NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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sabato 31 marzo 2018

Seneca, "Lettere a Lucilio". II parte da 73 a 114. 1


73
Ingiustamente i filosofi sono accusati di insubordinazione alle leggi dello Stato
Soli lunaeque plurimum debeo, et non uni mihi oriuntur ( 6). Cfr. Platone e Francesco d’Assisi
Stulta avaritia mortalium possessionem proprietatemque discernit distingue il possesso e la proprietà, nec quicquam suum credit esse quod publicum est; at ille sapiens nihil magis suum iudicat quam cuius illi cum humano genere consortium est” (7) quello che condivide con gli altri
itur ad astra (Eneide IX, 641 è Apollo che dice a Iulo vittorioso Macte nova virtute, puer; sic itur ad astra) per la via della frugalitas, della temperantia, della fortitudo.
Non sunt dii fastidiosi, non invidi: admittunt et ascendentibus manum porrigunt (73, 15), porgono la mano a chi sale.
Deus ad hominem venit (…) nulla sine deo mens bona est.

74
L’unico bene è la virtù
Nihil indignetur sibi accidere sciatque illa ipsa quibus laedi videtur ad conservationem universi pertinere (…) placeat homini quid quid deo placuit. ( 20)

75
La filosofia non si cura delle parole ma delle anime. In quante categorie si dividono gli uomini rispetto alla saggezza
Absoluta libertas: non homines timere, non deos, nec turpia velle nec nimia; in se ipsum habere maximam potestatem: inestimabile bonum est suum fieri. Vale (75, 18)

76
Anche da vecchi si impara
 Quaeris quid doceam? Etiam seni esse discendum (76, 3).
Tutti gli insegnanti, tutte le persone per bene, non dovrebbero mai smettere di imparare :"semper homo bonus tiro est ", l'uomo onesto fa tirocinio per tutta la vita, ha scritto Marziale[1] (12, 51, 2).
Il maestro che ha canonizzato se stesso, ha firmato il proprio atto di morte.
Dai giovani noi possiamo imparare molto su noi stessi, e dobbiamo imparare su di loro. I giovani ci curano l’anima (cfr. l’Idiota di Dost)
Al teatro di Napoli habet tubĭcen quoque Graecus et praeco concursum –il trombettiere greco e il banditore hanno un gran pubblico- at in illo loco in quo vir bonus quaeritur , in quo vir bonus discitur (dove si fa ricerca sull’uomo buono e si impara a esserelo, è la scuola di Metronatte) paucissimi sedent et hi, plerisque videntur nihil boni negotii habere quod agant; inepti et inertes vocantur –sono chiamati sciocchi e incapaci.-
 Mihi contingat iste derīsus: aequo animo audienda sunt inperitorum convicia et ad honesta vadenti contemnendus est ipse contemptus (76, 4).
In homine quid est optimum? Ratio:hac antecedit animalia, deos sequitur. Ratio ergo perfecta proprium bonum est, cetera illi cum animalibus satisque communia sunt.- con gli animali e le piante- Valet; et leones, Formonsus est: et pavones. Velox est: et equi. Corpus habet: et arbores (76, 9)
Quae condicio rerum, eadem hominum est. Navis bona dicitur non quae pretiosis coloribus picta est, sed stabilis et firma, gubernaculo parens, velox et non sentiens ventum (13)
 Ergo in homine quoque, nihil ad rem pertinet quantum aret, quantum feneret, a quam multis salutetur, quam pretioso incumbat lecto, quam perlucido poculo bibat, sed quam bonus sit. Bonus autem est si ratio eius explicita et recta est et ad naturae suae voluntatem accomodata” (76, 15).
Honestum in hoc positum est et parere diis nec excandescere ad subita nec deplorare sortem suam, sed patienter excipere fatum et facere imperata (76, 23).
Ego hominem paravi ad humana (76, 33)

77
L’arrivo delle navi da Alessandria. La morte di Marcellino
 Series invicta et nullā mutabilis ope inligavit et trahit cuncta (77, 12) una ferrea concatenazione e che nessuna forza può mutare ha legato e trae a sé tutto
Quomodo fabula sic vita: non quam diu , sed quam bene acta sit refert (77, 20).
Cfr. Epitteto : mevmnhso o[ti uJpokrith;~ ei\ dravmto~ , oi{ou a]n qevlh/ didavskalo~, di quale lo decide il regista, se breve di uno breve, se lungo di uno lungo, se vuole che tu reciti la parte di un mendicante, cerca di recitarla bene, e così quella di uno zoppo, di un magistrato etc so;n ga;r tou`t j e[sti, to; doqe;n uJpokrivnasqai provswpon kalw`~: ejklevxasqai d j aujto; a[llou (Manuale, 17)

