giovedì 18 aprile 2024

IPPOLITO di Euripide del 428 Prima scena del prologo.


 

La potenza di Cipride

Ecco come si presenta Cipride entrando in scena all’inizio dell’Ippolito: “ Pollh; me;n ejn brotoi'" koujk ajnwvnumo"-qea; kevklhmai Kuvpri~, oujranou' t j e[sw ( vv. 1-2),  grande dea e non senza rinomanza, sono chiamata Cipride, tra i mortali e nel cielo.

 

Nel primo episodio la  nutrice di Fedra le attribuirà  una forza d'urto ineluttabile:" Kuvpri" ga;r ouj forhto;n h]n pollh; rJuh'/" (v. 443), Cipride infatti non è sostenibile quando si avventa con tutta la forza.

 

 La potenza di Cipride viene celebrata anche all'inizio della Parodo delle Trachinie di Sofocle:"mevga ti sqevno" aJ Kuvpri" ejkfevretai-nivka" ajeiv" (vv. 497-498), Cipride porta con sé una grande potenza, sempre vittorie.

 

E' la  tota ruens Venus  dell'Ode I 19 per Glicera di Orazio.

Seguirà Properzio:"Illa potest magnas heroum infringere vires,/illa etiam duris mentibus esse dolor " (I, 14, 17-18), quella dea può spezzare grandi forze di eroi, ella può costituire un dolore anche per i cuori duri.

Nell’Ippolito  Afrodite è la divinità più forte: “Zeus, non meno di Artemide, non ha voce in capitolo riguardo a ciò che Afrodite può fare, ed ha fatto. Il comitato o corporazione di divinità ha potere di vita e di morte su di “noi”, i mortali, ma tra loro questi poteri sono in competizione: essi operano in un “libero mercato[1]

 

Afrodite si presenta dicendo che onora quelli che venerano il suo potere mentre abbatte quanti sono orgogliosi verso di lei

sfavllw d’ o{soi fronou`sin eij~ hjma`~ mevga- v. 6.

Ippolito dunque figlio di Teseo e nipote di Etra, figlia di Pitteo figlio di Pelope, dice che Afrodite è la peggiore tra le divinità- levgei kakivsthn daimovnwn pefukevnai- v.13 e rifiuta i letti e non tocca le nozze, unico tra i cittadini della terra trezenia- in Argolide-

Invece questo giovane onora Artemide,  sorella di Febo e figlia di Zeus Foivbou ajdelfhvn- Dio;~ kovrhn-, ritenendola la divinità suprema-megivsthn daimovnwn- 16.

 

Dante segue la linea di questo Ippolito. Considera un errore onorare le divinità dell’amore

“Solea creder lo mondo in suo periclo

che la bella Ciprigna il folle amore

raggiasse, volta nel terzo epiciclo;

per che non pur a lei facevano onore

di sacrificio e di votivo grido

le genti antiche nell’antico errore,

ma Dione onoravano e Cupido,

questa per madre sua, questo per figlio;

e dicean ch’ei sedette in grembo a Dido” ( Paradiso, VIII, I, 9).

Ipppolito e Dante dunque erano completamente pazzi.

 

Afrodite dunque dice di non essere gelosa- ouj fqonw`- 20 ma assicura pure che punirà Ippolito- timwrhvsomai  jIppoluton- 21-22 in quello stesso giorno. Fedra da quando lo ha visto è  posseduta da terribile amore- katevsceto- e[rwti deinw`/ 27-

Teseo e Fedra da Atene sono dovuti andare in esilio per un anno a Trezene dopo che Teseo ha ucciso i suoi cugini Pallantidi i figli di Pallante che avevano complottato contro di lui.

Fedra trafitta dai pungoli d’amore piangendo si strugge in silenzio ejkpeplhgmevnh-kentroi~ e[rwto~ stevnousa ajpollutai sigh`/ 38- 39.

I familiari non lo sanno, ma Afrodite vuole rivelare il fatto a Teseo- deivxw de; Qesei` pra`gma 42. Quindi il padre ucciderà il figlio con le imprecazioni che Poseidone gli concesse-neanivan -ktenei` path;r ajrai`sin- 43- 44

Anche Fedra deve morire pure da persona nobile qual è- h{ d’eujkleh;~, ajll j o{mw~ ajpovllutai  46-

Non avrò riguardo per il male di costei-ouj potimhvsw kakovn- 48 al punto di non punire i miei nemici con mia soddisfazione.

Afrodite esce di scena perché sente che sta arrivando Ippolito con i suoi servi e compagni di caccia.

Il disgraziato non sa che le porte dell’Ade sono spalancate e che questa che vede è l’ultima luce- ouj ga;r oi\d ajnew/gmevna~ puvla~-

 { Aidou, favo~ de;  loivsqion blevpwn tovde 57.

Ippolito come Penteo nelle Baccanti incarna la repressione dell’istinto che prima o poi uccide chi cerca di soffocarlo.

