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La lirica greca, 25
ottobre 2015
La poesia lirica in lingua greca inizia da Archiloco, fiorito intorno
alla metà del VII secolo a. C., si sviluppa durante il secolo successivo, in
coincidenza con l'età dei tiranni, poi declina nel periodo della democrazia
ateniese (V e buona parte del IV secolo), ed ha una ripresa, come componimento
breve, ricco di echi letterari, eppure talora in qualche misura soggettivo,
nell'età ellenistica, quando i canoni estetici di Callimaco, il massimo poeta
alessandrino del III secolo, raccomandano, appunto, l'erudizione e la
concisione del componimento poetico.
In questo genere dunque, a differenza degli altri due, l'epico,
ritardante, dal quale discende l'ampio fluire del romanzo, e il drammatico, il
frutto più sapido della democrazia ateniese, le caratteristiche sono la brevità
e la soggettività, ossia l'affermazione dell'io del poeta. I contenuti del
resto sono tipici, ossia condivisi dall’ambiente del poeta.
La raffinatezza o la potenza
della forma, la novità dell'invenzione, la cultura letteraria o l'ironia,
possono conferire a tale autoindividuazione dell'autore quello stile
dell'universalità che è necessario all'opera d'arte. Alcuni uomini di cultura
del resto hanno ritenuto che la lirica non superi l'ambito della soggettività e
non sia degna di essere letta: "
negat
Cicero,
si duplicetur sibi aetas, habiturum se tempus quo legat lyricos",
Cicerone dice che, anche se gli venisse raddoppiata la vita, non troverebbe il
tempo per leggere i lirici, ricorda Seneca (
Ep.
49, 5).
I metri sono vari e, anzi,
proprio sulla base di questa diversità, solitamente viene fatta una distinzione
in quattro grandi categorie: il giambo, l'elegia, la lirica monodica e la
lirica corale. Ai metri spesso corrispondono temi e toni predominanti (la
poesia giambica per esempio non poche volte è aggressiva, l'elegiaca è amorosa
o lamentosa, ma può essere anche guerresca) scelti dalla sensibilità degli autori
i quali a loro volta vengono classificati a seconda del verso prevalentemente
usato.
Sicché Archiloco di solito viene definito quale poeta giambico, sebbene
usi pure il distico elegiaco. Noi però preferiamo adoperare altri criteri sia
per unificare sia per dividere. Faremo una distinzione per secoli, e,
all'interno di questi, sceglieremo gli autori più importanti dei quali
metteremo in evidenza determinati temi destinati ad avere un lungo seguito
nella cultura occidentale in componimenti poetici che a volte conservano
qualche cosa degli stilemi impressi sull'argomento dal primo autore che l'ha trattato.
Infatti concordiamo con Eliot quando afferma che la poesia europea, da
Omero in avanti, ha un'esistenza simultanea, e, da classicisti amantissimi
delle lingue classiche, pensiamo che le letterature greca e latina
costituiscano la corrente sanguigna o la linfa vitale di ogni successiva
espressione letteraria in Europa.
Se i poeti, come tutti gli artisti della nostra tradizione, per dirla
con L'uomo senza qualità di Musil
(p.270), sono legati da "una catena di plagi", oppure se ogni autore
nell'imitare ed emulare i predecessori aggiunga qualche cosa al monumento che
ci ricorda l'importanza di essere uomini, lo giudicherà il lettore.
I temi trattati da quasi tutti gli autori lirici arcaici (per la poesia
ellenistica faremo un discorso a parte poiché nel frattempo sarà cambiata la
concezione della vita) sono quello amoroso e quello politico in senso lato.
L'amore che in Omero rappresentava uno svago, il riposo del guerriero
per dirla con Nietzsche, può diventare l'interesse principale del poeta o della
poetessa; croce, tormento o delizia. Uno scolaro di Aristotele, Teofrasto, lo
chiamerà "affezione di un'anima disoccupata". Questo tema in effetti
avrà maggior rilievo negli autori meno impegnati politicamente. Per quanto
riguarda le lettere latine, già note al lettore, Catullo che canta di Lesbia,
dichiara a Cesare magno che non gli importa di sapere se egli sia bianco o
nero:
"Nil nimium studeo, Caesar,
tibi velle placere
nec scire utrum sis albus an
ater homo", non ci
tengo troppo, Cesare, a volere piacerti, né a sapere se tu sia un uomo bianco o
nero. (93, 2).
L'età della lirica arcaica, dal settimo al sesto secolo, è l'epoca dei
tiranni i quali, come si sa, impediscono al popolo di fare politica e lo
blandiscono con feste, spesso di carattere sacro, aprendo le porte della Grecia
a religioni misteriche, sopra tutte la dionisiaca, che promettono la salvezza
individuale e che trovano un ostacolo nel clero delfico-apollineo sostenuto
dalle grandi famiglie nobiliari, in primis gli Alcmeonidi di Atene.
Il tiranno di solito è un aristocratico che cambia fazione e prende il
potere mettendosi a capo di quella che, dopo l'affermarsi, già nel settimo
secolo, dell'economia monetaria, diventa la classe emergente: il partito dei
commercianti seguìti dai proletari che si chiamano teti, secondo un termine in
uso ad Atene, la città scuola, prima dell'Ellade poi di tutta l'Europa. A tale
rivoluzione politica si accompagnò un rivolgimento culturale favorito da vati e
profeti, come quell'Epimenide cretese che intorno al 600 a. C. andò in Attica a
diffondere i culti orfico-dionisiaci delle Erinni e di Demetra Eleusinia,
maledicendo nel contempo, e facendo espellere dalla regione, gli Alcmeonidi
devoti ad Apollo, ed esecrati in quanto pochi decenni prima avevano represso
nel sangue un
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Archiloco |
tentativo di instaurazione della tirannide da parte del nobile
Cilone. Seguiranno anni di lotte di classe, fino al tentativo di pacificazione
di Solone (594) e alla presa del potere da parte del tiranno Pisistrato. Il regime
della sua famiglia durerà fino al 511-510 ("per caso" l'anno in cui
l'ultimo re, Tarquinio il Superbo, viene cacciato da Roma, e lo facciamo notare
volendo significare quanto le vicende ateniesi, perfino le date dei
rivolgimenti politici, siano paradigmatiche per i futuri "fieri
vincitori" Romani); poco dopo, Clistene Alcmeonide, tornato dall'esilio,
inizierà a costruire quella democrazia che verso la metà del secolo seguente
verrà radicalizzata da Pericle nato dall'alcmeonidea Agariste e da Santippo il quale
invece discendeva da Epimenide. Così la cultura apollinea e quella dionisiaca
delle dee venerande potranno fondersi nel capo di Atene e nel genere della
tragedia. I poeti che studieremo, a parte Solone, non sono Ateniesi, ma la
lotta di classe sopra delineata riguarda tutto il mondo greco, tranne Sparta
dove la stabilità della costituzione "consegnata" a Licurgo da Apollo
delfico nell'VIII secolo è inficiata solo dalle rivolte degli schiavi iloti. I
lirici greci, generalmente, se prendono posizione, si schierano contro il
tiranno sia da un punto di vista politico, poiché il despota secondo loro è un
prepotente che toglie la libertà, sia da quello morale in quanto è un traditore
del suo ceto e un mentitore, sia da quello estetico siccome è ignobile e
volgare.
I poeti di parte aristocratica, e con particolare sistematicità
Teognide, biasimano l'ascesa della plebe e la mescolanza delle razze, un poco
come fa Dante nel Paradiso, XVI,
67-68: "Sempre la confusion delle persone/principio fu del mal della
cittade".
Non mancano i cortigiani dei
tiranni, qual è Anacreonte che ha lasciato una poesia"graziosa" e
disimpegnata. La maggior parte tuttavia usano invettive e toni truci nei loro attacchi in versi contro i
detestatissimi despoti, a partire dal macabro brindisi di Alceo per la morte di
Mirsilo tradotto secoli dopo da Orazio in nunc
est bibendum, e citato anni fa da Bossi nell'occasione di una caduta di
Berlusconi.
Prima di iniziare la
trattazione degli autori del settimo secolo ci sembra doveroso affrontare una
questione preliminare individuata da Nietzsche in La nascita della tragedia (capitolo quinto), cioé come sia
possibile il lirico quale artista; "colui che, secondo l'esperienza di
tutti i tempi, dice sempre -io-...non è dunque egli (cioé il primo artista che
suole chiamarsi soggettivo) anche il primo vero e proprio non artista?".
Il grecista- filosofo risolve il dilemma ricordando che la lirica antica era
musicata, e dunque il poeta, in quanto ispirato dal dio Dioniso, prima di dare
voce ai dolori propri e alle gioie personali, si fondeva con l'Uno originario,
e solo in un secondo momento esprimeva nella musica e nelle parole i riflessi
di questa identificazione. A supporto di tale tesi si possono ricordare i versi
di Archiloco che è l'iniziatore del genere e dà pure la prima testimonianza del
ditirambo, l'inno dionisiaco il quale a sua volta, secondo Aristotele (Poetica 1449a) costituisce il punto di
partenza della tragedia:
"come,
folgorato dal vino nella mente
so intonare il
ditirambo, il bel canto di Dioniso signore/"(frammento 77D.).