78
Le malattie non sono da temersi
 Quidqid animum erexit etiam corpori prodest. Studia mihi nostra saluti fuerunt (78, 3).
Duo genera sunt voluptatum. Corporales morbus inhibet, non tamen tollit (…) la malattia limita quelli fisici illas vero animi voluptates , quae maiores certioresque sunt, nemo medicus aegro negat (22)
Nam, ut Posidonius ait: unus dies hominum eruditorum plus patet quam imperitis longissima aetas” (78, 28)

 79
L’Etna. La virtù e la gloria
L’Etna è stata trattata da Virgilio (Eneide III 571 e sgg.) e Ovidio (Metamorfosi, XV. 340 e sgg.) ma Lucilio può scriverne ancora: materia crescit in dies et inventuris inventa non obstant (6) le parole trovate non sono di ostacolo a quelli che vogliono trovarne altre. Praeterea condicio optima est ultimi: parata verba invenit quae aliter instructa novam faciem habent, trova pronte delle parole che diversamente disposte hanno un aspetto nuovo. Del resto sulle parole non c’è proprietà privata; sunt enim publica. Il nostro animus tende al sublime: sursum illum vocant initia sua (12)-le sue origini lo chiamano in alto.
Paucis natus est qui populum aetatis suae cogitat (17) è nato per pochi chi pensa agli uomini della sua età. Multa annorum milia, multa populorum supervenient: ad illa respice. Etiam si omnibus tecum viventibus silentium livor indixerit, venient qui sine offensa, sine gratia iudicent, anche se il livore avrà intimato il silenzio a tutti i tuoi contemporanei, verrà chi sappia giudicarti senza avversione né compiacenza. E’ il
posterorum negotium ago (Ep. 8, 2)
Nella lettera a Pietro Giordani del 16 gennaio 1818, Leopardi scrive: “né io sarò meno virtuoso né meno magnanimo (dove ora sia tale) perché un asino di libraio non mi voglia stampare un libro, o una schiuma di giornalista parlarne”.
  
80
Gli esercizi del corpo e quelli dello spirito
Horum qui felices vocantur hilaritas ficta est aut gravis et suppurata tristitia (6), la gaiezza di costoro (i ricchi) che sono chiamati felici è finta o è una pesante e incancrenita tristezza, anche se per loro necesse est agere felicem, recitare la parte dell’uomo felice in questo humanae vitae mimus, questa farsa, pupazzata della vita umana.
 La felicità di molti è solo una maschera –omnium istorum personata felicitas est. Contemnes illos si dispoliaveris- ( 8).

81
Sui benefici e sulla gratitudine
Est tanti, ut gratum invenias, experiri et ingratos (2). Vale la pena sperimentare anche gli ingrati per trovarne uno grato
 Negamus quemquam scire gratiam referre nisi sapientem ( 10)
Nel saggio si trova la vera onestà apud vulgum simulacra rerum honestarum et effigies, presso il volgo solo l’immagine e l’apparenza dell’onestà.
 Allo stolto manchi la scienza, imparabile, piuttosto che la volontà: velle non discitur ( 13). Le virtù non si praticano per il premio virtutum omnium pretium in ipsis est. Non enim exercentur ad premium: recte facti fecisse merces est ( 19)
Malitia ipsa maximam partem veneni sui bibit (22)
Torquet se ingratus et macerat¸ odit quae accepit, quia redditurus est (…) at contra sapientia exornat omne beneficium ac sibi ipsa commendat-lo fa valere- et se adsidua eius commemoratione delectat (23).

La gratitudine costa molto, eppura nulla è più bello della gratitudine


CONTINUA



[1] 40ca- 104 d. C.

giovedì 29 marzo 2018

Twitter, CCCXX sunto. La Pasqua del 2018

Raffaello, Resurrezione

La Pasqua del 2018

Dedicato ad Antonia Sommacal, la vicepreside della scuola media Ugo Foscolo di Carmignano di Brenta dove insegnai dal 1969 al 1974.
Ricordo Antonia come la mia amica più cara anche se non è mai stata mia amante.

Le vacanze mi fanno capire perché sono comunista nel senso etimologico di uomo che vive per la comunità. Funziono bene nel pubblico (la scuola, le conferenze, i collegi, i convegni). Nel privato no, a parte gli amori peraltro di breve durata o intermittenti.
Amici, amanti, perfino i parenti superstiti, per le feste mi lasciano solo. Nonni, mamma, zie non ci sono più.
Tuttavia magna pars ex iis quos amavimus apud nos manet, nostrum est quod praeterit tempus, gran parte di quelli che abbiamo amato rimangono in noi, il tempo passato ci appartiene.
 I nonni le zie la mamma che andavo a trovare per le feste e pure le amanti che per le feste comandate rincasavano, per giunta con il proposito di non tornare più nel mio povero ostello.