 

“To ask whether Euripides ‘believed in’ this Aphrodite is a meaningless as to ask whether he ‘believed’ in sex. It is not otherwise with Dionysus. As the “moral” of the Hippolytus is that sex is a thing about which you cannot afford to make mistakes, so the ‘moral’ of the Bacchae is that we ignore at our peril the demand of the human spirit for Dionysiac experience. For those who do not close their minds against it such experience can be a deep source of spiritual power and eujdaimoniva. But those who repress the demand in themselves or refuse their satisfaction to others transform it by their act into a power of disintegration and destruction, a blind natural force that sweeps away the innocent with the guilty. When that has happened, it is too late to reason or to plead: in man’ s justice there is room for pity, but there is none in the justice of Nature…If this or something like it is the thought underlying the play, it follows that the flat-footed question posed by the nineteenth-century critics-was Euripides ‘for’ Dionysus or ‘against’ him?-admits no answer in those therms. In himself, Dionysus is beyond good and evil; for us, as Teiresias says (314-318), he is what we make of him…His favourite method is to take a one-sided point of view, a noble half-truth, to exhibit its nobility, and then to exhibit the disaster to which it leads its blind adherents because it is after all only part of the truth[2].. It is thus that he shows us in the Hippolytus the beauty and the narrow insufficiency of the ascetic ideal, in the Heracles the splendour of  bodily strength and courage and its toppling over into megalomania an ruin; it is thus that in his revenge plays-Medea, Hecuba, Electra –the spectator’ s sympathy is first enlisted for the avenger and then made to extend to the avenger’s victims. The Bacchae is constructed on the same principle: the poet has neither belittled the joyful release of vitality which Dionysiac experience brings nor softened the animal horror of ‘black’ maenadism; deliberatly he leads his audience through the whole gamut of emotions, from sympathy with the persecuted god, trough the excitement of the palace miracles and the gruesome tragi-comedy of the toilet scene, to share in the end the revulsion of Cadmus against this inhuman jiustice. It is a mistake to ask what he is trying to ‘prove’: his concern in this as in all his major plays is not to prove anything but to enlarge our sensibility-which is, as Dr. Johnson said, the proper concern of a poet [3], chiedere se Euripide ‘credeva in’ questa Afrodite è una domanda senza senso, come chiedere se egli ‘credeva nel’ sesso. Non è diverso con Dioniso. Come la ‘morale’ dell’Ippolito è che il sesso è una cosa sulla quale non ci si può permettere di fare errori, così la ‘morale’ delle Baccanti è che noi ignoriamo a nostro pericolo l’esigenza dello spirito umano di esperienza dionisiaca[4]. Per quelli che non le oppongono una barriera mentale, tale esperienza può essere una sorgente profonda di potenza spirituale e di felicità. Ma quelli che reprimono l’esigenza in se stessi o ne rifiutano l’appagamento in altri, la trasformano con il loro atto in una potenza che disintegra e distrugge, una forza cieca e naturale che spazza via l’innocente con il colpevole. Quando questo è accaduto, è troppo tardi per ragionare o perorare: nella giustizia dell’uomo c’è spazio per la pietà, ma non ce n’è nella giustizia di Natura [5]

 

 

Bologna 18 aprile 2024 ore 19, 21

 

P. S

Statistiche del blog

empre1500748

Oggi386

Ieri1233

Questo mese17849

Il mese scorso18101

 

 

 

Bologna 18 aprile 2024 ore 19, 11 giovanni Ghiselli

 



[1] Havelock, Op. cit., p. 146.

[2] Cf. Murray, Euripides and His Age, 187.

 

[3] E. R. Dodds, Euripides Bacchae, pp. xlv-xlvii.

 

[4] La componente istintiva, prima repressa, poi scatenata verso la distruzione, mai applicata all'incremento della vita, porta Gustav Aschenbach  alla morte, preannunciata da una fantasia onirica  memore dei riti orgiastici delle Baccanti:" Al ritmo dei timpani si squassava il suo cuore, il cervello vorticava; ira accecamento, stordimento voluttuoso invadevano la sua anima, smaniosa di accordarsi al tripudio del dio. Ed ecco, enorme, ligneo, scoprirsi e innalzarsi l'osceno simbolo; a quella vista tra sfrenati clamori, tutti gridarono la formula rituale e con la schiuma alle labbra si precipitarono in un'orgia pazzesca. Ridenti, singhiozzanti, si eccitavano a vicenda con gesti sconci e carezze lubriche, e si cacciavano l'un l'altro i pungoli nelle carni, leccando il sangue che colava sulle membra". T. Mann, La morte a Venezia  (del 1913)  p. 139. Ndr.

 

 

[5]" La natura è aristocratica, più aristocratica di qualsiasi società feudale basata sulle caste"   Schopenhauer, Parerga e paralipomena (del 1851), Tomo I, p. 275.

 

Nessun commento:

Posta un commento

Il caso Vannacci e la doverosa difesa della parresia.

  Sono in disaccordo su tutto quanto dice,   scrive e forse pensa il generale Vannacci, eppure sostengo la sua libertà di parola, come...