Non troppo lontana da quella nicciana è
l'interpretazione di Leopardi il quale, nello Zibaldone, sostiene che la poesia lirica, più di quella epica e
molto più della drammatica, è naturale, è natura, o per lo meno è vicinissima
alla natura di cui è figlia. "La poesia, quanto a' generi, non ha che tre
vere e grandi divisioni: lirico, epico e drammatico. Il lirico, primogenito di
tutti; proprio di ogni nazione anche selvaggia; più nobile e più poetico d'ogni
altro; vera e pura poesia in tutta la sua estensione (…) espressione libera e
schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell'uomo. L'epico nacque dopo
questo e da questo; non è in certo modo che un'amplificazione del lirico (…) il
drammatico è l'ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è
un'ispirazione, ma un'invenzione(...) Esso è uno spettacolo, un figlio della
civiltà e dell'ozio (…) trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto
della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e
l'epica, che è sua vera nepote"(pp.4234-4236).
Possiamo aggiungere
che gli elementi sentimentali, con il privato, non compaiono per la prima volta
nella poesia lirica: essi sono già presenti in Omero, nella dichiarazione
d'amore di Andromaca a Ettore per esempio (Iliade,
VI, 406-439) o nell'attesa d'amore di Nausicaa (Odissea, VI), e Leopardi non manca di sottolinearli nel Discorso di un italiano intorno alla poesia
romantica (pp.71-72):"Che bisogno c'è ch'io ricordi l'abboccamento e
la separazione di Ettore dalla sposa, e il compianto di questa e di Ecuba e di
Elena sopra il cadavere dell'eroe, mercè del quale, se mi è lecito far parola
di me, non ho finito mai di legger l'Iliade,
ch'io non abbia pianto insieme con quelle donne..?".
Dunque la lirica non
ha l'esclusiva dei sentimenti amorosi e del pathos.
Nemmeno la presenza dell'autore nell'opera comincia con Archiloco:
ricordiamo che essa si trova già in Esiodo, autore di un epos cosmogonico e di
uno rurale, antichi quasi quanto l'Odissea
(inizi del VII secolo). L’autore ci racconta come fu ispirato dalle Muse mentre
pascolava gli agnelli ai piedi del sacro Elicona (Teogonia, 22 e sgg.), e narra pure l'ingiustizia personalmente
subìta dal fratello Perse con la complicità dei giudici mangiatori di doni(Opere e Giorni, 27).
Possiamo passare a trattare i singoli poeti del settimo secolo.
Riprendiamo dunque Archiloco considerato da Nietzsche uno degli
archetipi della poesia greca, e, naturalmente europea. Su questo autore,
proprio perché è il primo poeta lirico della cultura occidentale ci
intratterremo piuttosto a lungo soffermandoci su quelli che diverranno topoi, o loci, nella nostra cultura.
Fiorito intorno alla metà del settimo secolo, nato a Paro, vissuto tra
questa isola dell'Egeo e quella più settentrionale di Taso, fu poeta e soldato
mercenario, secondo la presentazione che egli stesso fece di sé:
"io sono servo
di Ares signore
e conosco l'amabile
dono delle Muse"(frammento 1 D.) Distico elegiaco
Una doppia parte che
si sono attribuita anche Foscolo e D'Annunzio, tanto per nominare due
poeti-soldati italiani.
Quali sono dunque i
temi trattati da Archiloco e come è riuscito il poeta a dare voce
all'universale, a trovarne il linguaggio?
Prendiamo in esame
alcuni frammenti. Il 2 D. ripropone quello della guerra:
"nella lancia
ho la pagnotta impastata, nella lancia il vino
ismarico, bevo
appoggiato alla lancia". Distico elegiaco
Il conflitto ha perduto le caratteristiche che
gli avevano attribuito gli eroi omerici: l'unica occasione per manifestare la
loro virtù che era capacità di primeggiare parlando con efficacia nell'
assemblea dei combattenti e lottando rischiosamente in prima fila, come esige
la condizione nobiliare, tanto dei Greci quanto dei Troiani e dei loro alleati (cfr.
Iliade, XII, 310 e sgg. dove
Sarpedone dice a Glauco che i loro privilegi sono giustificati solo dal fatto
che il popolo li vede combattere sempre tra i primi). Appoggiato sulla lancia
di Archiloco (ejn
doriv keklimevno") ci
sembra una ripresa dell'omerico (Iliade,
III, 135)
ajspivsi keklimevnoi, appoggiati
sugli scudi. Sono Teucri e Achei in attesa del duello tra Alessandro e Menelao.
La guerra e le armi in Archiloco sono
piuttosto strumenti usati per procurarsi da mangiare e da bere, non senza cercare
nel contempo di salvarsi la pelle, come risulta dal frammento6D.:
"uno dei Saii
si vanta dello scudo, arma incensurabile
che, senza volere,
lasciai presso un cespuglio.
Ma ho salvato la
vita: che mi importa di quello scudo?
Vada in malora, presto
me ne procurerò uno non peggiore". Distico elegiaco
Qui vediamo che è
confutata la concezione dello scudo come simbolo dell'onore e della disciplina
militare quali valori indiscutibili. Tali posizioni vengono solitamente
attribuite agli Spartani: Plutarco nella
Vita
di Licurgo (16), il semileggendario legislatore di Sparta appunto, ci racconta
che gran parte dell'educazione"era rivolta a rendere i giovani pronti
all'ubbidienza, resistenti alle fatiche e vittoriosi in guerra". Costumi
antichi e severi che Tacito riconosce nei Germani alla fine del I secolo dopo
Cristo:"
scutum reliquisse praecipuum
flagitium ", avere abbandonato lo scudo è una vergogna paricolarmente
grave,"
nec aut sacris adesse, aut
concilium inire ignominioso fas ", né è consentito a chi se ne è
coperto di partecipare alle cerimonie o alle assemblee, "
multique superstites bellorum infamiam laqueo finierunt ", e molti
usciti vivi dalla guerra posero fine al loro disonore con un laccio (
Germania, VI, 7). Come si vede,
descrivendo non senza ammirazione i "
boni
mores "(XIX, 4) di quella "
gens
non astuta nec callida "(XXII, 5) non astuta né scaltra, Tacito opera
una sorta di ribaltamento di quella posizione archilochea che nel frattempo era
diventato un
topos letterario:
infatti dello scudo abbandonato senza troppi rimorsi né rimpianti nei secoli
intercorrenti fra Archiloco e Tacito avevano scritto, non si sa quanto
autobiograficamente, Alceo, Anacreonte e, in latino, Orazio:"
tecum Philippos et celerem fugam/sensi
relicta non bene parmula "(
Odi,
II, 7, 9-10), con te
ho provato Filippi e la fuga veloce, abbandonato senza gloria lo scudo. Ma se è
vera l'affermazione di Musil secondo la quale c'è come" una catena di
plagi che lega quelle figure l'una all'altra", Archiloco è già un anello di
quella catena poiché nel frammento 2D tradotto sopra troviamo un aggettivo, "ismarico",
che rende letterario il vino del poeta-soldato; infatti era di Ismaro (in
Tracia) la dolce, pura, divina bevanda (
Odissea,
IX, 205) usata da Ulisse per ubriacare Polifemo. Importante è, come afferma il
poeta classicista Eliot, che la parola presa a prestito funzioni nel nuovo
ingranaggio spirituale.
L'aspetto
Archiloco dunque,
nel cantare la guerra con spirito nuovo, usa il dialetto ionico di Omero e si
avvale della sua lezione formale, ma presenta una visione diversa dell'onore e
della gloria militare.
Per confermare
questa affermazione, in buona parte vera, possiamo utilizzare il frammento 60D:
"non amo lo
stratego grande né dall'incedere tronfio
né compiaciuto dei
riccioli-oujde;
bostruvcoisi gau`ron-, né ben
rasato;
ma per me sia pur
piccolo, e storto di gambe
a vedersi, però che
proceda con sicurezza sui piedi, e sia pieno di cuore/"
.
Tetrametri trocaici catalettici.
La sostanza dunque
viene preposta all'apparenza: Archiloco sgonfia il falso eroe facendone una
caricatura che anticipa quella plautina del Miles
gloriosus.
Sul rapporto di
opposizione contenutistica con Omero però vorremmo fare delle riserve. Infatti
si trova già nel "poeta sovrano" la scelta della vita rispetto alla
gloria di chi muore precocemente in battaglia: nel IX dell'Iliade, Achille rifiuta l'offerta di doni, pur cospicui, portati da
un'ambasceria per convincerlo a combattere; infatti, dice il Pelide, niente
vale quanto la vita che, una volta uscita dalla chiostra dei denti, non può
essere chiamata indietro a prezzo di tutti i tesori del mondo(401-409).
E anche il guerriero
non appariscente ma ardimentoso fa capolino nel V dell'
Iliade quando Atena ricorda a Diomede il valore del padre Tideo che
era piccolo di corpo ( "
Tudeuv" toi mikro;" me;n e[hn devma",
ajlla; machthv"",
801), ma forte di animo (
auta;r oJ qumo;n e[cwn o{n karterovn", 806), mentre nel terzo canto viene
indicata la modesta statura di Ulisse più basso di Agamennone della testa (
meivwn me;n kefalh '/
jAgamevmnono" jAtreivdao",
193), eppure più largo di spalle e di petto (194), quasi un uomo deforme, un
cenno che toglie originalità o per lo meno la priorità assoluta ai gusti di
Archiloco e che forse ha suggerito a Ovidio i versi:"
non formosus erat, sed erat facundus Ulixes,/et tamen aequoreas torsit
amore deas "
,
bello non era ma era bravo a parlare Ulisse, e in ogni caso fece contorcere
d'amore le dee dell'acqua(
Ars amatoria,
II, 123-124).
