, poi gli omicidi vanno verso il Cocito, i violenti contro i genitori vanno nel Piriflegetonte. Poi tornano nella palude Acherusiade e chiedono perdono alle vittime. Se le persuadono, passano oltre e smettono di soffrire (ejkbaivnousiv te kai; lhvgousi tw'n kakw'n, 114b) altrimenti tornano nel Tartaro. Quelli vissuti santamente oJsivw" salgono nelle regioni superiori della terra. I filosofi vivono senza corpo in dimore più belle delle altre.
Sostenere questo non si addice a chi ha intelligenza (ouj prevpei nou'n e[conti, 114d, detto ironicamente) , ma siccome l’anima è immortale vale la pena di correre il rischio secondo me moi dokei' kai; a[xion kinduneu'sai. Il rischio è bello kalo; " ga; r oJ kivnduno" 114d e dobbiamo incantare noi stessi con queste cose.
Perciò mi dilungo sul mito: dio; dh; e[gwge kai; pavlai mhkuvnw to; n mu'qon.
Può essere fiducioso per la propria anima l’uomo che ha dedicato la vita all’apprendimento ed è vissuto con temperanza, giustizia, coraggio, libertà.
Io ora sono chiamato dal destino, direbbe un eroe tragico. (115)

Cfr. Lucrezio I tormenti cosiddetti infernali sono qui sulla terra
hic Acherusia fit stultorum denique vita (De rerum natura, III, 1023
Sicché Tantalo rappresenta la paura degli dèi,
Tizio la sofferenza amorosa,
Sisifo l’ambizione del potere,
le Danaidi l’insaziabilità,


Menone
composto nel 387 come manifesto programmatico della scuola.

Imparare è in generale reminiscenza manqavnein ajnavmnhsi" o[lou ejstivn
Socrate dice a Menone che ci sono uomini e donne addottrinati nelle cose divine. L’ha sentito da sacerdoti e sacerdotesse e l’ha letto in Pindaro

Il lirico tebano scrive che nelle isole dei beati spirano brezze dall’Oceano e a[nqema crusou' flevgei 132, ardono fiori d’oro.


Profeti e poeti affermano che l’anima dell’uomo è immortale
 fasi; ga; r th; n yuch; n tou' ajnqrwvpou ei\nai ajqavnaton (81b) . Per questo bisogna vivere una vita il più possibile pia.

Poi cita Pindaro (fr, 133 Maehler): “ manda di nuovo nella luce del sole quelli che hanno pagato il debito dei loro antichi peccati. ”
L’anima dunque ha visto il mondo di qua e quello di là e ha appreso tutto. Ogni vita allora può far riemergere quanto ha appreso nelle precedenti. E siccome tutta la natura è imparentata con se stessa (a[te ga; r th'" fuvsew" ajpavsh" suggenou'" ou[sh", 82d) , ricordare una sola cosa fa emergere tutto il resto se l’anima è coraggiosa e non si stanca di cercare, infatti cercare e imparare è in generale reminiscenza: “to; ga;; r zhtei'n a[ra kai; manqavnein ajnavmnhsi" o[lou ejstivn (81d)
Allora non dobbiamo affidarci a questo ragionamento eristico (ou[koun dei' peivpesqai toutw// ejristikw/' lovgw

giovanni ghiselli

 

lunedì 23 maggio 2016

L'estate del 1979 a Debrecen. IX parte

Mosaici di Piazza Armerina
La piscina di Debrecen


Nel pomeriggio ero andato in piscina per non perdere l’abbronzatura presa al mare con Ifigenia. Prendevo il sole e leggevo Proust, quando Alfredo mi venne vicino e con un sorriso maligno disse: “Se la tua fidanzata è di parola e, come hai detto che siete d’accordo, ti dà tempestiva notizia delle corna che ti mette, puoi stare sicuro che fino a un paio di giorni fa non ti ha tradito, perché in collegio non c’era posta per te”.
Poi mi indicò una donna giovane, molto, bionda ma bella, un’inserviente che aveva conosciuto in cucina e invitato in piscina: era stesa su un asciugamano rosso orlato di giallo non lontana da noi; ci guardava non senza sorrisi con il viso poco abbronzato e con tutto il corpo ben fatto: snello, slanciato e formoso. Incarnava l’idea della femmina umana fiorente, un po’ come la mia compagna, ma in versione scolorita e un tantino plebea.
Gli occhi azzurri li aveva . Troppo chiara rispetto ai miei gusti.