Probabilmente avrei fatto bene anche il prete, ma quando ero giovane i cattolici criminalizzavano il sesso. Il cosiddetto, il presunto cristianesimo, quello che ha drogato Eros trasformandolo in vizio, non era religione per me. Invece mi piace quella del vicario autentico, il cristiano Papa Francesco, e dei preti buoni e bravi che il compagno Pontefice manda a fare i vescovi in città come Bologna e Palermo.

Sono molto contento delle tante gioie provate, degli amori, degli affetti: quia non perforato animo hauriebam, poiché accoglievo nell'animo tanta grazia di Dio non come fa un vaso sfondato con l’acqua, l’ottima acqua.

I partiti vincitori sono stati votati dalla borghesia infima che teme la proletarizzazione e odia il proletariato, da molti giovani arrabbiati e confusi, e pure dal sottoproletariato sempre pronto a mene reazionarie.
Molti tra questi sono epigoni della piccola borghesia che appoggiò il maestro cialtrone Benito Mussolini.
La borghesia meno bassa e gli abbienti hanno votato PD che negli ultimi anni ha fatto i loro interessi, gli studiosi e pochi altri hanno votato LEU. Altri ancora hanno disperso il voto.

Salvini ha detto di essere favorevole a scuola-lavoro. Ogni cosa a suo tempo. Scuola e lavoro messi incongruamente insieme si guastano e sconciano a vicenda. Ma a Salvini gli ignoranti fanno comodo.
Il terrorismo più presente e pernicioso in Italia è quello che uccide quotidianamente gli operai nel lavoro. Poi c'è quello delle automobili che ammazzano i pedoni anche sulle strisce. Tutti crimini il più delle volte impuniti. Di questi terrorismi Manniti o altri non hanno, ahimé, cura

giovanni ghiselli, detto gianni, il poverello di Pesaro dal suo povero ostello bolognese, in solitudine e pace.
 Tanti auguri a tutti

martedì 27 marzo 2018

Twitter, CCCXIX sunto


27 marzo 2018

Suggerisco di spegnere il televisore appena compare la faccia irrisoria di Fazio i cui compensi insultano il pudore e la serietà del lavoro. Non lasciatevi ingannare dagli ambigui sorrisi dei prosseneti


Spesso sento con disgusto della gentucola vantare denari e titoli che oltretutto il più delle volte non hanno. Io per giunta preferisco umanità senza denaro e titoli a denaro e titoli senza umanità. Se denaro e titoli ci sono, è elegante dissimularli. La feccia li simula

Il proletario che si finge borghese non assomiglia a se stesso, anzi non assomiglia a nessuno: è aeikèlios (cfr. eoika, "sono simile") E' plebe sconcia, brutta assai. Il proletario per lo meno ha la prole. Io nemmeno quella. Mi piacerebbe essere proletario. Alla feccia dispiace


“Né io sarò meno virtuoso né meno magnanimo (dove ora sia tale) perché un asino di libraio non mi voglia stampare un libro, o una schiuma di giornalista parlarne” (Leopardi, lettera A Pietro Giordani- Milano, Recanati 16 gennaio 1818 ).

Quanti sbandierano il razzismo più odioso: quello che divide gli umani in maschi e femmine, un genere superiore all'altro, secondo la moda, sono più indietro della Nora di Ibsen che dice al marito: credo di essere anzitutto un essere umano, come lo sei tu" (Casa di bambola, 1879)
Quelli che detestano la ricerca delle cause, l'eziologia, la chiamano dietrologia, o, se meno rozzi, denunciano la "filologia deretana".
I grammatici, custodes Latini sermones, la chiamavano, invero alla greca, aetiologian. Io credo che cercare le cause equivalga a volere la verità (alètheia), la non latenza

Attenzione alle abbuffate pasquali!

Il garum, costoso marciume di pesci andati a male, pretiosam malorum piscium saniem non credi che ti bruci le viscere con la sua salata e putrida poltiglia? non urere salsa tabe praecordia credis? (Seneca, Ep. 95, 25)

Quid? Illa ostrea, inertissimam carnem caeno saginatam, nihil existimas limosae gravitatis inferre? Cosa credi? Quelle ostriche, carne pigrissima, ingrassata nel fango, credi che non apporti niente della sua limacciosa pesantezza? ( Seneca Ep. 95, 25)

La moda dei cuochi
nnumerabiles esse morbos non miraberis: cocos numera
(...) In rhetorum ac philosophorum scholis solitudo est: at quam celebres culinae sunt (Seneca, Ep., 95, 23)


Il mio blog è arrivato a 614190.  
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sabato 24 marzo 2018

Il pathos come elemento educativo. parte 2

Christa Wolf

Il pathos come elemento educativo, come propedeutico all’intelligenza e alla comprensione

Conferenza del 27 febbraio 2018, ore 18, al circolo ARCI Trigari, via Bertini, 9/2, Bologna

