lunedì 22 aprile 2024

Ifigenia CXXXIX La Venere di Debrecen.

 

Andai a bere il terzo  caffè, la mia droga

 “L’alcol è peggio-pensai- prima ti eccita, poi ti stordisce e ti fa invecchiare. Rende equivoca la lussuria e tante altre cose”.

Finita la pausa, tornai a rimuginare su Ifigenia, equivoca-equivocatrice pure lei. Anche se mi ingannava, e chissà cosa diavolo voleva da me poiché regali non gliene facevo, dato che  esibivo e vantavo la mia povertà da comunista francescano e aistocratico, io non dovevo perdere lo stile, il ritmo e l’aspetto acquistati con anni di sacrifici: avevo raggiunto  una discreta cultura, avevo carisma con i ragazzi e potevo educarli al bello e al bene. Dovevo  accrescere le mie forze e le capacità educative. Lo studio e l’educazione erano i compiti della mia vita. Cominciavo a capirlo. Erano i fini. Gli eventi amorosi erano mezzi. Potevo perfino utilizzare le emozioni cattive per potenziare la mia forza di educatore. Questa anzi doveva arrivare a sublimarsi nell’arte, nelle forme eterne della bellezza, elevarsi fino all’educazione di un popolo intero. Ifigenia mi faceva crescere non solo e non tanto con la gioia, ma anche, e in quel momento soprattutto, con il dolore. Me lo sarei lasciato infliggere finché non ne avessi trovato il significato. Allora sopra le lacrime avrei sorriso per l’intelligenza della pena e ne avrei tratto sapidi frutti . Mi stavo avvicinando al centro, al compito della mia vita.

Intanto ero arrivato nel centro di Debrecen. Entrai nel Museo. Era dal 1966 che non ci avevo messo più piede.

Quello era il tempo della feccia della mia vita. L’avevo bevuta tutta, poi avevo cominciato a estrarre intelligenza dal dolore non nascondendolo a me stesso né agli altri. Lo superai comprendendo che se non lo smaltivo mi avrebbe impedito di compiere quanto costituiva la ragione della mia esistenza terrena. Infine avevo capito che è stolto chi vive per soffrire che depravata  è la voluptas del dolore. Quella mattina lontana avevo notato, per la ridicula iunctura  del nome, una statuetta intitolata Debreceni Venus, Venere di Debrecen, non bella per giunta. Come dire lo Zeus di Agrate, uno Zeus brianzolo. Da allora  erano passati tredici anni nei quali gli autori e le amanti avevano risvegliato il mio senso del bello. Questa volta   notai e osservai i quadri di Munkácsy che mostrano alcuni aspetti significativi dell’Ungheria: il pittore ne aveva evidenziato i caratteri peculiari:  la malinconia della sua terra e lo zingaresco romanticismo della sua gente. Altri dipinti mostrano donne sole, oppure con cani e bambini. Osservando questi, scattò  il nesso con la donna che mi stava mentendo. Pensai che sarebbe rimasta sola lei pure, siccome voleva usare gli uomini e finiva che veniva usata poiché mirava a gente più forte e  meno buona di lei, poveretta.

Uscii nella luce del sole un poco rasserenato poiché continuavo a capire. Girai a lungo, finché venne l’ora di cena. Tornai in collegio, entrai nella mensa sonora delle voci contente dei giovani che a coppie o a piccoli gruppi prendevano accordi per passare in compagnia la bella notte estiva. All’epoca i ragazzi e le ragazze si guardavano in faccia e si parlavano. Ora fissano orrendi aggeggi pigiando dei tasti con mani frenetiche. Molti di loro non sanno più osservare, riflettere, nemmeno parlare. Avrei dovuto mangiare,  ma il cibo pur buono non mi attirava. Prima dovevo capire come affrontare i problemi cioè superare gli ostacoli. Mi ero seduto a un tavolo di studenti vietnamiti. Avevo simpatia per quel popolo. Ricordai quando cantavamo “il Vietnam è comunista, giù le mani dal Vietnam”. Avrei voluto parlare con loro, ma non capivano l’inglese. Mi alzai e andai a sdraiarmi nel prato fra i due collegi: era luminoso di luna. Alcuni giovani cantavano con garbo e con allegria. Uno suonava la chitarra. Osservarli, ascoltarli e guardare il cielo mi aiutava.

Quei ragazzi cantavano in coro al lume della luna alta, sicura e luminosa sul prato, sentendosi uniti: mi facevano tornare in mente il meglio della mia vita, dalle due Elene, a Kaisa, a Päivi a Ifigenia dell’ultimo inverno. Le avevo perse o smarrite  ma c’erano state. Grandi doni avevo avuto, grandissimi: borse di studio generose, copiose. Dovevo essere grato.

“Tredici anni sono passati da quando arrivai qui ragazzo infelice-pensavo-. La mia faccia si è segnata di rughe, i capelli si sono un po’ diradati, diverse speranze svanite, ma solo perché non erano ragionevolmente fondate.

Ora saranno questi nuovi giovani ad avere illusioni ed è bene così. Debrecen è sempre un luogo pieno di mito e poesia, un posto dove si studia, si parla, si canta, si fa l’amore. Tutto il meglio della vita”. Ricordai che uno studente di Parma anni prima mi aveva detto : “la stranezza di questo luogo è che qui la gente non si odia, anzi in questi collegi le persone sono curiose le une delle altre, benevolmente”.

“Che stranezza, che stranezza santa-pensai. Questo è il  vero significato della nostra università estiva”.

Guardavo i giovani e continuavo a pensare. 

 

Bologna 22 aprile ore 12, 09 giovanni ghiselli

 

p. s.

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