“Vedi quella? - fece Alfredo non senza malizia - è un bel bocconcino. Io la punto. Io so’ sincero, Gianni, sono venuto qua per fare sesso. Quella ci sta”. Invero, data la scarsa esperienza e l’avvenenza non travolgente del vecchio amico, la previsione non mi sembrò del tutto realistica.
Lo guardai per dirgli che la cosa non mi riguardava punto, ma lui continuò: “Tu Gianni fai l’anacoreta pazzo qui a Debrecen dove il buon Dio ci ha riuniti per scambiare piacere e amore con le ragazze d’Europa: quella è una slava di Novi Sad e ha una sorella. Ancora più bella e non meno disponibile. Possiamo spassarcela in quattro, allegramente”.
“Un’altra volta”, gli dissi.
“Va be’, ma la prossima volta che vieni in questo paradiso dell’amore, cerca di non portarti dietro problemi di fedeltà. Ti ricordi l’angoscia del ’73 per l’Esmeralda, l’etera Esmeralda come l’hai chiamata più tardi?
Se non te ne liberavi in tempo, pensa, non beccavi la Päivi, il grande amore del ’74”.
“Sì, tu non hai tutti i torti, amico mio, ma l’Esmeralda con tutti i sui difetti mi è servita a tenere i contatti con Bologna durante l’esilio, mi ha dato una mano per uscire dalla scuola media di Carmignano di Brenta dove cominciavo ad ammuffire. Perfino il lavoro mi ha aiutato a trovare”
“E Ifigenia che cosa ti fa trovare?”
“Qualche cosa di sano e di forte dentro di me. Senti, Alfredo, noi siamo amici e io mi trovo bene con te. Non ho dimenticato la tua generosità in diverse occasioni. Come quando venisti all’aeroporto di Rimini a salutarmi e incoraggiarmi mentre partivo per la Finlandia, incerto sul da farsi con Päivi incinta. Portasti perfino un regalo per lei. Poi quella storia non finì bene, come sai, ma il tuo gesto fu nobile e io te ne sono grato. La mia fedeltà però, almeno per qualche tempo, lasciala perdere. Non me la sento di comportarmi diversamente da come ho deciso e ho promesso: mi sentirei un buffone, ne andrebbe della mia identità.
Avrei paura di trasformarmi in un cane, o in un altro quadrupede, che quando vede la bellezza, invece di contemplarla e onorarla, cerca di montarci sopra per ricavarne piacere e magari seminare tante piccole bestie. Non sono un animale e nemmeno un funzionario della specie.
Anche tu del resto hai l’età per prendere sul serio te stesso e gli altri. Quella ragazza bionda potrebbe esserti figlia; trattala con ogni riguardo, da quel signore che sei”.

“Ho capito. Ti saluto”, disse e desistette. Mi guardò immusonito e tornò dalla sua bella. Non ci provò più, con me dico, ma quando, con il volgere delle stagioni, gli dissi come era andata a finire la storia che ora sto raccontando a voi, lettori, fece: “Non te la prendere Gianni: pensa al ricevimento del Rettore dove hai beccato la Päivi, o alla festa della conoscenza dove Eros raduna femmine e maschi umani perché si amino, dove hai conosciuto Helena e Kaisa, tre donne che se non sbaglio sono state le donne più importanti della tua vita, se non altro per la costruzione della tua identità. Pensa a quante puoi trovarne ancora fino ai settanta anni e oltre, sempre che tu non venga paralizzato da scrupoli assurdi e ubbie prive di senso. Le donne vanno trattate come loro trattano noi. Né più né meno. Ti hanno tradito o lasciato quasi sempre, ora sta a te.”
“Sarebbe bello che ci trattassimo bene a vicenda, e io lo spero ancora”,
risposi con il barlume di ottimismo che mi era rimasto dopo tante vicende, non tutte gioiose e belle.



giovanni ghiselli



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sabato 21 maggio 2016

Twitter, CCXXI antologia. In morte di Marco Pannella

Vedo voraci mascelle antropofaghe chine su greppie intrise di sangue.

Il sapere di troppi professori non è sapienza. Il potere dei politici non è  potenza. Quasi mai.