Parte 2


Tuttavia lo qumov" spesso prevale; anzi molte volte le riflessioni e pure i ragionamenti traggono la loro origine da stati emotivi.
La Medea di Euripide individua nel suo animo un conflitto tra la passione furente e i ragionamenti, quindi comprende che l'emotività, sebbene sia causa dei massimi mali per gli uomini, è comunque più forte dei suoi propositi: "Kai; manqavnw me;n oi|a dra'n mevllw kakav,-qumo;" de; kreivsswn tw'n ejmw'n bouleumavtwn,-o{sper megivstwn ai[tio" kakw'n brotoi'""( vv. 1078-1080), capisco quale abominio sto per compiere, ma più forte dei miei ragionamenti è la passione, che è causa dei mali più grandi per i mortali", dirà la furente nel quinto episodio dopo avere preso la decisione folle di uccidere i figli.

Un'eco lontana di questa situazione si trova nelle Metamorfosi di Ovidio dove Medea cerca di contrastare, senza successo, la passione per Giasone "et luctata diu, postquam ratione furorem/ vincere non poterat, "Frustra, Medea, repugnas." (VII, vv. 10-11), e dopo avere combattuto a lungo, dacché non poteva vincere la follia amorosa con la ragione, si disse "ti opponi invano, Medea".

Medea anche nel teatro senecano incarna, come Fedra, il furor che prevale sulla ratio in seguito al ripudio del lovgo" . Questo può dare coscienza del bene ma il furor costringe a seguire il male.
Il terzo atto (vv. 381-579) della Medea inizia con un discorso della nutrice che consiglia all'alumna di moderare l'ira prossima a scatenarsi, quindi, in un a parte, descrive il furore dell'alumna che ha preso l'aspetto di una Menade invasata dal dio:"Se vincet: irae novimus veteras notas./Magnum aliquid instat, efferum, immane, impium:/vultum furoris cerno. Di fallant metum!" (v. 395-397), supererà se stessa: conosco i segni antichi della rabbia. Ci sovrasta qualche cosa di enorme, di feroce, di inumano, di empio: vedo il volto del furore. Gli dèi possano sbugiardare la mia paura!
Nel primo verso c'è una reminiscenza dell'Eneide [1].
Medea replica parlando a se stessa: il suo furore è naturale per una donna ferita con la piaga più grave e dolorosa: quella dell'oltraggio arrecato alla sfera sentimentale e sessuale.
Un'affermazione che si trova già nella Medea di Euripide: " La donna infatti per il resto è piena di paura/e vile davanti a un atto di forza e a guardare un'arma;/ma quando sia offesa nel letto (ej" d j eujnh;n hjdikhmevnh) ,/non c'è non c'è altro cuore più sanguinario (oujk e[stin a[llh frh;n miaifonwtevra). ( vv. 263- 266).
Torniamo alla madre furente di Seneca
 Medea dunque, umiliata dall'uomo che ama, prova una furia implacabile:"numquam meus cessabit in poenas furor,/crescetque semper " (vv. 407-408), il mio furore non cesserà di cercare vendette, e crescerà sempre.

Il concetto è espresso chiaramente dalla Fedra di Seneca che lo riprende dall'Ippolito di Euripide: "Quae memoras, scio/vera esse, nutrix; sed furor cogit sequi peiora. Vadit animus in praeceps sciens,/remeatque, frustra sana consilia adpetens" (vv. 178-181), so che quanto mi rammenti è vero, nutrice; ma il furore mi costringe a seguire il peggio. Il mio animo si avvia al precipizio e lo sa, poi torna a cercare invano sani propositi
Pohlenz attribuisce anche all’ Edipo di Sofocle la prevalenza dello qumov~: “Lineamento fondamentale del suo essere è lo thymós, la calda impulsività, che un tempo, quando aveva incontrato il padre e quando poi aveva scoperto il proprio delitto, lo aveva indotto ad atti troppo subitanei, e neppure ora, nella vecchiaia, lo aveva abbandonato. E se al momento dell’estremo commiato egli dice alle figlie: “Nessuno vi ha amato mai come me, noi sappiamo che quest’uomo sa anche odiare come nessun altro. Anche i propri figli”[2].

Piuttosto emotiva che razionale è anche la Medea, pur innocente, di Christa Wolf: "era, come potrei dire, troppo femmina, cosa che ne coloriva anche il pensiero. Lei pensava, ma perché ne parlo al passato, lei ritiene che le idee si siano sviluppate dai sensi e che non dovrebbero perdere quel legame. Antiquata naturalmente, superata"[3].
E’ Acamante, l'astronomo di corte del re di Corinto, che parla.
Euripide, quale anticipatore di motivi dell’Ellenismo, talora è già postfilosofico[4] e antepone la sensibilità alla ragione.
Al verso 485 della Medea, rievocando i delitti compiuti per amore, la nipote del sole si definisce: "provqumo" ma'llon h] sofwtevra", passionale più che saggia.