Del resto nel III
canto dell'Iliade troviamo già questo
contrasto tra apparenza e sostanza: Ettore rinfaccia a Paride (v. 39) di essere
un donnaiolo (gunaimanev") e seduttore (hjperopeutav) di aspetto splendido (ei\do" a[riste) ma senza valore né forza nel cuore (45), capace di portare via donne
di uomini bellicosi ma non di affrontarli. Allora Paride gli risponde di non
biasimarlo e non rinfacciargli i doni amabili dell'aurea Afrodite (mhv moi dw'r j ejrata;
provfere crusevh" jAfrodivth"", 64): nemmeno lui, Ettore, disprezza i magnifici doni degli dèi
(qew'n
ejrikudeva dw'ra, 65) che del
resto nessuno può scegliersi.
Paride era fuggito
da Manelao, ma poi decide di affrontare il duello.
Certamente Euripide aveva in mente il topos del "non bello ma
buono", quando nell'Oreste (del
408) elabora la così detta "teoria della classe media" e, presentando
con simpatia il piccolo proprietario terriero il quale lavora la terra da sé ed
è uno di quelli che, soli, salvano la città, si sente quasi in dovere di
precisare che era un uomo di aspetto non attraente ma coraggioso ("morfh'/ me;n oujk
eujwpov", ajndrei'o" d j ajnhvr", v.918).
Viceversa, ma sempre
con un ricordo archilocheo, nella stessa tragedia viene ridicolizzato Menelao,
lo spartano e marito di Elena odioso per avere provocato infiniti dolori ai
figli di Agamennone: ("ajll j i[tw xanqoi'" ejp j w[mwn bostruvcoi"
gaurouvmeno"" v.
1532).
"venga avanti,
pavoneggiandosi per i riccioli biondi sugli omeri"
Affermazioni simili
si trovano nell'Elettra di Euripide, quando Oreste dice del contadino
onesto che ha sposato la sorella senza consumare il matrimonio: persone di
questo genere amministrano bene le città e le case, invece le carni vuote di
cervello sono statue di piazza ("aiJ de; savrke" kenai; frenw'n-ajgavlmat ' ajgora'" eijsin" vv. 386-387).
Anche Svetonio nella
Vita di Giulio Cesare (65) ricorda
che il conquistatore delle Gallie "Militem
neque a moribus neque a forma probabat, sed tantum a viribus ", non
giudicava i soldati con la misura dei costumi né con quella dell'aspetto fisico
ma solo con il metro della forza.
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lira |
In ogni modo con Archiloco non si afferma per
sempre il prevalere della sostanza sull'apparenza che in parte già esisteva, né
diviene una conquista stabile, se è vero che Leopardi nell' Ultimo canto di Saffo (50-54), per
esperienza propria, scrive:"Alle sembianze il Padre,/alle amene sembianze
eterno regno/diè nelle genti; e per virili imprese,/per dotta lira o canto,/virtù
non luce in disadorno ammanto".
Si rafforza piuttosto il diritto di affermare
i propri gusti personali: Saffo qualche decennio più tardi scriverà (frammento
27aD) che la cosa più bella è ciò che uno ama.
Tolstoj in Guerra e pace individua il militare
bello e vano, un vero e proprio stratego archilocheo francese e napoleonico, in
Gioacchino Murat :" un uomo d'alta
statura dal cappello adorno di piume, i capelli inanellati che gli piovevano sulle spalle. Indossava un
mantello scarlatto, e le lunghe gambe erano protese in avanti (...) in effetti
costui era Murat, che ora aveva assunto la qualifica di re di Napoli (...)
cosicché aveva un'aria più trionfante e imponente di quanto l'avesse prima
(...) Alla vista del generale russo, con gesto regale e solenne, respinse indietro il capo con quei capelli a
riccioli fluenti sulle spalle (...) La faccia di Murat raggiava di
stolida soddisfazione" (pp. 925-926).
Nel Miles gloriosus di Plauto il soldato
fanfarone è presentato dalla merĕtrix Acroteleutium con queste parole: “Populi odium quindi noverim, magnidicum, cincinnatum moechum unguentatum?
(v. 923), come potrei non conoscere questo individuo odioso a tutti, fanfarone,
dai capelli arricciati, donnaiolo profumato?
Cicerone riassume
questo locus nel De finibus bonorum et malorum :"animi
enim liniamenta sunt pulchriora quam corporis " (III, 22, 75), infatti
i lineamenti dell'anima sono più belli di quelli del corpo. Qui siamo nel campo
dell'etica.
E ancora: “mens cuiusque is est quisque, non ea figura
quae digito demonstrari potest ” (De
repubblica, VI, 26), la mente di ciascuno è quel ciascuno, non quella
figura che può essere indicata con un dito.
Lucrezio istituisce
tutt’altra graduatoria.
I re si diedero a
fondare città e fortezze
Et pecus atque agros divisere atque dedere
Pro facie cuiusque et viribus ingenioque;
nam facies multum valuit
viresque vigebant.
Posterius res
inventast aurumque repertum
Quod facile et
validis et pulchris dempsit honorem (1110-4)
Anche i belli
infatti di solito seguono la fazione del ricco
Divitioris enim
sectam plerumque sequuntur (1115)
Un'altra possibile interpretazione della bellezza umana è quella data
da Plotino (205-270 d.C.) che la
considera quale somiglianza con se stesso: "La definizione che Plotino dà
di bruttezza e bellezza ha un'utilità immediata per la psicologia. "Anche
noi, quando siamo belli, è perché siamo conformi a noi stessi, mentre siamo
brutti allorché trapassiamo in un'altra natura" (
Enneadi, I, 6,
2)"
.
In realtà Plotino dice che è brutto (aijscrovn) tutto quello che non è dominato da una ragione o da una forma (to; mh; krathqe;n uJpo;
morfh`~ kai; lovgou”, I, 6, 2) in
quanto la materia (u{lh) non ha accolto
alcuna formazione secondo l’idea. L’idea ordina le varie parti e forma l’unità
attraverso il loro accordo. Kai; e}n th`/ oJmologiva/ pepoivhken. Il corpo diventa bello con la comunione con
il logos che deriva da dio.
Questo pensiero è stato sviluppato da J. P. Vernant il quale sostiene che la
somiglianza più alta dell'essere umano è quella con gli dèi immortali. La
consegue Odisseo in seguito all'intervento di Atena, tanto che Nausicaa dice
alle ancelle:" prima in effetti mi sembrava davvero essere uno volgare (ajeikevlio"), ma ora assomiglia agli dèi (nu'n de; qeoi'si
e[oike) che abitano l'ampio
cielo (Odissea, VI, vv. 242-243).
(Platone raccomanda
agli uomini l’assimilazione a Dio (oJmoivwsiς qew̃/, Teeteto, 176b) quella che sarà l’Imitatio Christi per i Cristiani).
Questa similitudine
con dio costituisce per la creatura dotata la più alta forma di
identificazione, il massimo della sua identità: "quando è privo di ogni charis, l'essere umano non assomiglia
più a nulla: è aeikelios. Quando ne
risplende, è simile agli dei, theoisi
eoikei. La somiglianza con se stessi, che costituisce l'identità di
ciascuno e si manifesta nell'apparenza che ognuno ha agli occhi di tutti, non è
dunque presso i mortali una costante, fissata una volta per tutte. Tra i due
poli opposti del non rassomigliare a nulla e del rassomigliare agli dèi, essa
si situa in posizioni variabili a seconda del prestigio o della celebrità di
cui uno gode, della paura e del rispetto che uno ispira (…) La grazia e la
bellezza del corpo, facendo vedere chi siete, danno la misura della vostra time, della vostra dignità o della
vostra infamia".
Viceversa: "A
volte capita che anche gli uomini tentino di fare ciò che gli dèi possono
realizzare facilmente, ma in peggio, quando cercano di distruggere nel cadavere
di un nemico odiato ogni rassomiglianza del morto con lui stesso. Oltraggiando
il suo corpo, sfigurandolo, strappandogli la pelle, smembrandolo, lasciandolo
imputridire al sole o divorare dagli animali, si vuol far scomparire ogni
traccia della sua figura e della sua antica bellezza per non lasciare di lui
che orrore e mostruosità. Oltraggiare-cioè imbruttire e disonorare a un tempo
si dice
aeikizein, rendere
aeikes o
aeikelios, non simile"
.
Per comprendere questa riflessione bisogna ricordare che
ajjeikhv" è formato sulla radice
eijk-/
oijk-/
ijk- come
e[oika, "sono simile", quindi significa "indegno" e
"dissimile", ossia, secondo Vernant, indegno di se stesso e dissimile
da se stesso.-
ajeikivzw-ajeikhv~-eijkov~-
Un altro frammento
interessante e degno di essere commentato è il 67aD. Ne facciamo una traduzione
letterale, quasi verbum de verbo:
"animo, animo
sconvolto da affanni senza rimedio
sorgi e difenditi
dai malevoli, contrapponendo
il petto di fronte,
piantandoti vicino agli agguati dei nemici
con sicurezza: e
quando vinci, non gloriartene davanti a tutti,
e, vinto, non gemere buttandoti a terra in
casa.
