NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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giovedì 28 settembre 2017

Il clientelismo e la raccomandazione sono antichi vizi italici

Un bravo docente è una brava persona.
Brava nel suo lavoro con il quale deve accrescere le conoscenze degli allievi attraverso il suo sapere coltivato con lo studio, con l’apprendimento e con l’intelligenza, poi deve suscitare energie morali nei giovani, e raffinarne il gusto. Insomma comunicare conoscenze, valori etici ed estetici. Deve amare la sua disciplina e amare i discepoli.
Come mai ora ci troviamo di fronte questa scuola disastrata a tutti i livelli? Per quanto riguarda i licei, dove ho insegnato durante una quarantina di anni, il problema di fondo è la scarsa preparazione di molti, troppi professori. Una volta questi venivano controllati ed eventualmente rifiutati non solo da prove piuttosto dure, a partire dall’esame di maturità, ma anche dagli stessi studenti che leggevano e studiavano assai più di oggi.

La mia esperienza è relativa al liceo classico dove ho insegnato latino e greco.
Per quanto riguarda l’Università, ho esperienza di corsi che ho tenuto, a contratto, nelle SSIS, per dieci anni a Bologna, per un trimestre a Urbino, per un altro a Bressanone. Ora tengo conferenze e corsi in biblioteche, licei, e università.
Nelle SSIS dovevo insegnare a insegnare, un mestiere che ho dovuto imparare sul campo. Molto ho imparato dai miei studenti: homines dum docent, discunt.
Dai non molti contatti avuti con i “baroni” devo dire che ne ho incontrati di vario livello culturale e umano. Posso aggiungere che ho ricevuto qualche aiuto da alcuni docenti ordinari illuminati senza che avessi nulla da poter dare in cambio, proprio nulla, a parte lezioni seriamente preparate per gli studenti. Avevano capito, anche dalle mie pubblicazioni, che studiavo molto e sapevano che ero stimato da chi mi ascoltava.
Sono certo del resto che gran parte dei concorsi in Italia vengono truccati se aprono le porte a posti di privilegio e di potere.

Ma facciamo un poco di storia per i più giovani: "Nescire quid ante quam natus sis acciderit, id est semper esse puerum" ( Cicerone, Orator 120), non sapere che cosa sia accaduto prima che tu sia nato equivale ad essere sempre un fanciullo.
Il vizio tipicamente italico della raccomandazione secondo me risale al rapporto patrono cliente codificato già nelle leggi delle XII tavole del 451-450 con queste parole: Patronus si clienti fraudem fecerit, sacer esto " (VIII, 2) sia maledetto il patrono se ha commesso una frode contro il cliente.
Tito Livio, sotto Augusto, il princeps che voleva ripristinare gli antiqui mores, celebra questo antico codice definendolo fons omnis publici privatique iuris ( Ab urbe condita libri III, 34, 6), fonte di ogni diritto pubblico e privato.
Virgilio, un altro autore che sostiene il potere di Augusto e gli fa una propaganda smaccata, con uno stile egregio del resto, caccia nel Tartaro tra i grandi peccatori quelli dai quali è stata ordita una frode al cliente: hic quibus (…) fraus innexa clienti (Eneide VI, 608-609). E’ il completamento “squisitamente” italico che il Mantovano fa all’elenco dei peccatori presente nelle Rane di Aristofane (vv. 145-150).
Nell prima Bucolica Virgilio racconta la storia di una raccomandazione: dialogano due pastori uno dei quali ha perso per sempre la sua terra, l’altro l’ha recuperata grazie a un incontro fatto a Roma con un uomo di potere. Dunque il clientelismo con l’annessa raccomandazione è un proprium et peculiare vitium della nostra gente.

La maggior parte delle leggi restano lettera morta ma la raccolta più antica, questa arcaica culla e fonte del clientelismo, è rimasta vigente.
“Il rapporto clientelare si configura come un’organizzazione mafiosa che garantisce l’omertà, e il successo dei disonesti”, ebbe a scrivere Luciano Perelli[1].
Tra gli articoli comparsi oggi ho apprezzato in particolare quello di Tomaso Montanari che chiede una levata di scudi da parte dei professori onesti i quali dovrebbero costituirsi parte civile nei processi che probabilmente si faranno “per far capire senza equivoci che le vittime non sono solo i meritevoli umiliati ed esclusi, ma tutta la comunità universitaria”.
Mi scuso per avere parlato di me stesso ma ho voluto significare che le mie osservazioni hanno un fondamento in una lunghissima esperienza della scuola di ogni ordine e grado: la frequento dal primo ottobre del 1950 e non ho ancora smesso perché l’ho sempre amata. Se avrò un’altra possibilità su questa terra, rifarò tutto quello che ho fatto, magari anche meglio.



giovanni ghiselli

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Queste sono le visite di oggi
Stati Uniti
474
Italia
79
Spagna
13
Francia
4
Irlanda
4
Germania
3
Perù
2
Portogallo
2
Taiwan
2
Cina
1

Queste sono le visite di sempre dei primi 10 paesi (media 120 mila all’anno).
Stati Uniti
321438
Italia
203148
Russia
13148
Germania
3695
Ucraina
2574
Cina
2524
Francia
2438
Regno Unito
2386
Spagna
914
Portogallo
853






[1] La corruzione politica nell’antica Roma, p. 31

mercoledì 27 settembre 2017

Twitter, CCLXXXVIII sunto. L’Università come mafia istituzionalizzata



L’Università come mafia istituzionalizzata

Ma guarda che sorpresa! Chi avrebbe mai potuto sospettare che i concorsi fossero truccati e che l'Università fosse la mafia istituzionalizzata? Nessuno naturalmente ci aveva mai pensato prima.
 Ora ci sono i farmakoiv.