Così pure Foscolo:"Cos'è l'uomo se tu lo abbandoni alla sola ragione fredda, calcolatrice? scellerato, e scellerato bassamente"[5]. Il cuore è la parte più nobile e viva della persona di Iacopo Ortis:"se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo caccerò come un servo infedele"[6].
Il temperamento di Medea può confutare il presunto razionalismo di Euripide, quello che Nietzsche chiama "socratismo estetico, la cui legge suprema suona a un dipresso:"Tutto deve essere razionale per essere bello", come proposizione parallela al principio socratico :"solo chi sa è virtuoso"[7].
Un'altra confutazione della supposta[8] sintonia e complicità tra Euripide e Socrate[9] la fornisce Fedra quando nell'Ippolito dice: "bisogna considerare questo:/il bene lo conosciamo e riconosciamo,/ma non lo costruiamo nella fatica (oujk ejkponou'men: il bene topicamente costa povno" , fatica) , alcuni per infingardaggine (ajrgiva" u{po),/ alcuni anteponendogli qualche altro piacere./ E sono molti i piaceri della vita:/lunghe conversazioni makrai; levscai, , l'ozio, diletto cattivo[10], (scolhv, terpno;n kakovn) l'irrisolutezza (aijdwv" te, una forma brutta di aijdwv" ) "(vv.379-385).
Esiodo aveva distinto una forma buona di aijdwv" da una cattiva.
La prima è il rispetto, il pudore, che con lo sdegno (nevmesi"), la Giustizia, la Gratitudine tengono l’umanità lontana dal male. Se tali valori divini lasceranno la terra e voleranno sull’Olimpo kakou' d j oujk e[ssetai ajlkhv (201). La seconda aijdwv", quella non buona (oujk ajgaqhv), accompagna l’uomo indigente che si vergogna di esserlo, l’aijdwv" infatti può recare danno o giovamento agli uomini. La vergogna è legata alla miseria, mentre il coraggio al benessere (Opere e giorni, 317-319).

Anche questa situazione ha un'eco nelle Metamorfosi di Ovidio dove Medea, pochi versi dopo quelli citati sopra, aggiunge: "sed trahit invitam nova vis, aliudque cupido,/mens aliud suadet: video meliora proboque/, deteriora sequor! quid in hospite, regia virgo,/ureris et thalamos alieni concipis orbis?" (VII, vv. 19-22), ma contro voglia mi trascina una forza mai sentita, altro consiglia il desiderio, altro la mente: vedo il meglio e l'approvo, seguo il peggio! Perché ragazza, figliola di re, ti infiammi per uno straniero, e desideri il talamo di un mondo estraneo? Un'eco precisa dei vv. 20-21 si trova alla fine della Canzone XXI del Petrarca:"cerco del viver mio novo consiglio;/e veggio 'l meglio et al peggior m'appiglio" (Il Canzoniere CCLXIV, vv. 135-136).

Nelle Heroides di Ovidio, Medea alla fine della sua Epistula Iasoni dichiara:"Quo feret ira sequar. Facti fortasse pigebit " (Heroides , XII, 211), andrò dove mi porterà la rabbia. Forse mi pentirò del misfatto. Un pentimento presofferto ma non evitabile dal momento che la parte emotiva prevale su quella razionale e pure su quella etica.

In un distico dei Remedia Amoris[11] Ovidio afferma in prima persona che la propria fedeltà al dio Amore rimane comunque, e aggiunge che le sue teorie di maestro erotico se pure sono razionali, hanno un fondamento passionale: "Quin etiam docui, qua posses arte parari,/et, quod nunc ratio est, impetus ante fuit" (vv. 9-10), anzi ho perfino insegnato con quale arte ti si possa conquistare, e quella che è ora una teoria, prima fu slancio.

"Euripide… non fu precisamente il razionalistico "poeta dell'illuminismo greco". Fu il poeta che meglio di ogni altro seppe ascoltare i moti più segreti del cuore umano e avvertì in tutta la loro gravità i conflitti che ora ne scaturivano. Il desiderio di vendetta di Medea emerge dalle insondabili profondità della sua anima, e appena arriva alla soglia della coscienza ha inizio nell'intimo del personaggio una dura, inesorabile lotta, in cui la ragione e l'amore materno soccombono alla passionalità del qumov" . La vita ha insegnato ad Euripide che noi abbiamo in genere chiara coscienza del bene, ma non lo attuiamo perché gli impulsi irrazionali sono più forti"[12].