Ma nelle gioie gioisci e nei dolori affliggiti
non troppo:
riconosci quale ritmo governa gli uomini. (mh; livhn: givgnwske d j oi|o~ rJusmo;~
ajnqrwvpou~ e[cei, tetrametri
trocaici catalettici).
Questi versi contengono alcune norme basilari
della civiltà classica e della cultura europea. Hanno qualche precedente in
Omero e un seguito infinito, tanto che sembrano riecheggiare dal fondo dei
secoli nell'anima del lettore anche non esperto di greco. L'idea del tollerare
con forza le avversità, si trova nell'Odissea,
quando Ulisse, davanti allo scempio che vede in casa sua, invita il proprio
cuore a sopportare i mali con il ricordo di mali ancora peggiori già superati:
"sopporta, o
cuore un altro dolore più cane sopportasti una volta/ (tevtlaqi dhv kradivh:
kai; kuvnteron a[llo pot j e[tlh")
quel giorno quando,
irrefrenabile possa, mi mangiava il Ciclope/
i gagliardi
compagni: e tu resistevi, finché l'ingegno (mh`ti~)
ti tirò fuori
dall'antro dove credevi che saresti morto"(XX, 18-21).
Un motivo dunque che può sollevarci l'animo
nelle disgrazie è il ricordo di un precedente successo.
Giuliano Cesare quando si prepara
ad attaccare dice ai soldati: quid agi
oporteat bonis successibus instruendi (erimus)
21, 5, 6). L’educazione viene anche dal successo
Anche Saffo nella
pena amorosa impiega questo balsamo quando rammenta che Afrodite immortale dal
trono variopinto una volta venne e le disse: "Chi ti fa torto, Saffo? Se
fugge, presto ti inseguirà, se non accetta doni, te li offrirà, se non ama,
presto ti amerà anche se non vuole"(fr.1 LP, vv.20-24). La persona nobile
infatti non dimentica il bene. Ma sulla poetessa di Lesbo ritorneremo.
Nell’
Eracle
di Euripide, Anfitrione esorta la nuora Megara a sperare, nelle grandi ambasce
in cui si trovano durante l’assenza di Eracle e perseguitati da Lico: il vento
sfavorevole potrebbe cambiare: infatti anche le sciagure degli uomini si
stancano (
kavmnousi
gavr toi kai; brotw'n aiJ sumforaiv,
v. 101), e le raffiche dei venti non hanno sempre la stessa potenza. Gli uomini
di successo non rimangono fortunati sino alla fine. Essere angosciato è tipico
dell’uomo vile: “
to; d j ajporei'n ajndro;~ kakou'
“ (v. 106).
Machiavelli nella Lettera a Francesco Vettori del 10
dicembre 1513 descrive la sua giornata fatta di studio e di un ingaglioffarsi
con persone volgari e aggiunge: “sfogo questa malignità di questa mia sorte,
sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la si vergognassi”. Del
resto alla fortuna non si deve “dare briga” ma “aspettare un tempo che la lasci
fare qualche cosa agli uomini”.
Vero è pure che poi
in Il Principe Machiavelli scrive che
la fortuna è “arbitra della metà delle azioni umane” e “dimostra la sua
potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti,
dove sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla” (XXV). In effetti
Machiavelli cerca un’occasione mandando in giro i suoi scritti, come faccio io.
Manda dunque l’“opuscolo De principatibus”
al “Magnifico ambasciatore”.
“E se vi piacque mai
alcuno mio ghiribizzo, questo non vi doverrebbe dispiacere”. (Lettera a Vettori).
Archiloco dunque
concepisce la vita umana come un grande ritmo, una ruota fatta di uno scendere
e un salire con una regolarità ineluttabile, pari a quella della natura
che non è mai squilibrata. Di qui deriva il consiglio presente in tutta la
classicità di non discostarsi dall'armonia del cosmo. Tale precetto può
riassumersi nella massima di Cicerone (
De
Officiis I, 100): "
quam si
sequemur ducem, numquam aberrabimus",
e se la (la natura) seguiremo come guida non ci svieremo mai
Il "nulla di
troppo" (mh;
livhn, v. 7), con il
"conosci te stesso" erano le due massime scolpite nel santuario
delfico e sono rimaste fondamentali nel comportamento di chi possiede una buona
educazione, tanto che se ne trovano riflessi nei trattati di galateo dell'età
moderna come, per esempio, ne Il libro
del cortegiano del Castiglione (1528): il perfetto cortegiano deve essere
"umano, modesto e ritenuto, fuggendo sopra tutto la ostentazione e lo
impudente laudar se stesso"(I, 17) e dovrà "fuggir quanto più si pò,
e come un asperissimo e periglioso scoglio, la affettazione"(I, 26).
Questo aspetto è
relativo alla psicologia e al costume. Il versante dell'armonia cosmica invece
ha un seguito nella filosofia presocratica e, per quanto riguarda il campo
letterario, nella tragedia di Euripide. Per il momento menzioniamo il dramma Le Fenicie del 410, dove Giocasta, per
convincere il figlio Eteocle a rinunciare alla brama di potere assecondata con
ogni mezzo, compresa l'iniquità, gli ricorda che l'oscura palpebra della notte
e la luce del sole percorrono uguale il giro annuo nell'alternarsi delle
stagioni (vv.543-544). Dunque come nel ritmo cosmico c'è una regolarità, in
forma di isonomia, così nell'avvicendarsi dei fatti umani, e all'uomo dotato di
sguardo mentale tale armonia non può sfuggire. Una sentenza di Eraclito
raccoglie questa verità: "l'armonia invisibile è più forte della
visibile"(fr. 27 Diano). Possiamo chiudere questo commento citando un
proverbio di padron 'Ntoni che ripete questo tipo di saggezza:"Buon tempo
e mal tempo non dura tutto il tempo!"(I
Malavoglia, p.172).
Un altro frammento (7D)
di Archiloco ripete il concetto in termini consolatori per la polis che ha perso diversi cittadini in
un naufragio:
"pur disapprovando lutti lamentevoli, o
Pericle, né alcuno
dei cittadini godrà
di feste né la città;
ché l'onda del mare
sonante tali uomini
sommerse, e noi
abbiamo i polmoni gonfi
per le sofferenze.
Ma gli dei ai mali irrimediabili,
o amico, accordarono
la forte sopportazione ( kraterh;n
tlhmosuvnhn)
come farmaco (favrmakon). Ora gli uni ora gli altri provano queste
sventure; ora si sono volte/
verso di noi e
lamentiamo una ferita sanguinante,
un'altra volta
toccherà ad altri. Ma adesso
sopportate respingendo il pianto femmineo (gunaikei`on pevnqo~ ajpwsavmenoi)".
Questi distici
elegiaci non solo
costituiscono un energico richiamo alla vita, ma formano l'archetipo della
cosiddetta allegoria della nave, e "sotto 'l velame delli versi
strani", probabilmente, "s'asconde"
la
polis in difficoltà.
L'Anonimo Sul sublime, il trattato di estetica più
famoso dell'antichità ( scritto in greco nel I secolo d. C.) afferma che
l'elevatezza di questi versi consiste nel fatto che Archiloco ha saputo
"ripulire e Silloge, vv.668-682; Eschilo, I
sette a Tebe, vv. 62 e sgg., 208 e sgg.; Aristofane, Le rane, v. 361, e Sofocle, Antigone,
v. 163). Sono tutti autori sui quali ritorneremo. Che il pianto sia cosa da donne
lo afferma anche Tacito raccntando, non senza ammirazione, i costumi dei
Germani:"Feminis lugere honestum
est, viris meminisse " alle donne si addice piangere, agli uomini
ricordare. (Germania, 27).
combinare tra loro i punti culminanti senza lasciare nella
composizione nulla di grezzo, indecoroso o noioso"(10). L'immagine si
trova in vari poeti greci (Alceo, fr.326 LP; Teognide,
Passiamo a tradurre, sempre il più
letteralmente possibile, il frammento 22 D.
"Non mi importano le ricchezze di Gige pieno d'oro
né mai mi prese l'invidia, né ammiro
le imprese divine, e non ho
brama di grande potere:
infatti questo è lontano dai miei occhi". Trimetri giambici
Altre negazioni e affermazioni
queste che avranno un lungo seguito. Gige è il re di Lidia (687-652) antenato
del più famoso Creso. Erodoto nel primo libro delle sue Storie ( 8-14) ne racconta l'avventurosa ascesa al trono. Egli
divenne sovrano dopo avere ucciso il suo re Candaule che lo aveva indotto a
nascondersi nella camera da letto della regina perché la vedesse nuda. Al
sovrano dispiaceva che le fattezze della splendidissima donna fossero
conosciute solo da lui. Gige, che era guardia del corpo del "lunatico
re", tentò di schermirsi dicendo: "con lo spogliarsi delle vesti, la
donna si spoglia anche del pudore"(I, 8).
La nudità come immoralità era sentita anche da molti Romani del tempo
di Catone il Vecchio il quale, seguendo il costume degli antichi, evitava di
fare il bagno insieme al figlio e ai generi “perché si vergognava di stare nudo
davanti a loro” (Plutarco, Vita di Catone
il Vecchio, 20).