A me le intercettazioni non fanno paura né danno fastidio.
Perché a Renzi sì? Domanda retorica

I "probiviri" e le "biancaneve" del parlamento: l'apparenza spesso violenta la verità

Buon sangue non mente dice il luogo comune. La Boschi lo ha incarnato cercando di rubarci il diritto di contrastare le brame di potere del suo idolo.

Cara Maria Elena etrusca dal dolce sorriso, sei di buon sangue: con il tuo babbo è fallita la banca dell’Etruria, con te fallirà il referendum dell’ etrusco Renzi. Ne sono sicuro.

Quintessenza del “pannellismo”: è vietato vietare. Per questo Marco Pannella è piaciuto a molti, pure a me quando ero giovane assai.
L’ho perfino votato in tempi molto lontani.
Poi basta: io sono per il divieto  di ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Mi dispiace comunque che sia morto.


giovanni ghiselli

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Introduzione alla tragedia greca: Sofocle. Parte I


Sofocle
Sommario
Vita e opere. L’assenza della misura è la radice di ogni male. L’u{bri~ fa crescere la mala pianta del tiranno. La devozione verso gli oracoli, prima di tutti quello delfico. L’eujkoliva e la qeofiliva di Sofocle. Il suo debito a Omero. La critica elogiativa dell’Anonimo Sul sublime. L’ambiguità dell’affabulazione sofoclea. L’ironia tragica. La forza dei legami di sangue. L’arcaismo di Sofocle. L’umanesimo di Sofocle. Le Trachinie: Il tema della moglie trascurata e oltraggiata che cerca di recuperare il marito assenteista e infedele.