I farmakoiv sono le medicine umane, i capri espiatòri che pagano per tutti gli altri faccendieri dell’istruzione, che sono molti, se non proprio tutti.

L'uomo politico e pure l’educatore deve rendere un servizio alla società sottoponendosi ai sacrifici di una dura disciplina di studio e di rinunce al privato.

Probabilmente i farmakoi  incriminati sono, tra i colpevoli, quelli meno attrezzati per reagire con difese che accusino altri e sconvolgano il sistema.

Il sistema clientelare diffuso dappertutto in Italia annienta il merito e spinge i meritevoli all'estero. Ma i media sono cauti, quasi reticenti, poiché il sistema non deve saltare. Salterebbero i privilegi delle varie caste se ci fosse il disvelamento, la non latenza della verità (ajlhvqeia appunto: aj-privativo e lanqavnw, “rimango nascosto).

La corruzione dilaga dove non c'è opposizione al potere, il sacrosanto ius intercedendi, il diritto di veto (intercessio) dei tribuni della plebe, oppositori disposti anche al sacrificio come i Gracchi.

giovanni ghiselli

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martedì 26 settembre 2017

Ifigenia. La fine, quasi lieta, del rimuginare

Ananke
La fine, quasi lieta, del rimuginare

Quei giovani contenti, festivi, e pure educati, suscitavano la mia simpatia, oramai quasi paterna. Sentivo anche una certa malinconia siccome non ero più capace di provare le scosse emotive che mi avevano le tre finlandesi di cui ho raccontato le storie che mi avevano reso felice per tre mesi negli anni di mia salvazione 1971, 72, 74; la forza dei miei sensi amorosi era ormai tutta impiegata nel tentativo di risolvere gli enigmi di quella sfinge lontana che mi occupava l’anima intera: le sue parole ambigue, i suoi ostinati, misteriosi silenzi mi impedivano di interessarmi ad altre persone.

Perché mi interessava tanto colei?
Pensavo che Ifigenia equivalesse alla Necessità che ha la forza suprema, l’Ananche sulla quale neppure Zeus può averla vinta.  Senza quella donna in quel tempo mi sarei trovato nel vuoto di pensieri concreti, di desideri forti, di impegni reali. Gli amori mestruali con le straniere, o con le italiane in vacanza, non mi interessavano più. Nemmeno la luce della luna che faceva brillare i capelli odorosi delle ragazze, rischiarava le alte chiome delle querce antiche e illuminava i rami contorti degli alberi strani mi commuovevano, né mi facevano sentire vivo come il pensiero di Ifigenia che mi invadeva l’anima. Se lei mi avesse spedito tre righe mi avrebbe reso felice più di una vittoria olimpica o di un trofeo letterario. Non ero ancora abbastanza pratico della vita per avere capito che se volevo essere privo di turbamenti non dovevo fare dipendere il mio benessere dal favore di un’altra persona, chiunque, qualunque ella sia. Ora lo so. Sentivo solo che in ogni maniera, spogliandosi davanti a me, certo, ma anche non scrivendomi e non facendosi trovare in casa, quella donna mi emozionava e disannoiava. Perciò mi sforzai di pensare che non mi stesse tradendo, che presto, la mattina seguente, avrei ricevuto la posta agognata. Del resto, anche se mentiva, tradiva, non mi scriveva, nell’anno di grazia 1979, era lei, solo lei, la persona che poteva farmi procedere, metodicamente, sulla mia via[1]. Se non fosse stato così, non ne avrei sofferto la mancanza in quella maniera. 
Pensavo pure, e questo realisticamente, che Ifigenia, anche se, come probabile, non mi amava, non mi avrebbe lasciato, siccome nel suo opportunismo capiva che il mio bisogno di lei era anche una necessità di darle una mano della quale aveva necessità. E ne faceva gran conto. Con tali pensieri cercavo di smaltire la pena. Mi vennero in mente i momenti migliori dei mesi belli passati insieme, quando la gioia incrementava e potenziava le vite nostre, reciprocamente. Non dovevo rinnegare tanta grazia ricevuta da quella giovane donna e da Dio, chiunque egli fosse, per una lettera che ritardava. Non volevo, e non potevo drizzare la prua della mia vita contro l’onda del fato.