Non andava così a Sparta secondo Euripide (cfr. Andromaca).
Candaule dunque riuscì a
convincere Gige. La regina, accortasi di essere stata spiata lì per lì fece
finta di niente, ma poi, chiamato lo scudiero del marito, gli ordinò di
ammazzarlo, se non voleva essere ucciso lui stesso. "Gige, entrato di
soppiatto e uccisolo, ebbe la donna e il regno. Di lui fa menzione in un
trimetro giambico anche Archiloco di Paro, vissuto nello stesso tempo",
ricorda Erodoto (I, 12). Gige dunque attraverso la violenza e l'ingiustizia
acquistò ricchezze e potere che divennero beni non desiderabili in quanto
forieri di lutti. Nel caso del re lidio, non fu lui personalmente a pagare il
fio, ma il suo quarto discendente, il notissimo Creso di cui torneremo a
parlare trattando sia Solone sia Erodoto. Intanto del legislatore ateniese del
sesto secolo possiamo anticipare che esprime un'idea non lontana da quella
centrale negli ultimi versi citati quando afferma:"ricchezze desidero
averle, ma procurarmele ingiustamente/ non voglio: infatti poi in ogni caso
arriva la giustizia"(
Elegia alle
Muse, 7-8)
.
Il succo dei trimetri giambici di Archiloco è lo stesso. Il rifiuto
della potenza terrena separata dalla giustizia si trova naturalmente anche
nella filosofia: nel Gorgia, Platone
rappresenta Socrate che si contrappone al luogo comune secondo il quale un uomo
molto ricco e potente è necessariamente una persona invidiabile: a Polo che,
credendo di fare una domanda retorica, gli chiede se si possa dire del gran re
di Persia che non è felice, risponde:"non lo so, poiché non so come stia a
cultura e giustizia"(471d).
Questi autori classici insomma non hanno la caratteristica u{bri" dell'uomo economico che considera virtù
massima la capacità di fare denaro. Un elogio della povertà e del santo che la
amò si trova nel Paradiso di
Dante:"Francesco e Povertà per questi amanti/prendi oramai nel mio parlar
diffuso"(XI, 74-75).
Del resto nella Repubblica di
Platone il personaggio Glaucone racconta l’episodio di Gige in altra maniera da
Erodoto, volendo dimostrare che nessuno è giusto di sua volontà (eJkwvn), ma solo se costretto (ajnagkazovmeno~, 360c). Gige divenne l’amante della regina e
uccise il suo re dopo che, da pastore al servizio del sovrano di Lidia, ebbe
trovato un anello che lo rendeva invisibile quando girava verso di sé il
castone dell’anello.
Del poeta di Paro rimane da trattare la poesia amorosa. Il fr. 25 D. è
un delicato ritratto di ragazza:
"gioiva di avere un ramo di mirto
e un bel fiore di rosa,
e la chioma le ombreggiava le spalle e il dorso". Trimetri
giambici
Alcuni commentatori pensano che la fanciulla sia Neobùle ("magari
mi capitasse di toccare la mano di Neobule", fa il fr 111 T.), la
protagonista, si racconta, della storia amorosa più importante nella vita del
poeta il quale, dopo una promessa di matrimonio non mantenuta da Licambe, il
padre della fidanzata, investì la sposa e il suocero mancati con versi talmente
feroci che i due si impiccarono. Ma questa probabilmente è una leggenda creata
per sottolineare la violenza di alcuni giambi archilochei.
I trimetri del fr.25D ci danno
un'immagine di ragazza riversa nella natura e ad essa quasi assimilata.
Tale visione della femmina umana risale ai cretesi della civiltà
minoica dove era adorata una signora degli alberi e delle fiere della quale
troviamo un'eco nell'Iliade (povtnia qhrw'n- [Artemi", XXI, 470-471); essa prosegue nell'Odissea,
quando Ulisse vezzeggia Nausicaa paragonandola a un germoglio (qavlo~, VI, 157) e a un nuovo virgulto di palma (foivniko~ nevon e[rno~, VI, 163), che si alzava nell' isola santa di
Delo, presso il tempio di Apollo. La ragazza dunque è vista come entità sacra e
naturale nello stesso tempo. Ma l'accostamento letterario della donna alla
natura è assai comune; anzi Mircea Eliade nel Trattato di storia delle religioni (p. 265) fa notare che"l'assimilazione
fra donna e solco arato (...)è intuizione arcaica e molto diffusa".
Per questo tipo di similitudine, invero volto a significare la
fertilità e la maternità piuttosto che l'aspetto primaverile e adolescenziale,
si possono trarre esempi da un paio di tragedie sofoclee. Nel quarto stasimo
dell'Edipo re (1210-1212) il coro
domanda al protagonista:"come mai i solchi paterni poterono sopportarti
fino a tanto in silenzio, o infelice?" I solchi paterni sono quelli già
seminati dal padre, Laio, ossia, fuor di metafora il corpo della magna mater Giocasta.
Nelle Trachinie (vv. 31-32), Deianira
trascurata da Eracle paragona il marito a "l'agricoltore, padrone di un
campo lontano, che lo visita una volta sola, al tempo della semina".
Anche Shakespeare usa questa metafora: Cleopatra indusse il grande
Cesare a mettere a letto la spada: “
he
plough’d her, and she cropp’d”
,
egli la arò ed ella diede il raccolto.
In epoca moderna questa linea arriva ovviamente a D'Annunzio
che è particolarmente sensibile alla naturalezza della donna, ma prima di
essere messa in versi da lui, tale analogia è stata teorizzata dal seduttore
intellettuale, l'esteta Giovanni di Kierkegaard
il quale scrive:"ella è come un fiore...e perfino quel che c'è in lei di
spirituale ha alcunché di vegetativo" (
Diario
del seduttore, p.138).
Ancora un frammento (104D.) di lirica amorosa:
"infelice giaccio nella brama (duvsthno~ e[gkeimai povqw/),
senza vita, trapassato nelle ossa
da duri spasimi per volere degli dèi".
Povqo~ è il desiderio di qualche cosa che non c’è,
o non c’è più: il rimpianto, "vano pascolo d'uno spirito disoccupato"
.
E’ quel desiderio dell'assente che
fece addirittura morire la madre di Odisseo, Anticlea, la quale nell'Ade dice
al figlio che il rimpianto
di lui le ha tolto la vita.
Qui c'è un'altra innovazione
rispetto all'epos di Omero dove, al massimo Agamennone si accusa di acciecamento
per avere sottratto Briseide ad Achille. Ma era una questione di prestigio più
che di amore. E Ulisse nel letto delle dee marine si annoia: nel quinto dell'Odissea, quando l'amante Calipso va a
cercarlo, lo trova seduto su un promontorio che piange"poiché la ninfa non
gli piaceva più"(v.153). Un precedente casomai può trovarsi nelle Opere di Esiodo dove il poeta racconta
che la prima donna, Pandora, ricevette in dono da Afrodite la grazia, la
passione struggente e gli affanni che fiaccano le membra (vv. 65-66).
In Archiloco il desiderio
erotico diviene acuminato quanto un coltello appuntito, e il sentimento amoroso
si avvicina al senso di morte, come sarà in Saffo (fr. 2D) che esprime lo
smarrimento e la debolezza infusi da Eros. L'accoppiamento o l'affratellamento
di Amore con Morte avrà un lungo seguito come si sa.
Un altro frammento che lamenta la brama tormentosa di amore è il 118
D.:
"mi prostra, amico, il desiderio che strugge le membra (lusimelhv~ povqo~).
Ancora il desiderio d'amore (fr. 27 della raccolta di Savino):
"profumati i capelli
e il petto, così che anche un vecchio ne avrebbe desiderio".
Ecco invece un monito a una donna non più giovane che si profuma (fr.
28 Savino):
"Farebbe meglio a non spalmarsi di unguenti profumati, perché è
vecchia". Forse con questo verso l'autore cerca di consolare se stesso per
essere stato respinto, con l'argomento della vecchiaia imminente della donna,
come faranno gli alessandrini nel "lamento davanti alla porta
chiusa". Certo è che Pericle (Vita
scritta da Plutarco, 28) citò questo verso coniugando il verbo alla seconda
persona e rivolgendosi, "con un sorriso tranquillo", a Elpinice,
sorella e forse amante di Cimone, un suo ex avversario politico, quando la
donna lo aveva criticato per la facile vittoria contro i Samii del 439.
Ecco un ultimo biasimo della vecchiaia (fr. 175 Savino):
"Comunque non fiorisci più nella pelle tenera, essa si raggrinza
già
nei solchi, della vecchiaia cattiva ti distrugge
...il dolce desiderio saltato via dal volto amabile
è caduto; infatti davvero molte raffiche
di venti invernali si sono avventate spesso... ".