CONTINUA



[1] Didone male sana (Eneide IV, v. 8) che   non sta bene , rivela alla sorella il suo amore: dopo l'assassinio di Sicheo, perpetrato da Pigmalione, solo Enea ha scosso i suoi sensi e ha colpito l'animo in modo da farlo vacillare:"Adgnosco veteris vestigia flammae " (, v. 23), riconosco i segni dell'antica fiamma.  Se ne ricorderà anche Dante mettendone una traduzione letterale nel Purgatorio: "conosco i segni dell'antica fiamma" (XXX, 48). Ogni autore conosce la tradizione e se ne avvale come base aggiungendo del suo. Così l'edificio cresce. 
[2] M. Pohlenz, La tragedia greca, p. 394.
[3] Medea, p. 117.
[4] “Questi poeti ellenistici erano, per dirla in una parola, post-filosofici, mentre i poeti arcaici erano pre-filosofici” (Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, p. 371).
[5] Ultime lettere di Iacopo Ortis, 28 ottobre 1797.
[6] Ultime lettere di Iacopo Ortis, 15 maggio, 1798.
[7]La nascita della tragedia, p. 85.
[8] Da Nietzsche appunto che definisce il maestro di Platone un logico dispotico:" Basta pensare alle conseguenze delle proposizioni socratiche:"La virtù è il sapere; si pecca solo per ignoranza; il virtuoso è felice"; in queste tre forme fondamentali di ottimismo sta la morte della tragedia" (La nascita della tragedia, p. 96). Alla fine delle Rane di Aristofane, dopo che Dioniso ha attribuito la vittoria a Eschilo nella contesa con Euripide, il Coro afferma che è una bella cosa non stare seduto a cianciare (lalei'n) con Socrate disprezzando la musica e trascurando la grandezza dell'arte tragica (vv. 1491-1495)  
[9] Il quale nell'opera di Platone sostiene che facciamo il male per ignoranza del bene, e, se solo conosciamo il bene. non possiamo fare il male.
[10] Il piacere dell'ozio come sirena che distoglie dal fare cose egregie è denunciato anche da Tacito nell'Agricola:"subit quippe etiam ipsius inertiae dulcedo, et invisa primo desidia postremo amatur " (3), infatti si insinua  anche il piacere della stessa passività, e alla fine si ama l'accidia dapprima odiosa.
L'ozio che fa male si trova pure nel carme 51 di Catullo:"Otium, Catulle, tibi molestum est (v.13), lo star senza far niente ti fa male, Catullo.  
[11]  Poemetto di 814 versi (412 distici elegiaci) che appartiene al periodo conclusivo della prima parte della produzione ovidiana, quella elegiaco- amorosa che  arriva al 2 d. C. 
[12] M. Pohlenz, L'uomo greco, p. 624.

venerdì 23 marzo 2018

Lucrezio, "De rerum natura". V libro. Parte 2




Torniamo a Lucrezio.
Il mondo per giunta è un luogo di sofferenza quid obest non esse creatum? (De rerum natura, V, 180) che danno ci sarebbe?
Dunque, se pure ignorassi l’origine delle cose, tuttavia dalle stesse vicende del cielo e dagli altri fenomeni ausim confirmare
nequaquam nobis divinitus esse paratam
Naturam rerum: tanta stat praedita culpa (198-199) che in nessun modo per volere divino in nostro favore è stata preparata la natura del mondo

La terra produce frutti solo in seguito a grandi sforzi degli uomini.
A volte le fatiche vengono annichilite dal tempo maligno
Poi c’è il genus horriferum ferarum humanae genti infestum (219), i morbi portati dalle stagioni, la mors immatura.
Il puer è ut saevis proiectus ab undis- navita (223-4), come il navigante gettato via dalle onde infuriate egli (il puer) nudus humi iacet, infans, indigus omni vitali ausilio.
Appena la natura lo ha gettato sulle sponde della vita dal grembo materno con doglie “cum primum in luminis oras-nixibus ex alvo matris natura profudit- vagituque locum lugubri complet, ut aequum est-cui tantum in vita restet transire malorum” (223-7)

Excursus A proposito di nixibus
I dolori del parto.
L’invidia e il risentimento dell’uomo.

 

Famosissimi sono questi versi della Medea di Euripide pronunciati dalla stessa protagonista eponima della tragedia:

Dicono di noi che viviamo una vita senza pericoli

in casa, mentre loro combattono con la lancia,

pensando male: poiché io preferirei stare tre volte accanto a uno scudo piuttosto che partorire una volta sola”. (248- 251).

Medea afferma di preferire la guerra al parto inaugurando un tovpo" che potrebbe essere condiviso dalle soldatesse di oggi.
Ennio (239-169 a. C.) fa dire alla sua Medea exul :"nam ter sub armis malim vitam cernere/quam semel parere, infatti preferirei decidere la vita sotto le armi tre volte, che partorire una volta sola.
Medea dunque avverte gli uomini che il parto può essere più tremendo della guerra.
Del resto il letto è il mobile più importante della casa e talora è il campo di battaglia della donna.