“Sii nobile - mi dissi alla fine di tanto rimuginare - ama il demone tuo. Tu sei il tuo destino. E lei ne fa parte. Non puoi non amare il tuo fato se ami te stesso. A un certo punto non ci saranno più dubbi e allora sarà tutto finito, ma ora i giochi non sono chiusi per sempre. Tu hai ancora bisogno di lei e lei di te, altrimenti ti avrebbe già liquidato, come fece con il suo ex quando ti ha conosciuto”.
Intanto, mentre i giovani fusi per herbam , raggruppati per lingua e nazione, cantavano a turno le canzoni dei loro flolclori nazionali e l’amabile luna seminava una rugiada di perle sui capelli, sulle braccia e sulle gambe abbronzate delle fanciulle,  io avevo annientato ogni angoscia autorizzando il mio istinto con l’esperienza, con l’intelligenza e con il doloroso amore della  vita, la mia e quella dell’universo.

giovanni ghiselli, detto gianni, il poverello di Pesaro.



[1] Rispetto a “metodicamente” è una tautologia voluta: oJdov" infatti significa “via” 

lunedì 25 settembre 2017

La Commedia antica. Aristofane: “Le Rane”. III parte

Cratete di Tebe
dipinto da Luca Giordano


La canzonatura (to; skwvptein) era una componente essenziale e gradita al pubblico.
Autori successivi a questi furono Cratete e Cratino.

Aristotele dice che Cratete abbandonò per primo la commedia di invettiva, dal motteggio aggressivo, e trattò argomenti generali (Kravthς prw'toς ajfevmenoς th'ς ijambikh'ς ijdevaς Poetica, 1449b). Riportò la prima vittoria nel 449.
Aristofane nei Cavalieri ricorda che " con piccola spesa offrendovi la colazione vi congedava, impastando dalla bocca squillante pensieri pieni di urbanità (mavttwn ajsteiotavta" ejpinoiva", 539), e, forse per questo, ebbe a subire ire e maltrattamenti del pubblico, pur senza cadere sempre ma restando anche in piedi (tote; de; pivptwn, tote; d j oujciv, 540).

Con Cratìno siamo arrivati alla triade canonica dei massimi autori del dramma attico consacrati da Orazio in un famoso esametro: "Eupolis atque Cratinus Aristophanesque poëtae " (Satire, I, 4, 1).
Orazio prosegue dicendo di questi autori della commedia antica: “si quis erat dignus descrībi quod malus aut fur-quod moechus foret aut sicarius aut aliōqui-famosus multa cum libertate notabant” (vv- 3-5). Lucilio li seguì ma scorreva lutulentus, limaccioso “nam fuit hōc vitiosus: in hora saepe ducentos versus dictabat stans pede in uno” (9-10).
Cratìno è il più anziano dei tre. Anche della sua decadenza Aristofane parla nei Cavalieri ricordando che un tempo fioriva (530), ma oramai[1] si ritrova
 "con una corona secca in testa e morto di sete" (divyh/ d j ajpolwlwv", v. 534), lui che per le antiche vittorie meritava di bere nel Pritaneo. Cratino però era ancora capace di vincere e nell'agone del 423 non solo si difese dalle accuse di Aristofane ma sconfisse le Nuvole del rivale più giovane con il Fiasco (Putivnh), un'autocanzonatura nella quale la Commedia, moglie legittima del poeta lo accusava di tradirlo con l'Ebbrezza, di correre dietro ai vinelli giovani, ed egli rispondeva che un bevitore d'acqua non avrebbe potuto creare mai niente di bello.
E' interessante il fatto che Cratino osò prendere di mira Pericle accusandolo di fomentare la guerra in combutta con Aspasia e sfottendolo con il chiamarlo "Zeus dalla testa di cipolla", un epiteto che metteva in caricatura la forma allungata del suo cranio. Interessante è anche il verbo coniato da Cratino: eujripidaristofanivzein, "euripidaristofaneggiare" per significare che i due autori non erano poi tanto diversi quanto voleva fare credere il commediografo il quale nelle Rane renderà omaggio al collega già morto chiamandolo: "Cratino il divoratore del toro" (Taurofavgo" v. 357), per esaltare la sua vocazione dionisiaca con un epiteto che veniva attribuito allo stesso Dioniso.
Cratino


Eupoli era coetaneo di Aristofane, nacque dunque intorno alla metà del V secolo, ma morì diversi anni prima del collega (intorno al 410): una leggenda tramandata da Cicerone in una lettera ad Attico (VI, 1, 18) narra che secondo parecchie testimonianze fu gettato in mare da Alcibiade mentre navigava verso la Sicilia (ab Alcibiade navigante in Siciliam deiectum esse in mare). Cicerone non dà la notizia per certa, sebbene molto divulgata
Alcibiade viene presentato come damerino eccentrico nella commedia gli Adulatori che criticava i sofisti riuniti nella casa del ricco Callia, la dimora dove è pure ambientato il Protagora di Platone e il Simposio di Senofonte.
Alcibiade non fu l'unico capo di parte democratica a costituire un bersaglio per gli strali di Eupoli che, di tendenza conservatrice al pari di Aristofane e Cratino, se la prese con i più noti demagoghi: con l'Età dell'oro (del 424) attaccò Cleone divenuto il beniamino del popolo dopo il successo di Sfacteria (425) e dopo avere portato la paga eliastica da due a tre oboli; più tardi, morto il becero cuoiaio ad Anfipoli (nel 422), Eupoli levò le armi della parola contro il nuovo trascinatore della massa, Iperbolo, nel Maricante (del 421), nome di un noto invertito ateniese.
 Con Aristofane dunque Eupoli condivise l'ideologia, ma i due drammaturghi si scambiarono anche accuse di plagio: il primo nelle Nuvole accusa il rivale di avere saccheggiato i Cavalieri:
"Eupoli per primissimo portò in scena il Maricante travestendo i miei Cavalieri malamente il maligno con l'aggiunta di una vegliarda ubriaca che ballava il trescone" (vv. 553-555). Questa sarebbe stata la madre di Iperbolo.
 Eupoli del resto nei Battezzatori affermò di avere scritto personalmente una parte dei Cavalieri.
L'ultima commedia di questo autore fu i Demi (del 412) dove c'è il motivo che si ritrova nelle Rane: quello di riportare sulla terra dei morti: in questo caso i grandi politici del passato: Solone, Milziade, Aristide e Pericle che veniva rivalutato rispetto ai Prospalti la sua prima opera (429 a. C.), dove usò l'amante straniera di Pericle, Aspasia, come capro espiatorio per la guerra del Peloponneso, confrontandola con Elena di Troia
 Come si vede la parrhsiva, libertà di parola e di critica non aveva limiti e i commediografi potevano prendersela con i potenti anche in tempo di guerra.