Concludiamo la parte dedicata ad Archiloco con pochi versi dove
compaiono animali, poiché tali creature popolano la letteratura greca per
un'attenzione assidua indirizzata su questa parte della natura piuttosto vicina
alla nostra vita di uomini. A tal proposito è interessante l'osservazione di
Schopenhauer che "un altro errore fondamentale... del cristianesimo... è il
fatto che esso, contrariamente alla natura, ha staccato l'essere umano dal
mondo degli animali (...) dando valore esclusivamente all'uomo e considerando
gli animali addirittura come cose..." (Parerga
e Paralipomena, II vol., p.486); e, più avanti (p.494): "l'animale
nelle cose essenziali e principali, è assolutamente la stessa cosa che siamo
noi...la differenza sta soltanto nelle cose accidentali, nell'intelletto, ma
non nella sostanza, che è la volontà". In un altro libro, Il fondamento della morale non
premiato dalla Regia Società danese delle Scienze a Copenhagen il 10
gennaio 1840(p.249), il filosofo del pessimismo sistematico mette in rilievo la
diversa considerazione degli animali nel cristianesimo e nelle filosofie
precedenti ricordando da una parte la:"storia evangelica della retata di
Pietro che il Redentore favorì al punto da sovraccaricare di pesci le barche
fino a farle affondare (Luca, 5)", dall'altra "la storia di Pitagora,
iniziato alla sapienza egizia, il quale acquista dai pescatori tutta la retata,
mentre la rete è ancora sotto acqua, per donare poi la libertà a tutti i pesci
catturati (Apuleio, De Magia, 31)".
Veramente Apuleio fa di Pitagora un discepolo di Zoroastro, quindi racconta
l'episodio con queste parole: "prodiderunt... pretio
dato iussisse ilico pisces eos, qui capti tenebantur, solvi retibus et reddi
profundo", tramandarono che dopo avere pagato ordinò che i pesci
tenuti prigionieri venissero liberati subito dalle reti e restituiti al fondo
del mare.
Nel mondo greco arcaico in
realtà la distinzione tra uomini e animali viene fatta da Esiodo, in polemica
con quegli umani che, poco differenziati dalle fiere, considerano legge
naturale quella del più forte o della giungla. Il poeta beota nelle Opere (vv.202-212) racconta l'apologo
dello sparviero e dell'usignolo dal collo variopinto, per dire che la
prepotenza del rapace nei confronti dell'uccellino tenuto stretto tra gli
artigli mentre geme miseramente, può essere naturale per le bestie ma non per
gli uomini cui deve stare a cuore la giustizia. Infatti "l'uomo che
apparecchia mali ad un altro li prepara a se stesso/ e il progetto cattivo è
pessimo per chi l'ha progettato", commenta l'autore (vv.265-266). Questo
non toglie che la considerazione degli animali nella cultura classica sia
presente e frequente. Basta pensare alle favole di Esopo, o alla poesia
bucolica teocritea, strepitante di cicale. A questo piccolo animale appunto fa
cenno Archiloco, forse paragonandolo a se stesso molestato:
"hai preso la cicala per l'ala" (tevttiga d j ei[lhfa~
pterou') fr. 88 a D.).
Già Esiodo nelle Opere (582-584) nota la significativa
presenza della cicala nel quadro stagionale dell'estate: "la vibrante
cicala, posata su un albero, versa il fitto canto arguto da sotto le ali".
Ma l'elogio della cicala si trova negli Uccelli
(vv. 1095-1096) di Aristofane che ne fa una messaggera dell'estate, una coreuta
del tripudio solare:"quando la divina cantatrice grida il canto acuto/nella
calura meridiana, pazza di sole". Non si può non menzionare almeno, il
mito platonico delle cicale che una volta erano uomini dediti al canto, tanto
che la stirpe attuale, derivata da quelli, "ricevette il dono delle Muse
di non avere bisogno di mangiare e di cominciare a cantare subito senza cibo né
bevanda, e così fino alla morte, e poi di andare da loro ad annunciare chi
degli uomini di quaggiù le onori"(Fedro,
259B-D).
Ecco infine un frammento (89 D.)
di favola popolare, sul tipo di quella esiodea:
"questa è una favola per gli uomini
come la volpe e l'aquila
si allearono". Troppo breve
per fare un commento più specifico. Forse il primo animale simboleggia l'uomo
astuto, l'aquila quello nobile e regale.
Platone nella Repubblica (365c)
fa dire a suu fratello Adimanto che è conveniente tirarsi dietro "la volpe
furba e versatile del sapientissimo Archiloco".
Infine un adynaton. Si tratta del frammento (74 D) che ricorda
l'eclissi di sole del 648 a.C.
:
Nessuna delle cose è inaspettata né si può giurare
che non avvenga (crhmavtwn a[elpton oujdevn ejstin oujd j
ajpwvtomon)
né fa meraviglia, poi che Zeus il padre degli
Olimpii
di mezzogiorno fece notte nascosta la luce
del sole che splendeva. Madido giunse sugli
uomini il terrore.
Da allora, tutto diventa credibile e
attendibile
per gli uomini. Nessuno di voi si stupisca
più guardando,
neppure se con i delfini le fiere cambino il
pascolo
marino e a loro le onde sonanti del mare
divengano più care della terra ferma, a
quelli invece il monte selvoso./
Il non meravigliarsi di nulla diverrà tipico del saggio: Cicerone
afferma che è tipico del
sapiens, tra altre cose:"
nihil, cum
acciderit admirari"
,
non stupirsi di nessun evento.
l'adynaton (cosa impossibile) diverrà topico nella letteratura
europea: qui segnalo Virgilio buc. 1, 59-60 e Orazio Odi, I, 33,
7-9.
La conclusione delle
Baccanti di Euripide vv. 1388-1392 quattro dimetri anapestici e un paremiaco.
Sono versi topici, convenzionali. Affermano l’imprevedibiltà degli eventi da
parte della limitatissima ragione umana. Gli dèi insomma, fanno quello che
vogliono e gli uomini non possono farci niente.
Coro
molte sono le forme della divinità
e molti eventi in
modo insperato (ajevlptw~) compiono gli dèi;
e i fatti aspettati
non vennero portati a compimento,
mentre per quelli
inaspettati un dio trovò la via.
Così è andata a
finire questa azione
Questo finale di 5 versi è topico. Uguale è
la conclusione dell'Alcesti, dell'Andromaca, dell'Elena e della Medea,
(con una variazione al primo verso: "Di molti casi Zeus è
dispensatore sull' Olimpo", v. 1415).
L'Ippolito
si conclude con la constatazione, da parte della Corifea che su Trezene è
caduto un dolore comune, ajevlptw~
(v. 1463) che provocherà un fluire continuo di lacrime.
Imprevedibilità
degli eventi.
L'affermazione dell'imprevedibilità della
vita umana in effetti costituisce uno dei tovpoi della letteratura. Si tratta di un motivo sapienziale arcaico già
presente in Archiloco (fr.
58D.): "toi'"
qeoi'" tiqei'n a{panta... pollavki" d j ajnatrevpousi kai; mavl j eu\
bebhkovta"/uJptivou" klivnous
j", bisogna attribuire
ogni cosa agli dei... spesso rovesciano e stendono supini anche quelli ben
saldi.
Il topos non manca nella cultura orientale:
"Ma proprio come nel classico taoista del
Tao Te Ching, quando la fortuna di un uomo tocca il fondo
finalmente le cose cominciano a cambiare"
.
Nell'Alcesti,
Eracle anticipa il carpe diem di
Orazio dicendo che non è chiaro dove andrà a parare la sorte e non è
insegnabile e non si lascia cogliere con una tecnica: "ka[st j ouj didaktovn
oujd j aJlivsketai tecvnh/"
(v. 786). Insomma la tecnica non capisce il destino.
Anche Sofocle denuncia questa insicurezza: nei suoi drammi si trova più
volte l'immagine dell'altalena fatale:" nell'Esodo dell'Antigone il messo sentenzia: "tuvch ga;r ojrqoi' kai;
tuvch katarrevpei-to;n eujtucou'nta to;n te dustucou'nt j ajeiv
(vv.1157-1158), la sorte infatti raddrizza e la sorte butta giù/ il fortunato e
il disgraziato via via. Nell'Edipo re
il coro chiede ad Apollo: "intorno a te ho sacro timore: che cosa, o di
nuovo/o con il volgere delle stagioni ("peritellomevnai" w{rai"")
un'altra volta/effettuerai per me?"(vv. 155-157). In questo scorrere
rapido dei giorni, nel girare vorticoso delle stagioni, avvengono mutamenti
continui e alcune cose si ripetono, ma altre accadono inopinatamente.
Gli
ultimi versi del dramma contengono questa sentenza: sicché, uno che sia nato
mortale, non ritenga felice nessuno,/considerando quell'ultimo giorno a
vedersi, prima che/abbia passato il termine della vita senza avere sofferto
nulla di doloroso ("pri;n aj;n /tevrma tou' bivou peravsh/ mhde;n ajlgeino;n
paqwvn",
Edipo re, vv.1528-1530).
L'imprevedibilità
del futuro è denunciata anche da Deianira all'inizio delle Trachinie (vv. 1-3): "esiste un antico detto ("Lovgo" me;n e[st j
ajrcai'o"")
diffuso tra gli uomini: che non puoi conoscere la vita di un uomo prima che uno
sia defunto, né se per lui sia stata buona o cattiva".
Più
avanti la Nutrice
afferma addirittura che è sconsiderato (mavtaiovv" ejstin), v. 945
chi conta su due giorni o anche più: infatti non c'è il domani se prima uno non
ha passato l'oggi.