Le sofferenze del parto sono ricordate nell' Elettra di Sofocle da Clitennestra, quando l’adultera assassina di Agamennone tenta di giustificarsi per il trattamento riservato al marito il quale non era incolpevole: egli sacrificò Ifigenia dopo averla seminata, senza avere passato il travaglio della madre quando la partorì: "oujk i[son kamw;n ejmoi;-luvph", o{t' e[speir' , w{sper hJ tivktous' ejgwv" ( vv. 531-532).
Qui, all’opposto di quanto sostiene Apollo nelle Eumenidi, il seminare conta meno del partorire.

Nelle Fenicie di Euripide, la Corifea commenta la pena di Giocasta per Polinice dicendo:"deino;n gunaixi;n aiJ di' wjdivnwn gonaiv,-kai; filovteknovn pw" pa'n gunaikei'on gevno"" (vv. 355-356), sono terribili per le donne i parti attraverso le doglie, e tutta la razza femminile è in qualche modo amante dei figli.

Giocasta lo è stata anche troppo con Edipo; Medea evidentemente fa eccezione.
Nell' Ifigenia in Aulide la Corifea comprende la pena di Clitennestra per la figliola, ricordando quale prova terribile sia il parto:"deino;n to; tivktein kai; fevrei fivltron mevga-pa'sivn te koino;n w{sq' uJperkavmnein tevknwn" (vv. 917-918), tremendo è partorire e comporta una grande magia d’amore comune a tutte, tanto da soffrire per i figli.
Partorire dunque è una delle cose tremende (ta; deinav).
Nei Memorabili di Senofonte, Socrate, ricordando al figlio Lamprocle i benefici dei genitori alle proprie creature e il dovere della gratitudine, fa presente che “il nascimento” mette a repentaglio la vita della madre:" hJ de; gunh; uJpodexamevnh te fevrei to; fortivon tou'to, barunomevnh te kai; kinduneuvousa peri; tou' bivou" (II, 2, 5), la donna, dopo avere concepito, porta questo peso, aggravata e con rischio della vita.
In Anna Karenina c'è il parto doloroso della giovane moglie di Levin il quale partecipa, mentalmente, alla sua sofferenza, forse ingrandendola :" La faccia di Kitty non c'era più. Al posto dov'era prima, c'era qualcosa di terribile e per l'aspetto di tensione e per il suono che di là usciva. Egli lasciò cadere la testa sul legno del letto, sentendo che il cuore gli si spezzava. L'orribile urlo non taceva, si era fatto ancora più orribile, e, come se fosse arrivato all'ultimo limite dell'orrore, a un tratto si spense" [1].

Eppure molti uomini provano invidia per questa facoltà esclusivamente femminile: Nerone recitava anche in ruoli femminili, e una volta, mentre stava interpretando Canace partoriente la quale ebbe un figlio dal fratello Macareo, chiesero dell’imperatore, e un soldato rispose: “partorisce”[2].

Altri maschi hanno del risentimento nei confronti di questa creatività femminile.
Sentiamo Giasone nella Medea di Euripide :"Crh'n ga;r a[lloqevn poqen brotou;"-pai'da" teknou'sqai, qh'lu d j oujk ei\nai gevno": -cou{tw" a]n oujk h\n oujde;n ajnqrwvpoi" kakovn" (vv. 573-575), bisognerebbe in effetti che gli uomini da qualche altro luogo/generassero i figli e che la razza delle femmine non esistesse:/e così non esisterebbe nessun male per gli uomini.
Insomma il male è la femmina.

Nell'Ippolito di Euripide, il protagonista, sdegnato con la matrigna, è talmente disgustato e terrorizzato dalle donne, ingannevole male per gli uomini ("kivbdhlon ajnqrwvpoi" kakovn", v. 616), male grande ("kako;n mevga", v. 627), creatura perniciosa, o, più letteralmente, frutto dell'ate[3] ("ajthrovn[4]... futovn", v. 630), che auspica la loro collocazione presso muti morsi di fiere (vv. 646-647) e la propagazione della razza umana senza la partecipazione delle femmine umane.
Traduco alcune parole del "puro" folle che dà in escandescenze:
 "O Zeus perché ponesti nella luce del sole le donne, ingannevole male per gli uomini (kivbhdlon ajnqrwvpoi~ kakovn) ? Se infatti volevi seminare la stirpe umana, non era necessario ottenere questo dalle donne , ma bastava che i mortali mettendo in cambio nei tuoi templi oro e ferro o un peso di bronzo, comprassero discendenza di figli, ciascuno del valore del dono offerto, e vivessero in case libere, senza le femmine. Ora invece quando dapprima stiamo per portare in casa quel malanno, sperperiamo la prosperità della casa" (vv. 616-626).
Fine excursus