CONTINUA



[1] Siamo nel 424. 

domenica 24 settembre 2017

Max Pohlenz, "La Stoa". Lettura commentata. XV parte

Panezio


Il bene morale si dentifica con il bello. L’anima bella e armoniosa si manifesta nelle parole e negli atti dell’uomo che la possiede. Non condivise il dogma democratico dell’uguaglianza degli uomini, ma ne notò la naturale differenza (p. 409). L’uomo non porta una sola maschera provswpon, persona sulla scena della vita. Una è quella di uomo in generale, una è quella della disposizione individuale, altre le impongono le circostanze della vita. Panezio scrisse il Peri; tou' kaqhvkonto" perché servisse alla vita pratica. Il dovere è la sovranità della ragione sugli istinti.
Il dovere tiene conto anche della personalità individuale: una persona di un certo rango deve avere p. e. una lingua scelta e non deve mettersi a correre per la strada (p. 410).
La frovnhsi" è la scienza del retto operare. La virtù fondamentale è la socialità, come giustizia che dà a ciascuno il suo e come collaborazione al benessere della comunità.
Una virtù cardinale è la megaloyuciva, la magnanimità, un atteggiamento di superiorità di fronte alle cose esterne che non devono determinare il nostro stato d’animo. La magnanimità non deve essere asservita all’ambizione personale ma rendersi utile all’interesse collettivo. Servire la comunità avendo posti di comando è un alto dovere morale
La swfrosuvnh, la salute mentale, ci comunica la coerenza, l’oJmologiva.
Noi siamo contenti quando vediamo in noi stessi un’opere d’arte con un bello stile, affabilità, garbo, gusto nel vestire, insomma nella persona il riflesso esterno della sua bellezza interiore. Cfr. Cicerone Off. I, 93 - 151
Con espressioni simili Plutarco descrive la compostezza e la coerenza dell’olimpico Pericle.
Di Pericle, Plutarco scrive che si meritò il soprannome di Olimpio perché mostrava un carattere buono eujmene;" h\qo" e una vita capace di restare pura e priva di macchie kai; bivon kaqaro;n kai; ajmivanton, pur nel potere ejn ejxousiva/ (Vita di Pericle, 39, 2). Parlava con un’eloquenza immune da ciarlataneria, con il volto composto che mai cedeva al riso, la sua andatura era calma, era elegante con semplicità, non si scomponeva mai (5). Poi era palesemente incorruttibile e superiore al denaro (15, 3).
Insomma la megaloyuciva, la magnitudo animi è una ejpisthvmh h] e{xi" uJperavnw poiou'sa twn sumbainovntwn koinh'/ fauvloi" te kai; spudaivoi", è una scienza o una dote che rende superiore alle cose che capitano agli sciocchi come ai seri (412).

Pericle era stato un vero capo della polis e dell’impero ateniese, ma la figura del capo non poteva più essere individuata nei politici dei piccoli Stati greci, bensì negli uomini che reggevano l’impero romano, particolarmene Scipione (Emiliano) che Panezio propose come modello. Riuniva in sé quelle dignità intima ed esteriore che Panezio stesso perseguiva. Inoltre incarnava l’aijdwv", verecundia, il rispetto per la sensbilità morale ed estetica del prossimo. Per questo a Panezio riscivano sgraditi i Cinici i quali volevano abolire il pudore e offendevano di proposito il decorum (il ; prevpon di Panezio).
L’attività di comando presuppone la disinteressata dedizione al bene collettivo (p. 414).
Panezio scrisse per educare gli aristocratici romani. Voleva indicare alla loro magnanimità l’associarsi di politica e filanqrwpiva. (p. 414)
Cicerone, seguendo Panezio, scrive che lo Stato è coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus (Rep. I, 39), una riunione di gente associata da un accordo sul diritto e dalla comunanza di interessi.
Est igitur res publica res populi.
Non è uno Stato la comunità il cui governo non abbia come scopo l’utilità di tutti il koino;n sumfevron, e non riconosca l’uguaglianza di tutti davanti alla legge.
Polibio elogiava la costituzione di Roma dove il popolo aveva il diritto elettorale ma era controllato da magistrati provvisti di poteri monarchici e governato dal senato aristocratico. La mikth; politeiva però gli fu probabilmente indicata da Panezio.
Da Platone, Panezio prese l’idea che ad ogni cittadino vada assegnato il posto in cui può operare nel modo migliore al servizio dell’insieme. La simpatia per il diritto del Romano si associava al sentimento etico dell’Elleno.
Panezio considerava la difesa della proprietà privata il motivo principale che porta a fondare uno Stato. Panezio scriveva nel tempo dei moti graccani che condannava poiché attaccavano la proprietà privata e minavano le basi dell’ordinamento giuridico. Nel Peri; tou' kaqhvkonto" prese posizione contro i Gracchi.
Gaio Blossio di Cuma che con Panezio aveva seguito in Atene le lezioni di Diogene e Antipatro era invece consigliere di Tiberio Gracco. Le condizioni della sua terra campana e l’idea stoica dell’uguaglianza di tutti gli uomini avevano convinto Blossio della necessità di una riforma agraria.