Sulla vita di Sofocle riferisco i dati che possono avere influenzato l'opera o impressionato la critica. Nato nel 497 - 496 da famiglia agiata, nel 480 guidò il coro dei giovinetti che celebrarono la vittoria di Salamina danzando e cantando un peana ad Apollo. Fruì di un'accurata educazione ginnica e musicale, tanto che poté recitare nei suoi drammi, interpretando la parte di Tamiri cui spettava suonare la cetra, e quella di Nausicaa impegnata a danzare lanciando la palla. Rimase quasi sempre ad Atene, dove partecipò alla vita politica fra i dirigenti della città. Nel 442 fu ellenotamio, uno degli amministratori della confederazione delio - attica; nel 441, in seguito al successo dell'Antigone, fu eletto fra i dieci strateghi, e fu stratego anche una seconda volta, nel 427, con Nicia. Queste notizie significano che nemmeno Sofocle fu l'intellettuale da tavolino, come sarà lo scrittore bibliotecario di Alessandria, anticipato in qualche modo da Euripide che nelle Baccanti del resto arriverà al disgusto del sapere libresco e cerebrale:" to; sofo;n d j ouj sofiva (v.395), il sapere non è sapienza. E’ quella che T. Mann chiama “nausea del conoscere”[1].
Nel 413, dopo la catastrofe della spedizione in Sicilia, Sofocle fece parte del collegio dei Probuli che prepararono il governo oligarchico dei Quattrocento. Verso la fine della vita venne citato in giudizio dal figlio Iofonte per demenza senile. Il vecchio recitò il primo stasimo del suo ultimo dramma, l'Edipo a Colono, quale prova che non aveva perduto il senno. Naturalmente fu assolto. L'episodio è raccontato in modo sintetico e vivace da Apuleio nell' Apologia:"Sophocles poeta Euripidi aemulus et superstes, vixit enim ad extremam senectam, cum igitur accusaretur a filio suomet dementiae, quasi iam per aetatem desiperet, protulisse dicitur Coloneum suam, peregregiam tragediarum, quam forte tum in eo tempore conscribebat, eam iudicibus legisse nec quicquam amplius pro defensione sua addidisse, nisi ut audacter dementiae condemnarent, si carmina senis displicerent. Ibi ego comperior omnis iudices tanto poetae assurrexisse, miris laudibus eum tulisse ob argumenti sollertiam et coturnum facundiae, nec ita multum omnis afuisse quin accusatorem potius dementiae condemnarent"(37), il poeta Sofocle, rivale di Euripide e a lui sopravvissuto, arrivò infatti fino alla vecchiaia estrema; allora accusato di demenza dal suo stesso figlio, come se per l'età oramai vaneggiasse, si dice che abbia presentato il suo Edipo a Colono , ottima tra le tragedie, che egli componeva appunto in quel tempo, e l'abbia letta ai giudici, aggiungendo a propria difesa nient'altro che osassero condannarlo per pazzia se dispiacevano i versi del vecchio poeta. Trovo scritto che tutti i giudici si levarono in piedi davanti a tanto poeta, esaltandolo per la bravura della trama e la grandiosità dello stile tragico, e non mancò molto che piuttosto condannassero l'accusatore per demenza.
Morì nel 406, poco dopo Euripide, per la cui scomparsa durante il proagone delle Dionisie fece recitare il coro e gli attori in abito da lutto e senza corona. Dopo la morte fu onorato come eroe Dexion, l'Accoglitore, poiché aveva partecipato al culto di Asclepio, il dio risanatore, ospitandone in casa la statua quando questa fu portata da Epidauro ad Atene. Un segno della sua pietas e della sua lontananza dalla medicina scientifica.
Il Dioniso delle Rane di Aristofane rivela che il poeta conservò anche dopo la morte quello spirito equilibrato e sereno che lo aveva caratterizzato sulla terra:"oJ d j eu[kolo" me;n e[nqavd j, eu[kolo" d j ejkei'", egli è di buon carattere qua come lo era là (v.82).
I drammi sofoclèi danno insegnamenti: prima di tutto vogliono indicare a dito[2] la necessità di mantenere viva la religione delfico - apollinea e di credere nella santità dei precetti pitici:"Conosci te stesso" e "Nulla di troppo".
Hillman nota che Goethe irrise il primo questi precetti: “Conosci te stesso? Se io conoscessi me stesso, scapperei a gambe levate”[3].
Tutta l'opera di Sofocle indica l' u{bri", la prepotenza, come madre della tirannide[4] e di ogni dismisura. "Non invano il coro della tragedia sofoclèa parla sempre dell'assenza di misura quale radice di ogni male"[5]. Secondo il poeta, nel cosmo c'è un ordine, più grande e più vero di quello delle leggi scritte dagli uomini ed essi devono comprenderlo e rispettarlo.
"Il destino dell'uomo è inserito nell'ordine divino del mondo; e quando l'ordine divino e il disordine umano vengono al cozzo, si sprigiona la scintilla della tragedia. …In base a tutti i drammi di Sofocle risulta evidente che le leggi non scritte non sono costituite esclusivamente né dalle tradizioni familiari né dal rituale mortuario. Le leggi non scritte regolano l'intero ordinamento divino del cosmo" [6].
“Ogni respiro che facciamo lo prendiamo dal cosmo. Inaliamo la sua aria; parliamo con il suo fiato; il suo pneuma è la nostra ispirazione. La parola “cosmo” indica un mondo conformato dall’estetica. “Cosmesi” e “cosmetica”, che derivano dal greco kovsmo~, alludono al significato greco originale, quando la parola rimandava alle vesti delle donne, alla decorazione e agli abbellimenti, a tutto ciò che è idoneo, ordinato, arredato e ben disposto, con connotazioni etiche di proprietà, decenza, onorabilità. L’immaginazione estetica è la modalità primaria di conoscenza del cosmo e il linguaggio estetico il modo più appropriato per formulare il mondo”[7].
“L’impressione di compostezza, di equilibrio, di lucida razionalità che molte rheseis sofoclee ci trasmettono è in realtà il frutto della somma perizia del poeta, il prodigio di una genialità espressiva capace di tradurre in forme di austera e semplice eleganza sentimenti, passioni e tensioni di eccezionale intensità”[8].
Sentiamo Thomas Mann a proposito della visione religiosa di Giacobbe e di suo figlio Giuseppe: “la convinzione che una vita e un accadere, i quali non possono legittimarsi con una realtà superiore, che non si fondino e non si appoggino su elementi sacri e noti, che si dimostrino incapaci di rispecchiarsi e di riconoscersi nel divino, non sono né vita né accadere; la convinzione, quindi che quel che accade quaggiù non saprebbe accadere né si sognerebbe mai di accadere se non avesse il suo modello e il suo corrispettivo astrale, era in lui non meno profondamente radicata che nel padre; l’unità nella dualità, l’eterno presente della sfera che eternamente si volge, la commutabilità del mondo celeste e del terrestre, che permette all’uno di convertirsi nell’altro e agli dèi di trasformarsi in uomini ma anche agli uomini in dèi, tutto questo costituiva anche per lui la certezza di fondo della vita”[9].
La forma di u{bri" segnata a dito da Sofocle è la presunzione intellettuale che costituisce il vero peccato di Edipo il quale crede troppo nella propria intelligenza e, istigato per giunta dalla madre, arriva a bestemmiare gli oracoli. Uno dei centri ideologici del dramma è costituito dai versi 396 - 398:"arrivato io,/ Edipo, che non sapevo nulla, lo feci cessare/ azzeccandoci con l'intelligenza (gnwvmh/// kurhvsa" ) e senza avere imparato nulla dagli uccelli".
Questa affermazione di autonomia, per Sofocle, poeta tradizionalista e pio, è dismisura, prepotenza, cecità mentale e morale che fa crescere la mala pianta del tiranno (v.873), il quale, salito su fastigi altissimi è però, destinato a precipitare nella necessità scoscesa[10] dove non si avvale di valido piede, ajpovtomoneij~ ajnavgkan e[nq j ouj podi; crhsivmw/ - crh'tai" (vv. 877 - 879). Vedremo che il despota è spesso affetto da zoppia, quanto meno mentale, ma non solo, e che la tirannide è una “sovranità claudicante” [11].
Anche Mefistofele del Faust di Goethe è zoppo, per via di un piede equino. Nella taverna di Auerbach a Lipsia, uno dei goliardi buontemponi, come le vede entrare, domanda: Was inkt der Kerl auf einem fub in?, come mai zoppica da un piede quello?