Queste
parole ribadiscono gli insegnamenti delfici del conoscere,
anche attraverso se stessi, la natura umana, i suoi limiti e pure le sue connessioni
con il cosmo, per rifuggire ogni eccesso, ogni rottura dell'equilibrio e
dell'armonia.
Imprevedibilità e felicità.
L’
alternarsi di successi e insuccessi, benessere e malessere, costituisce il
ritmo evidenziato da Archiloco:"
animo, animo sconvolto da affanni senza rimedio/sorgi e difenditi dai malevoli,
contrapponendo/il petto di fronte, piantandoti vicino agli agguati dei
nemici/con sicurezza: e quando vinci non gloriartene davanti a tutti,/e, vinto,
non gemere buttandoti a terra in casa./ Ma nelle gioie gioisci e nei dolori
affliggiti/non troppo: riconosci quale ritmo governa gli uomini" (fr.128
West).
Ne troviamo un'eco nei Malavoglia di Verga: "Lasciò detto il povero nonno, il riso e
i guai vanno a vicenda" (p. 146).
Pindaro afferma che Tantalo era l'uomo più amato
dagli dèi che lo onoravano frequentando la sua mensa; egli però non seppe
smaltire la grande felicità:"
se mai i protettori dell'Olimpo onorarono un uomo/mortale, era Tantalo questo;
però/ di fatto non seppe/digerire la grande felicità, e con la sazietà
attirò/un accecamento pieno di prepotenza, e su di lui/il padre sospese un
macigno pesante,/che egli desidera sempre stornare dal capo/ed erra lontano
dalla gioia. (Olimpica I, vv. 54-61).
"E' il culmine della felicità quando gli
dèi si assidono alla nostra tavola e portano i loro doni-ma da quel momento non
è possibile che tramontare. "I venti che soffiano sulle cime
incessantemente mutano. La felicità non dura a lungo ai mortali, quand'essa
viene nella sua pienezza" (Pindaro,
Pitiche, III,
104-106)"
.
Poiché la vita umana
è imprevedibile, non si può chiamare felice né fortunato chi non l'ha ancora
compiuta tutta: è una constatazione della mutevolezza e imprevedibilità della tuvch, una forza soprannaturale che durante l'età
ellenistica acquisterà ogni credito e sostituirà tutti gli dèi dell'Olimpo e
degli Inferi.
In ogni caso, è la
conclusione delle Trachinie: "koujde;n touvtwn o{ ti mh; Zeu" "(1278), nulla di questo che non sia Zeus.
“Cosa sa l’uomo
della vita? Niente di reale. Viviamo tra figure stereotipate, simili a
cartoline illustrate”
.
Aristofane
nella Lisistrata echeggia questo
locus in chiave parodica: “h\ povll j a[elpt j e[nestin ejn tw'/ makrw'/ bivw/ "
(v. 256) davvero in una lunga vita ci sono molte cose impreviste. Infatti le
donne "odiose a Euripide e a tutti gli dèi", come le definisce il
corifèo (v. 283) hanno occupato l'Acropoli e intendono fare lo sciopero del
sesso per impedire la continuazione della guerra. La parola d'ordine lanciata
dalla loro "capa" Lisistrata è: "ajfekteva toivnun ejstivn hJmi'n tou' pevou""(v. 124), bisogna astenersi dal
bischero.
Nelle
Rane il personaggio Euripide recita i
primi due versi della sua Antigone
che non ci è arrivata:" Edipo dapprima era un uomo felice" (v. 1182)."ma
poi divenne viceversa il più infelice dei mortali" (v. 1187). Ogni giorno
infatti è assolutamente diverso dal precedente. Soprattutto per chi ricerca. “Edipo
è l’uomo della ricerca, colui che interroga, indaga. Da quando ha lasciato
Corinto per partire all’avventura, è anche un uomo per cui l’avventura della
riflessione, dell’indagine è sempre una strada da tentare. Edipo non si ferma”.
Concetti
analoghi si trovano in diversi drammi euripidèi.
Nel
terzo Stasimo delle Baccanti le Menadi cantano " to;
de; kat j h\mar o{tw/ bivoto"-eujdaivmwn, makarivzw" (vv. 910-911), considero beato l'uomo
la cui vita è felice giorno per giorno.
Nell'Ippolito
il coro sentenzia: "oujk oi\d j o{pw" ei[poim j a]n eujtucei'n
tina-qnhtw'n: ta; ga;r dh; prw't j ajnevstraptai pavlin" (vv. 981-982), non so come potrei dire
che alcuno dei mortali è fortunato: infatti le posizioni più alte vengono
rovesciate.
Nell'Ecuba la vecchia regina, dopo il
sacrificio-assassinio della figlia Polissena constata la vanità della ricchezza
e del potere, quindi conclude: "kei'no" ojlbiwvtato", - o}tw// kat j
h\mar tugcavnei mhde;n kakovn" (vv.
627-628), il più fortunato è quello cui giorno per giorno non tocca nessun
male.
Negli Eraclidi, il Messaggero che porta la
notizia della sconfitta di Euristeo conclude il suo racconto con questa
sentenza derivata dall’insegnamento della sorte del persecutore abbattuto: “to;n eujtucei'n
dokou'nta mh; zhlou'n pri;n a]n-qanovnt j i[dh/ ti~: w;~ ejfhvmeroi tuvcai” (vv. 865-866), non si deve invidiare quello
che sembra avere successo, prima di averlo visto morto; poiché le fortune
cambiano ogni giorno.
Nelle Troiane,
la vedova di Priamo insegna: "nessuno dei felici considerate che sia
fortunato, prima che sia morto" (vv. 509-510).
In un'altra cara tragedia di Euripide, l'Andromaca, leggiamo: "Crh; d j ou[pot j
eijpei'n oujdevn j o[lbion brotw'n-pri;n a]n qanovnto" th;n teleutaivan
i[dh/"- o}pw" peravsa" hJmevran h}xei kavtw" (vv.100-102),
non bisogna dire mai felice uno dei mortali/prima che tu abbia visto l'ultimo
giorno/ del defunto, come, avendolo passato, andrà laggiù.
Nell'Eracle,
il Coro constata che in un attimo il dio ha rovesciato un uomo felice, e in un
attimo i figli dell’eroe spireranno per mano del padre: "tacu; to;n eujtuch' metevbalen daivmwn-tacu; de; pro;" patro;"
tevkn j ejkpneuvsetai" (vv. 884-885).
Nel primo stasimo dell’Oreste, il coro di donne argive sentenzia: oJ mevga~ o[lbo~ ouj movnimo~ ejn brotoi'~ (v.
340), la grande prosperità non è stabile per i mortali. Nel terzo stasimo le coreute
compiangono le stirpi mortali e le invitano a considerare wJ~ par j ejlpivda~-moi'ra baivnei (vv. 976-977). Il dolore tocca ora all’uno ora all’altro in un lungo periodo e
ogni vita di mortali è imponderabile (979-981).
Nel
Thyestes di Seneca il terzo coro di vecchi micenei approva la
conciliazione offerta da Atreo, non conoscendo le vere intenzioni del tiranno,
e ammonisce i regnanti sulla mutevolezza della sorte:"Nulla sors longa
est: dolor ac voluptas/invicem cedunt; brevior voluptas./Ima permutat levis
hora summis" (vv. 596-598), nessuna sorte dura a lungo: il dolore e il
piacere si alternano; più breve è il piacere. Un'ora veloce cambia gli abissi
con le cime.
La
non prevedibilità della felicità o infelicità della vita fa parte non solo
della sapienza tragica, ma anche di quella erodotea: il Solone dello storiografo di Alicarnasso dichiara a
Creso che, essendo la vita umana fatta mediamente di 26250 giorni, nessuno di
questi porta una situazione uguale all'altro, pertanto l'uomo è del tutto in balìa
degli eventi ("pa'n ejsti a[nqrwpo" sumforhv" (1, 32, 4). Quindi, sebbene
il saggio ateniese abbia visto che il re di Lidia è ricco e potente, non può
dire se sia felicissimo prima di avere avuto la notizia che ha finito bene la
vita.
Tucidide viceversa ha la pretesa di assicurarci, dandoci regole per i fatti che
si ripresenterebbero sempre nello stesso modo.
Abbiamo detto
che Mazzarino mette in rilievo un quesito ricorrente
nell'opera di Erodoto: "l’unità dell’opera erodotea è dominata, appunto, da
alcuni motivi centrali; motivi che commuovevano ed esaltavano la pubblica
opinione di tutti i Greci. E con questa trama andranno spiegate le
corrispondenze di più ampio respiro, che attraversano l’opera: il colloquio tra
Creso e Solone nel
lovgo~ lidio, al
quale fanno eco le parole di Artabano a Serse (VII 46, 3-4)
.
Dall’attuale primo libro, dunque, al settimo si richiama questa domanda
essenziale per il pensiero di Erodoto: “Son felici il ricco e il monarca?
Perché il vivere può preferirsi al morire?”. A questa domanda rispondono i
discorsi tra Creso e Solone, tra Serse e Artabano...anche Anassagora si
sforzava di rispondere alla stessa domanda...secondo Anassagora il dotto
soprattutto era felice"
.
Nelle Storie di Polibio, Annibale prima della
battaglia di Zama (202 a.
C.) parla a Scipione cercando un accordo: io ho sperimentato come la tuvch sia mutevole, gli dice, e faccia pendere la
bilancia alternatamente da una parte o dall’altra kaqavper eij nhpivoi~
paisi; crwmevnh (15, 6, 8), come
se trattasse con dei bambini infanti.