Cfr, Plutarco, Tiberio Gracco, 8, 17, 20)
Plutarco racconta che Tiberio appena eletto dhvmarco", nel 133, si dispose alla realizzazione della riforma agraria spinto dal retore Diofane esule da Mitilene e dal filosofo Blossio che era di Cuma e a Roma avevafrequentato Antipatro di Tarso (8, 6)
Andando in Campidoglio, Tiberio incespicò nel terreno spezzandosi l’unghia di un alluce e perdendo sangue, poi si videro su un tetto a sinistra dei corvi che si azzuffavano (w[fqhsan ujpe;r keravmou macovmenoi kovrake" ejn ajristera'/, 17, 4) e fecero cadere una pietra ai piedi di Tiberio. Questi brutti segni spaventarono perfino i più audaci della sua scorta, ma Blossio di Cuma disse che sarebbe stata aijscuvnhn kai; kathvfeian pollhvn, una grossa vergogna e umiliazione se Tiberio, figlio di Gracco e della figlia dell’Africano, kovraka deivsa" (17, 5) per paura di un corvo, non avesse ascoltato i cittadini che lo chiamavano
Tiberio poi venne ucciso dai reazionari guidati da Scipione Nasica che aveva chiesto un senatus consultum ultimum la cui formula è videant consules ne quid res publica detrimenti capiat, ma il decreto formale non ci fu e Nasica procedette privatus ut si consul esset (Cic. Tusc. IV, 23, 51)

 Il cadavere di Tiberio fu gettato nel fiume con quelli dei seguaci. Venne costituita una sezione speciale del tribunale quaestio extraordinaria per giudicare i suoi seguaci superstiti. L’oratore Diofane fu arrestato e ucciso, Blossio portato davanti ai consoli rispose di avere obbedito a Tiberio. Nasica gli chiese che cosa avrebbe fatto se Nasica gli avesse ordinato ejmprh'sai to; Kapetwvlion (20, 6), di incendiare il Campidoglio. Blossio rispose che mai gliel’avrebbe ordinato, ma, nel caso, l’avrebbe fatto poiché gli ordini di Tiberio erano dati nell’interesse del popolo. Blossio non fu incriminato e andò in Asia presso Aristonico figlio naturale di Eumene II di Pergamo e fratellastro del re lunatico Attalo III che aveva lasciato il regno in eredità al popolo romano. Aristonico lo rivendicò, ma venne sconfitto da Perpenna nel 130.


CONTINUA 

mercoledì 20 settembre 2017

Twitter, CCLXXXVII sunto

Marco Aurelio


Argomenti: le mani libere; Marco Aurelio che vuole essere Cesare e Renzi malamente cesarizzatosi; la pessima scuola di oggi e quella dignitosa di 40 anni fa; i sottosegretari buffoni delle Rane di Aristofane e quelli degli ultimi governi. Nihil novi. 

Salvini: "con noi al governo gli uomini e le donne delle forze dell'ordine avranno le mani libere". Da certe mani frenetiche con licenza di toccare ci sarà un generale fuggi fuggi di turiste giovani.

Prodi si presenta come un rapsodo, un cucitore di canti. Ma l'aedo, il creatore di questi brani da cucire chi è? Sento un chiasso di voci stonate, un fracasso di strumenti scordati.

A Renzi non ha portato bene cesarizzarsi. Ora sono Salvini e Di Maio che si cesarizzano. L’imperatore Marco Aurelio diceva a se stesso: stai attento a  non cesarizzarti!  (o{ra mh; ajpokaisarwqh'/", A se stesso, VI, 30). Voleva rimanere l'uomo semplice,  buono, risoluto nel compiere il proprio dovere quale si era formato con la  filosofia. Ma quello era un uomo appunto, non un buffone.

Nella "buona" scuola trionfa l'ignoranza: degli studenti e dei docenti che non hanno bisogno di studiare non avendo un uditorio capace di criticarli.