Cfr. Leopardi “Nasce l’uomo a fatica/ed è rischio di morte il nascimento./Prova pena e tormento//per prima cosa; e in sul principio stesso//la madre e il genitore/il prende a consolar dell’esser nato./Poi che crescendo viene,/l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre/con atti e con parole/studiasi fargli core,/e consolarlo dell’umano stato:/altro ufficio più grato/non si fa da parenti alla lor prole./Ma perché dare al sole,/perché reggere in vita/chi poi di quella consolar convenga?/Se la vita è sventura/perché da noi si dura?” (Canto notturno, 39-56)

Crescono più facilmente le fiere che non hanno bisogno di ninnoli (nec crepitacillis opus est-sonaglini, v. 229) né di nutrici che sussurrino e balbettino,
nec varias quaerunt vestis pro tempore caeli (231) e non necessitano di armi né muraglie (234)
Il cielo e la terra come sono ora non ci saranno più.
La terra è madre e sepolcro qodcumque alit auget,- redditur, (257-258) tutto quello che alimenta e accresce le viene restituito
Ella è “omniparens eadem rerum commune sepulcrum” (259).

Cfr. Shakespeare, Macbeth: “poor country, it cannot be called our mother, but our grave (IV, 3). E’ il nobile Ross che parla.
Ergo terra tibi libatur et aucta recrescit (260), dunque eccoti la terra si riduce e aumentata ricresce, poiché è evidente che tutto l’universo scorre in eterno ( assidue quoniam fluere omnia constat, 280).

Tutto è vinto dal tempo: le pietre, le torri, le montagne, il sole, le stelle.
Denique non lapides quoque vinci cernis ab aevo –non vedi che anche le pietre-/non altas turris ruere et putrescere saxa-sgretolarsi le rocce-/non delūbra deum simulacraque fessa fatisci-dissolversi affaticati cfr, 3, 458 dove animus anima e corpus si dissolvono insieme stremati dall’età videmus aevo fessa fatisci, /nec sanctum numen fati protollere finis/posse- il dio santo non può protrarre i termini del fato- neque adversus naturae foedera niti? né fare sforzi contro le leggi della natura? (306-310)


CONTINUA


[1] L. Tolstoj, Anna Karenina (del 1877), p. 720.
[2] Il soldato rispose -tivktei-, a uno che gli aveva domandato tiv poiei' oJ aujtokravtwr; ( Casssio Dione, 63, 10) 
[3] L'accecamento mentale, una smisurata forza irrazionale.
[4] La protagonista dell'Andromaca fa l'ipotesi:" eij gunaikev~ ejsmen ajthro;n kakovn "(Andromaca, v. 353), se noi donne siamo un male pernicioso.

giovedì 22 marzo 2018

Twitter, CCCXVIII sunto.

Beppe Severgnini

Voglio verità e giustizia. Mi mancano quanto il sole

L'abolizione dell'articolo 18 ha fatto molte vittime, da tutte le parti: è ora di ripristinarlo.

Quelli che hanno ammazzato Biagi sono, giustamente, in galera da anni, quelli che dicono di avere ammazzato Moro e 5 uomini della sua scorta sono liberi da molto tempo e possono pontificare in molte televisioni. Perché? Provate a pensarci. Non è difficile la risposta.
Non si può assimilare Biagi a Moro. Questo ha pagato con la vita il tentativo di avvicinare i comunisti al governo, Biagi ha avviato la flessibilità, ottima per alcuni, pessima per altri, quorum ego.
Comunque nessuno dei due doveva essere ucciso. La ragione di Stato è la tutela della vita.

Moro e Biagi hanno in comune soltanto il fatto di essere stati abbandonati dallo Stato, lasciati soli davanti ai loro assassini.
Quelli di Biagi per lo meno sono stati messi giustamente in galera, quelli di Moro non si sa nemmeno quali e quanti furono né chi furono i mandanti. 

Ancora sull'assassinio di Moro. Ricordo che il vescovo di Ivrea, l’ottimo Monsignor Bettazzi, disse con espressione desolata che aveva sentito in Vaticano un alto prelato citare da vangelo di Giovanni il detto ipocritamente feroce di Caiphas  (11, 50) il  : “expedit vobis ut unus moriatur homo pro populo”. Finché quel crimine rimarrà oscurato non potrà esserci verità né giustizia.

Severgnini propone che studenti e insegnanti stiano tutto il giorno a scuola. Quando studieranno individualmente? Quando leggeranno, tradurranno, risolveranno problemi da soli, penseranno? Mai. E diventeranno come Severgnini: belli, colti e intelligenti esattamente come lui.



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Antonio Caia Gianni, sei geniale ! Sono completamente d'accordo con te.
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Gabriella Novara
Gabriella Novara 👍👍👍👍👍👍
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Patrizia Mazzotti
Patrizia Mazzotti E irritanti come lui......😤un saputello fastidioso. .....ed esteticamente insignificante a mio modesto avviso 😘