Platone
che nel Gorgia (470e) fa dire a Socrate di non sapere se il gran
re dei Persiani sia felice poiché non sa come stia quanto a paideia e a
giustizia:"ouj
ga;r oi\da paideiva" o{pw" e[cei kai; dikaiosuvnh" ; quindi, a Polo che lo incalza, chiedendogli
se la felicità consista in questo, risponde che l'uomo e la donna sono felici
quando sono belli e buoni, quando sono ingiusti e malvagi invece sono infelici.
Nelle
Leggi (VII, 802a) più in generale Platone afferma che "non è cosa
sicura onorare i viventi con inni e canti prima che ciascuno abbia percorso
fino in fondo tutta la vita e vi abbia posto una bella fine".
Vediamo ancora la
formulazione del
tovpo" data da
Ovidio: "
Iam stabant Thebae, poteras iam, Cadme, videri/exilio felix:
soceri tibi Marsque Venusque… sed
scilicet ultima semper /expectanda dies hominis, dicique beatus/ante obitum
nemo supremaque funera debet" (Metamorfosi, III, 135-137), già era
costruita Tebe, e tu Cadmo potevi sembrare felice nell'esilio: avevi come
suoceri Venere e Marte…ma certo bisogna sempre aspettare l'ultimo giorno
dell'uomo e nessuno può dirsi beato prima dell'ultima funebre pompa!
Colpevolezza
dell’infelicità e della malattia
Essere felici
secondo Strabone è un atto di
pietas.
Infernale è colpevole allora può essere considerata l'infelicità:" E' una
vergogna essere infelici. E' una vergogna non poter mostrare a nessuno la
propria vita, dover nascondere e dissimulare qualcosa"
.
Anche le malattie
talora vengono considerate segno di colpa. Quando il principe Andrej Bolkonskij
domanda al padre: "Come va la vostra salute?", il vecchio
risponde:"Mio caro, solo gli stupidi e i viziosi si ammalano. Tu però mi
conosci: dalla mattina alla sera sono occupato, sobrio, e quindi sano"
.
“La malattia porta
con sé minorazioni sensorie, deficienze, narcosi provvidenziali, misure di
adattamento e di alleggerimento spirituali e morali della natura, che il sano
ingenuamente dimentica di mettere in conto. L’esempio migliore era tutta quella
marmaglia di malati di petto con la loro leggerezza, la loro stupidaggine, il
loro leggero libertinaggio, e la mancanza di buona volontà per raggiungere la
salute”
.
La teoria della inumanità della malattia convince Hans Castorp, la cui anima
viene contesa dall’umanista Settembrini che l’ha esposta, e dal suo rivale
Naphta: “Giovanni Castorp trovò la cosa bellissima, interessante, e disse al
signor Settembrini che la sua teoria plastica lo aveva completamente
conquistato. Poiché, si dicesse pure quello che si voleva-e qualcosa si poteva
pur dire; per esempio: che la malattia era uno stato vitale accentuato, ed
aveva quindi in sé qualcosa di festivo, di solenne-si dicesse dunque pure
quello che si voleva, fatto sta che la malattia significava una
superaccentuazione dell’elemento corporeo; essa additava, per così dire,
all’uomo il suo corpo e lo riconduceva, lo respingeva ad esso, pregiudicando la
dignità umana fino al suo annientamento, appunto perché abbassava l’uomo fino a
diventare soltanto corpo. La malattia era dunque inumana”.
Il gesuita
naturalmente ribatte e confuta questa teoria: “Naphta replicò dicendo che la
malattia era invece altamente umana; poiché essere uomo significa essere
malato”
.
Laboriosità e pietas si addicono molto
alla salute. In effetti la Salus
per i latini era una divinità, di antica origine italica. Plauto la menziona
più volte (Captivi 529; Poenulus 128).
In conclusione: la
pretesa odierna di assicurarsi dalle sventure è fasulla e non rende la vita più
sicura né più sana né felice.
"Ognuno
deve essere pienamente consapevole che la propria vita è un'avventura anche
quando la crede chiusa in una sicurezza da burocrate: ogni destino umano
comporta un'irriducibile incertezza anche nella certezza assoluta, che è quella
della sua morte, poiché ne si ignora la data. Ognuno deve essere pienamente
consapevole di partecipare all'avventura dell'umanità, che è, ormai con una
velocità accelerata, proiettata verso l'ignoto".
“La
formula del poeta greco Euripide, antica di venticinque secoli, è più attuale
che mai: “L’atteso non si compie, all’inatteso si apre la via”. L’abbandono
delle concezioni deterministe della storia umana, che credevano di poter
predire il nostro futuro, l’esame dei grandi eventi del nostro secolo che
furono tutti inattesi, il carattere ormai ignoto dell’avventura umana devono
incitarci a predisporre la mente ad aspettarsi l’inatteso per affrontarlo… Non
abbiamo ancora incorporato il messaggio di Euripide: attendersi l’inatteso. La
fine del XX secolo è stata tuttavia propizia, per comprendere l’irrimediabile
incertezza della storia umana. I secoli precedenti hanno sempre creduto in un
futuro o ripetitivo o progressivo. Il XX secolo ha scoperto la perdita del
futuro, cioè la sua imprevedibilità. Questa presa di coscienza deve essere accompagnata
da un’altra, retroattiva e correlativa: quella secondo cui la storia umana è
stata e rimane un’avventura ignota”.
Ho insistito
su questo tovpo" dandone
parecchie testimonianze poiché adesso i più cercano disperatamente, e
risibilmente, di assicurarsi su tutto, da tutto. La grande angoscia dei giorni di
stragi e poi di guerre terroristiche deriva in massima parte dallo squarcio che
si è aperto orrendamente nella stupida illusione della programmabilità e
prevedibilità della nostra vita dal primo momento all'ultimo.
Gianni Ghiselli
ne Il Piacere ( del 1889) Andrea Sperelli dichiara che "fra i mesi neutri", aprile
e settembre, preferisce il secondo in quanto "più feminino (...) E la
terra?-aggiunge- Non so perché, guardando un paese, di questo tempo, penso
sempre a una bella donna che abbia partorito e che si riposi in un letto
bianco, sorridendo d'un sorriso attonito, pallido, inestinguibile. E'
un'impressione giusta! C'è qualche cosa dello stupore e della beatitudine
puerperale in una campagna di settembre!"(p. 169).
Ne Il
Fuoco (1890) l'amante non più giovane, la grande attrice tragica Foscarina,
viene assimilata, tra l'altro, a "un campo che è stato mietuto"(p.
306).
Su questa linea si trova Liolà
il primo personaggio di un dramma anomalo nel teatro pirandelliano:" il
protagonista è un contadino- poeta ebbro di sole, e tutta la commedia è piena
di canti di sole" scriveva l'autore al figlio Stefano nel 1917. Sentiamo
alcune parole di questa forza fecondatrice della natura. La terra, sostiene,
parlando con Don Simone, ricco massaro vecchio e impotente, è produttiva come
una donna e l'una e l'altra appartengono a chi le rende madri di frutti. :"
Scusassi: ccà cc'è un pezzu di terra; si vossia si la sta a taliari senza
faricci nenti, chi cci fa 'a terra? Nenti. Comu 'a fimmina! Chi cci duna 'u
figliu?-Vegnu iu, nni stu sô pezzo di terra: l'azzappu; la conzu; cci fazzu un
pirtusu; cci jettu 'u civu: spunta l'arbulu! A cu' l'ha datu st'arbulu 'a
terra? A mmia!.-Veni vossia e dici no, è miu. Pirchi? pirchì 'a terra è sô? Ma
la terra, beddu zû Simuni, chi sapi a cu' apparteni? Duna 'u fruttu a cu' la
lavura"
(I atto).
Si può continuare la
rassegna, certo parziale e limitata, con uno dei massimi autori del Novecento, Robert Musil che, ne L'uomo senza qualità, compie l'operazione inversa: assimila la
terra alla donna. "Ulrich la trattenne e le mostrò il paesaggio.-Mille
e mille anni fa questo era un ghiacciaio. Anche la terra non è con tutta
l'anima quello che momentaneamente finge di essere-egli spiegò-. Questa
creatura tondeggiante è di temperamento isterico. Oggi recita la parte della
provvida madre borghese. A quei tempi invece era frigida e gelida come una
ragazza maligna. E migliaia di anni prima si era comportata lascivamente, con
foreste di felci arboree, paludi ardenti e animali diabolici" (p.279).
E’ un momento di “sapienza silenica”: Serse, invadendo
la Grecia,
vide l'Ellesponto coperto dalle navi e dapprima si disse beato (oJ Xevrxh" eJwuto;n
ejmakavrise,
VII, 45), ma subito dopo scoppiò a piangere (meta; de; tou'to ejdavkruse) al pensiero di
quanto è breve la vita umana. Allora Artabano, lo zio paterno, lo consolò
dicendogli che, essendo la vita travagliata, la morte è il rifugio preferibile
per l'uomo ("ouJvtw"
oJ me;n qavnato" mocqhrh'" ejouvsh" th'" zovh",
katafugh; aiJretwtavth tw'/ ajnqrwvpw/ gevgone", VII, 46, 4) ndr..