Quando ricevetti una terza liceo classico per la prima volta ( al Rambaldi di Imola nell’autunno remoto del 1975) studiavo sempre, di pomeriggio e per gran parte della notte: non volevo fare brutta figura con allievi, ragazze e ragazzi preparati e capaci di criticarmi. I primi giorni leggevano il giornale mentre ripetevo i manuali e traducevo l’Edipo re di Sofocle limitandomi a un commento grammaticale e a snocciolare paradigmi, poi compresi che non bastava, che avevano ragione e mi diedi a studiare Aristotele, Platone, Scopenhauer, Hegel, Schopenhauer, Nietzsche, Jaeger, Snell, Benveniste, Hauser e altri per commentare la tragedia. E loro già prima di Natale prendevano appunti da quanto dicevo. Alla fine dell’anno scolastico, stremato dallo studio, mi dissi: “ce l’ho fatta!”. Non ho mai più smesso di studiare tanto grande è stata ed è questa gioia.  

 La nostra città si è riempita di sottosegretari - uJpogrammatevwn ajnemestwvqh - e demagoghi buffoni che ingannano il popolo facendogli il verso (Aristofane, Rane, 1083 ss.) Nihil novi.

Ieri sera Sechis faceva il tifo per il bombardamento atomico sulla Corea del Nord. L'occhio gli roteava impazzito e fuori orbita  come un globo colpito appunto dalla bomba che lui auspicava sulla popolazione coreana.  Ma ognuno parla sempre di se stesso.

  
giovanni ghiselli
p. s.
il mio blog è arrivato a 567199 visite: 120 mila all’anno, un’altra gioia
Questi sono i primi dieci paesi per numero di lettori.
Stati Uniti
320256
Italia
202490
Russia
13131
Germania
3687
Ucraina
2559
Cina
2518
Francia
2412
Regno Unito
2390
Portogallo
848
Spagna
833



martedì 19 settembre 2017

La Commedia antica. Aristofane: “Le Rane”. II parte

(cliccare sull'immagine per ingrandire)

La Commedia antica. Aristofane: Le Rane

Venerdì 22 Settembre alle 18 
ne parlerò presso la Biblioteca Lame-Cesare Malservisi, sala studio primo piano
Nell'ambito di "Un tuffo nei classici", due conferenze a cura del prof. Gianni Ghiselli:
Le Rane di Aristofane: il mito. la politica, la guerra, la critica letteraria

Quanto ai primi autori di commedie, Aristotele fa i nomi di Epicarmo e Formide, entrambi vissuti a Siracusa nella prima metà del V secolo; quindi commenta: "perciò la commedia, almeno per quanto riguarda il comporre i racconti è venuta in principio dalla Sicilia" (to, de; muvqou" poiei'n ejx ajrch'" ejk Sikeliva" h\lqe, 1449b). Era comunque una Sicilia greca e dorica, e viene a proposito la Satira III di Giovenale dove il corrucciato moralista esprime la sua indignatio nei confronti dell'odiata stirpe dei Graeculi affermando: "natio comoeda est ", è una razza di commedianti (v. 100).

 Di Epicarmo (524-435) ci restano titoli e frammenti con parodie mitologiche, una delle quali, appartenente al Busiride rappresenta quell'Eracle dorico, rude, gagliardo, formidabile nel divorare e nel bere che si troverà anche nell’Alcesti di Euripide, ai vv. 759 e sgg.).
"Se lo avessi visto mangiare saresti morto!
Tuona la gola, strepita la mascella,
rumoreggia il molare, stride il canino,
fischiano le narici, sventolano le orecchie (Busiride, fr. 21 Kaibel).
Probabilmente la perdita dell'opera di Epicarmo siracusano è un fatto grave per la letteratura: Platone definisce il commediografo siciliano il miglior autore comico, mentre Omero sarebbe il tragico migliore (tw'n poihtw'n a[kroi th'ς poihvsewς eJkatevraς kwmw/divaς me; n J Epiivcarmoς, tragw/divaς de; {{Omhroς, Teeteto (152e)
 Sarebbe stato interessante studiarne quell'elemento mimico che prosperava nell'Occidente greco. Un aspetto che venne ulteriormente sviluppato da Sòfrone, siracusano pure lui, vissuto nel V secolo e autore di mimi anch'essi tenuti in alta considerazione da Platone che li aveva sotto il cuscino e che "conformò al suo stile alcuni caratteri" secondo la notizia di Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, III, 18).
I mimi erano dialoghi che imitavano (mimevomai) realisticamente scene di vita quotidiana: dai frammenti e dai titoli si può fare l'ipotesi che Sofrone abbia lasciato un segno sui mimi di Teocrito il cui influsso sarà grande nella poesia europea, da Virgilio a Leopardi.
Ci siamo soffermati un momento sui poeti sicilioti per suggerire possibili connessioni con forme predrammatiche italiche e italiote, come i già citati Fescennini, o come le Atellane, rozzi spettacoli originari di Atella, in Campania, basati su canovacci, trame schematiche e rudimentali, con maschere fisse, oppure i fliàci, (ijlarotragw/diva) tragicommedie, parodie di tragedie, di argomento mitologico e popolare diffusi nella Magna Grecia dove vennero portati a dignità da Rintone di Taranto (fine del III sec. a. C.).