continua


[1] Tonio Kröger, 4.
[2] "Non andrò più all'intangibile/ ombelico della terra a pregare,/ né al tempio di Abae,/ né a Olimpia, /se queste parole indicate a dito (ceirovdekta)/ non andranno bene a tutti i mortali" canta il Coro nel Secondo Stasimo dell' Edipo re. (vv.897 - 902).
[3] J. Hillman, La forza del carattere, p. 207.
[4] u{bri" futeuvei tuvrannon, (Edipo re , v. 873), la prepotenza fa crescere il tiranno.
[5]Jaeger, Paideia 1, p. 481.
[6]V. Ehrenberg, Sofocle e Pericle , p. 40 e p. 49.
[7] J. Hillman, La forza del carattere, p. 254.
[8] Di Marco, Op. cit., p. 225.
[9] T. Mann, Il giovane Giuseppe, p. 234 - 235
[10] Troviamo un locus analogo nel primo coro dell'Agamennone di Seneca quando le donne di Micene notano che la Fortuna/ fallax (vv. 57 - 58) inganna con grandi beni collocandoli troppo alti in praecipiti dubioque (v. 58), in luogo scosceso e insicuro. Infatti le cime sono maggiormente esposte alle intemperie, ai colpi della Fortuna, e predisposte alle cadute rispetto alle posizioni medie:"quidquid in altum Fortuna tulit,/ruitura levat./Modicis rebus longius aevum est;/felix mediae quisquis turbae/sorte quietus…" (vv. 101 - 104), tutto ciò che la Fortuna ha portato in alto, per atterrarlo lo solleva. E' più lunga la vita per le creature modeste: fortunato chiunque sia della folla mediana contento della sua sorte.
La caduta dall'alto è prevista dal Viceré del Portogallo in La tragedia spagnola di Thomas Kyd (del 1585) :"Sciagurata condizione dei re, assisi fra tanti timori senza rimedio! Prima, noi siam posti sulla più eccelsa altezza, e spesso scalzati dall'eccesso dell'odio, ma sempre soggetti alla ruota della fortuna; e quando più in alto, non mai tanto godiamo quanto insieme sospettiamo e temiamo la nostra rovina" (III, 1).
Non solo nella tragedia il potere è malvisto da Seneca: nel De brevitate vitae troviamo l’immagine di Augusto che, come altri potenti, desidererebbe discendere dalla sua sommità: “cupiunt interim ex illo fastigio suo, si tuto liceat, descendere; nam, ut nihil extra lacessat aut quatiat, in se ipsa fortuna ruit " (4, 1, 2), desiderano talora discendere da quel culmine, se fosse possibile farlo senza pericolo; infatti posto che nulla dall'esterno la minacci o scuota, la fortuna implode da sola.
Del resto Proust ci ricorda che la vecchiaia fa precipitare tutti:"la vecchiaia... è pur sempre lo stato più miserando per gli uomini, e che li precipita dai loro fastigi a somiglianza dei re delle tragedie greche" Il tempo ritrovato , p. 359. 
[11]Vernant e Vidal - Naquet, Mito e tragedia due , p. 49.