Zibaldone, autografo di Leopardi |
Al
centro della poesia bucolica teocritea non è per nulla l’attività pastorale dei
pastori ma un’attività di trastullo canoro.
Leopardi, Zibaldone 57 “I nostri veri idilli teocritei non sono le egloghe del Sannazzaro[1] né
ec. ma le poesie rusticani come la Nencia[2],
Cecco da Varlungo[3] ec. bellissimi e
similissimi quelli di Teocrito nella bella rozzezza e mirabile verità, se non
in quanto sono più burleschi di quelli che pur di burlesco hanno soltanto una
tinta".
La
letteratura greca (non la lingua) comincia a degenerare da Demostene e
Alessandro in poi. Da Tucidide a Demostene si restringe alla sola Atene
Ma “ella con pochissimo intervallo risorge in
Sicilia e in Egitto, e ancora quasi in istato di creatrice. Teocrito,
Callimaco, Apollonio Rodio ec Finito il suo stato di creatrice, e dichiaratasi
la letteratura greca imitatrice e figlia di se stessa, cioè ridotta (come
sempre a lungo andare interviene) allo studio e imitazione de’ suoi propri
classici antichi” (2590).
Questa imitazione dei suoi classici la preserva
dalla corruzione. Polibio e tutta la forav –produzione-di scrittori greci del buon
tempo della letteratura latina, sono purissimi di stile e di lingua. E’ una forav (fioritura)
creatrice.. Anche i successivi Arriano, Plutarco e Luciano pur imitatori, sanno
scrivere bene e maneggiano bene lo stile e la lingua tanto che quasi le rendono
la facoltà creatrice
Invece
gli Erodi Attici (II d. C.) e gli Aristidi (Elio Aristide II d. C.) - e altri retori della seconda sofistica - sono purissimi nella lingua ma quasi di nessun
conto nello stile.
Teocrito
e altri non usarono il dialetto comune ma in altri dialetti “perché nobilitati
da autori di grido che gli avevano usati quando ancor non v’era dialetto
comune, o non ben formato né fermamente applicato e aggiustato adeguatamente
alla letteratura” (3982)
In
Italia solo qualche scrittorello non mai divenuto nazionale ha scritto in
dialetto perché nessuno è stato nobilitato da un grande scrittore.
Ancora
Leopardi, sulla pronuncia del greco in età allenistica e sui dialetti
Sull’epigramma
di Callimaco (A. P. XII, 43 Lisania, tu bello sì sei bello, ma prima che lo
ripeta
con
chiarezza l'eco, uno dice-altri lo possiede-).
Leopardi scrive che i dittonghi dapprincipio si pronunciavano sciolti. Poi da
Callimaco, come osserva il Visconti, si cominciarono a pronunciare chiusi.
Fa
l’esempio dell’epigramma 30 di Callimaco dove naivci kalovς fa ripetere a jHcwv a[lloς e[cei.
“La
qual cosa dimostra che lo scrittore dell’epigramma pronunziava nechi ed echi come i greci moderni, per naichi ed echei” (1159). Leopardi
pensa che anche i Latini al tempo di Cicerone e Virgilio pronunziassero ormai i
dittonghi chiusi come oggi.
Il
dialetto di Omero era ancora usato al tempo dei Tolomei nella decadenza della
poesia, quando la base della letteratura greca era l’imitazione de’ suoi autori
classici (3044)
Nei
tempi più antichi il dialetto più comune era lo ionico forse per il gran
commercio di quella nazione tutta marittima e mercantile. Doveva essere il
linguaggio comune che poi divenne l’attico il quale pur nacque dallo ionico.
L’italiano del Tasso è il linguaggio comune di tutta l’Italia.
I
tragici greci usarono l’attico ma usavano anche qualcosa di altri dialetti
“avendo rispetto del gran concorso de’ forestieri che d’ogni parte della Grecia
accorrevano alla rappresentazione dei drammi in Atene” (3043)
Torniamo
a Teocrito
Nel
XIV un amico consiglia all’innamorato Eschino che vuole partire mercenario
siccome lasciato da Cinisca, di arruolarsi sotto Tolomeo Filadelfo del quale
seguono elogi sperticati.
C’era
un banchetto con due pollastri, avevano macellato un porcellino da latte (coi'ron qhlavzonta) e
bevevano vino di Biblo, profumato di 4 anni; inoltre cipolle (bolbov~)
molluschi (kteiv~) e
lumache (kocliva~).
La cipolla (bolbov") è con
le conchiglie e le lumache (kocliva"), tra gli ingredienti principali
del povto"
aJduv"
(v. 17), il magnifico banchetto che svela l'amore di Cinisca nel XIV idillio di
Teocrito.
CONTINUA
[1] Arcadia (1480-1504). Arcadia
è un prosimetro
(componimento misto di prosa e di poesia), di ambientazione pastorale. Il poeta
aveva composto fin dal 1480 delle ecloghe in versi di ispirazione classica
(Virgilio, Teocrito), e col tempo attorno a queste aggregò le altre egloghe e
le parti in prosa; il testo è oggi costituito da 12 egloghe e 12 prose, più un
congedo intitolato Alla sampogna. L'opera circolò lungamente
manoscritta, ebbe una edizione scorretta e parziale finché non fu stampata a
Napoli nel 1504.
Nell'opera si narrano le vicende del pastore Sincero, sotto le cui vesti
si nasconde il poeta, nella terra greca dell'Arcadia tra i pastori che
trascorrono le loro giornate tra riti e tenzoni di canto (secondo quanto
tramandato dalla tradizione classica). L'opera, ricca di riferimenti classici e
di complessità metriche, tuttavia, è continuamente pervasa da un ricorrente
malinconia (tipica del poeta anche nelle Rime) e da presagi di morte,
nel segno dei quali si conclude il testo, con la visione dell'arancio abbattuto
(la discesa di Carlo VIII di Francia a Napoli) e la morte
della donna amata e il doloroso ritorno alla realtà. L'opera, che
sostanzialmente inventava nel mondo moderno il mito di questa terra edenica del
mondo classico, ebbe un profondo impatto sulla letteratura di tutta Europa fino
alla metà del XVII secolo (Accademia dell'Arcadia) tanto da divenire
un vero luogo comune.
[2] Di Lorenzo de’Medici, un idillio
erotico burlesco. La Nencia da
Barberino è un poemetto in ottave, attribuito a Lorenzo de' Medici, scritto probabilmente tra
il 1469 e il 1473. Nel poemetto il contadino
Vallera canta le lodi della pastorella Nencia di cui è innamorato e che dà il
nome all'opera. Il lessico si basa sul parlato popolare ed è presente una nota
di ironia e comicità. La Nencia da
Barberino è un poemetto in ottave, attribuito a Lorenzo de' Medici, scritto probabilmente tra
il 1469 e il 1473. Nel poemetto il contadino
Vallera canta le lodi della pastorella Nencia di cui è innamorato e che dà il
nome all'opera. Il lessico si basa sul parlato popolare ed è presente una nota
di ironia e comicità. Il componimento costituisce una parodia della lirica
colta. La parodia si esercita soprattutto sugli stereotipi della poesia lirica,
sulla riproduzione insensata di modelli depositati dalla tradizione che possono
venire utilizzati in un mondo addirittura opposto a quello originario. Mentre
diverte i suoi lettori colti, destinatari del poemetto, Lorenzo sembra mettere
in guardia dai rischi di un classicismo acritico e un'applicazione fine a se
stessa del principio di imitazione.[1]
[3] Il lamento di Cecco da Varlungo (1694) di Francesco Baldovini
Giovanna Tocco
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