A tutte queste forme vengono attribuiti quei sapori forti, quell'italum acetum che contraddistingue la commedia letteraria di Plauto rispetto ai modelli Greci della Commedia nuova. Ma tra questi autori italioti e sicelioti il più importante rimane Epicarmo del quale Orazio scrisse che fu un modello per Plauto: "Plautus ad exemplar Siculi properare Epicharmi ", Plauto si affretta dietro il modello del siciliano Epicarmo (Ep. II, 1, 58).


Aristotele (1448a) nomina Chionide e Magnete come autori attici più antichi, anche se comunque più recenti di Epicarmo (Poetica 1448a).
Scene comiche del resto si trovano già in Omero.
Nell’VIII canto dell’Odissea c’è l’adulterio di Arese Afrodite, la loro buffa punizione e il conseguente inestinguibile riso a[sbestoς gevlwς (VIII, 326) degli dèi. Nel secondo dell’Iliade viene coperto di ridicolo Tersite folkovς, strabico, cwlo; ς d j e{teron povda, zoppo di un piede (II; . 217), foxo; ς kefalhvn, dalla testa aguzza e mezzo pelata (v. 219).

Chionide avrebbe vinto il primo concorso comico celebrato alle grandi Dionisie (festa di fine marzo, la più importante per il teatro) del 486.

 Di Magnete, il collega Aristofane, nei Cavalieri (vv. 520 e sgg.) ricorda che da vecchio perse il favore del pubblico poiché "è rimasto lontano dal motteggiare" (o{ti tou' skwvptein ajpeleivfqh, 525) che gli aveva fatto vincere tanti trofei. Erano dunque contemporanei di Epicarmo.


CONTINUA 

venerdì 15 settembre 2017

La Commedia antica. Aristofane: “Le Rane”


La Commedia antica. Aristofane: Le Rane

Venerdì 22 Settembre alle 18 
ne parlerò presso la Biblioteca Lame-Cesare Malservisi, sala studio primo piano
Nell'ambito di "Un tuffo nei classici", due conferenze a cura del prof. Gianni Ghiselli:
Le Rane di Aristofane: il mito. la politica, la guerra, la critica letteraria

La Commedia attica viene tradizionalmente divisa in tre tipi: la Commedia antica che va dalle origini agli inizi del IV secolo,
la Commedia di mezzo, fino al 325 circa, e quella nuova che arriva fino alla metà del III secolo in lingua greca, poi viene ripresa in latino dai drammi di Plauto e Terenzio.

La Poetica di Aristotele afferma che la tragedia vuole imitare (mimei'sqai bouvletai) personaggi migliori di quelli reali (beltivou") mentre commedia è imitazione di uomini peggiori di quelli reali (ceivrou" tw'n nu'n, 1448a), ossia volgari e tali che non suscitano tanto lo sdegno quanto il riso provocato dalla visione del ridicolo, "Il ridicolo infatti" (to; ga; r geloi'on) spiega il filosofo "è qualche cosa di sbagliato e una deformità indolore e che non dannosa " (aJmavrthma ti kai; ai\sco" ajnwvdunon kai; ouj fqartikovn 1449a).
L'errore a dire il vero viene menzionato anche per i personaggi tragici (ajmartiva, 1453a); la differenza è che nei loro confronti deve nascere pietà e terrore per la loro disgrazia (dustuciva) causata da sbagli appunti, non da vizio malvagità (dia; kakivan kai; mocqhrivan), mentre la maschera ridicola è qualche cosa di deforme e stravolto senza sofferenza (to; geloi'on provswpon ajscrovn ti kai; diestrammevnon a[neu ojduvnh", 1449a).
La commedia dunque è mivmhsi" faulotevrwn imitazione di personaggi più incapaci del necessario, ed è l'assenza di pietà che contraddistingue la commedia dalla tragedia.

Hegel nella sua Estetica sostiene che "sono propri del comico l'infinito buon umore in genere e la sconfinata certezza di essere ben al di sopra della propria contraddizione. . . ossia la beatitudine e l'essere a proprio agio della soggettività che, certa di se stessa, può sopportare la dissoluzione dei suoi fini e delle sue realizzazioni" (p. 1591). Il comico è il soggettivo che non soffre delle sue contraddizioni. Può essere uno scopo meschino perseguito con serietà e non raggiunto senza sofferenza. Oppure individui frivoli che si pavoneggiano mentre tendono a fini seri, come le Ecclesiazuse. Nel crollo di tutti i valori politici rimane quello della soggettività (cfr. nel tragico, Medea superest).

Ancora una volta il personaggio della commedia non suscita pietà. Viene fatto l'esempio delle Ecclesiazuse di Aristofane, le donne a parlamento che"vogliono deliberare e fondare una nuova costituzione" ma "conservano tutti i loro capricci e passioni di donne" (p. 1592).
Invece nella commedia nuova di Menandro entrerà la compassione ed essa, esclusa dal comico, verrà inclusa nell'umorismo del noto saggio su L’umorismo di Pirandello: "Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere… Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s' inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario, mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico".

Gli altri 2 esempi: Marmeladov di Delitto e castigo e Sant’Ambrogio di Giusti.
Cfr. la terapia del rovesciamento, mettersi nei panni degli altri.
A questo proposito sentiamo Leopardi: “gli scolari partiranno dalla scuola dell’uomo il più dotto, senz’aver nulla partecipato alla sua dottrina, eccetto il caso (raro) ch’egli abbia quella forza d’immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre interamente dal suo proprio stato, per mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli, il che si chiama comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal dote di un buon maestro e la più utile, non è l’eccellenza in quella dottrina, ma l’eccellenza nel saperla comunicare”[1].

Il sentimento del contrario è dunque una forma di compassione, in senso etimologico.

Il comico nasce dalla superiorità in cui viene a trovarsi il pubblico rispetto all'attore[2]: deriva dunque dalla differenza di significato che le parole hanno nella bocca e nelle intenzioni di chi le pronuncia rispetto all'intendimento di chi le ascolta, più avanzato, siccome a maggiore conoscenza dei fatti. Il riso allora scaturisce dalla soddisfazione dello spettatore il quale si sente superiore poiché non partecipa del ridicolo o (nella tragedia9 delle sofferenze o del che colpiscono il personaggio.
Ma, tornando alla Poetica di Aristotele e alle origini della commedia, questa nacque da "coloro che dirigevano i canti fallici" (1449a).

 I Dori rivendicano l'invenzione della commedia etimologizzandola con il vocabolo dorico kwvmh (villaggio): il nome sarebbe derivato dal fatto che gli attori passavano kata; kwvma", di villaggio in villaggio.
 L'altra etimologia possibile, pur se scartata dai Dori, è quella che collega commedia con il verbo kwmavzw (faccio baldoria) e con il sostantivo kw'mo" (processione bacchica).
Ne risulta la possibile origine campagnola di un genere dai contenuti licenziosi e mordaci che sembra anticipare i Fescennini romani: "versibus alternis opprobria rustica ", insulti rustici in versi alterni, come li definisce Orazio (Epistole II, 1, 146).
Certo è il collegamento del dramma, sia comico sia tragico, con i riti della fertilità e con il culto di Dioniso, un dio la cui rinascita costuiva al tempo stesso una speranza di resurrezione per i suoi seguaci e un simbolo della vicenda delle messi o della vegetazione in genere connessa all'eterno alternarsi delle stagioni.
Cfr. Ammiano Marcellino sulle feste ad Antiochia per la morte di Adone quod in adulto flore sectarum est indicium frugum " (Storie, XXII, 9, 15).


CONTINUA



[1] Zibaldone, 1376.
[2] Un poco come nel meccanismo del resto tragico dell'ironia sofoclea

lunedì 11 settembre 2017

Twitter, CCLXXXVI sunto

Le ragazze così brutalmente forzate e la scuola degradata.

Nessuna indulgenza per i carabinieri che stuprano le ragazze, d’accordo, ma aggiungo nessuna indulgenza nemmeno per i carabinieri o per chicchessia massacri i ragazzi, drogati o no.

La Pinotti ha detto che lo stupro delle ragazze da parte dei carabinieri, se vero, sarebbe inaudito. E’ stato invece udito più volte, e spesso è rimasto impunito, il massacro di ragazzi.

La maggioranza silente di persone oneste e capaci, carabinieri, professori, medici etc. dovrebbe alzare la voce contro chi inquina il corpo e farlo cacciare.

Personalmente, nella scuola, ho sempre condotto un'aspra lotta contro i colleghi ignoranti e prepotenti con i ragazzi. Ho rischiato il licenziamento preteso da costoro.
Grazie a Dio, da Roma sono arrivati ispettori onesti che mi hanno approvato sbugiardando i colleghi e il preside (certo Magnani, un quidam de populo). Ho rischiato ma non sono pentito: rifarei tutto, per i miei ragazzi, per la mia dignità e per quella della scuola. Tanto più per il fatto che i maligni, contro i loro propositi, hanno favorito la mia carriera e le mie possibilità educative (cfr. la “provvida sventura” dell’Adelchi di Manzoni).
Ora sono in pensione ma anche da fuori vedo che la degradazione della scuola prosegue e si aggrava. Ho già detto più volte, e lo ripeto, che in un paese dove sono latenti la cultura e l’educazione, dove non funziona la scuola, non funziona più niente.


giovanni ghiselli

p. s.
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Le mie conferenze di settembre e ottobre 2017

Il 22 e il 29 settembre terrò 2 conferenze (le Rane di Aristofane poi Alessandro Magno) nella biblioteca Lame-Cesare Malservisi di Bologna.

Il 4 ottobre inizierò il mio corso di 10 lezioni nella Mediateca di San Lazzaro su alcuni grandi eventi, regimi politici e personaggi della Storia antica.

Il 24 ottobre inizierò il mio corso di 8 lezioni sui filosofi della Stoà e quelli del Giardino epicureo nella Università Primo Levi di Bologna

Il 10 ottobre terrò una conferenza nella biblioteca Ruffilli di Bologna (La seconda guerra punica).

Il 14 ottobre terrò anche una relazione nel Comune di Sant’Angelo dei Lombardi (i miti relativi a Eracle in occidente).

Il 30 ottobre esporrò una relazione ai lunedì linguistici promossi dal compianto Tullio De Mauro e fatti proseguire dai suoi allievi e amici coordinati dalla signora De Mauro, professoressa Silvana Ferreri (la presenza dei classici in Thomas Mann)