giovedì 17 ottobre 2019

Alessandro il Grande. Parte quarta. Detrattori di Alessandro Magno

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Tito Livio IX, 17 - 19

Alessandro morì giovane senza avere mai provato l’avversa fortuna: “nondum alteram fortunam expertus decessit ”.
Ciro e Pompeo le furono esposti da una lunga vita.
 Nei consoli romani che lo avrebbero combattuto (Tito Manlio Torquato p. e.)  c’era  indoles eadem quae in Alexandro animi ingeniique (9, 17, 9) la medesima qualità naturale di coraggio e di ingegno che in Alessandro, e in più la disciplina militaris, la quale “iam inde ab initiis urbis tradita per manus, in artis perpetuis praeceptis ordinatae modum venerat ” (9, 17, 10), già fin dagli inizi della città tramandata di mano in mano, era giunta a una forma d’arte regolata da norme immutabili.

Tito Manlio Torquato durante la guerra contro i Latini (340 - 338 a. C.) condannò a morte il figlio che aveva osato combattere contro il suo ordine, di capo e di padre, dopo averlo accusato in questo modo:"tu, T. Manli, neque imperium consulare neque maiestatem patriam veritus, adversus edictum nostrum extra ordinem in hostem pugnasti, et, quantum in te fuit, disciplinam militarem, qua stetit ad hanc diem Romana res  solvisti " (Livio, 8, 7, 15) tu, Tito Manlio, senza riguardo per il comando dei consoli e per l'autorità paterna, hai combattuto il nemico contro le nostre disposizioni, fuori dallo schieramento, e, per quanto è dipeso da te, hai dissolto la disciplina militare, sulla quale sino ad ora si è fondata la potenza romana.

G. De Sanctis commenta questa guerra notando che la forza vincente dei Romani era "la consuetudine di sfruttare nella lotta per l'esistenza tutte le forze fino al limite estremo senza alcuna compassione di sé"[1].

Insomma la disciplina per i Romani del tempo di Al. era fas, legge divina, legge di natura, non mos, costume soggetto a mutamenti.
Non avrebbero ceduto ad Alessandro, insignes ante milites quam duces (Livio Manlio Torquato e Valerio Corvo[2], 9, 17, 13) distinti come soldati prima che comandanti, né i Deci , devotis corporibus in hostem ruentes[3], che si erano precipitati contro il nemico con i corpi consacrati, né Papirio Cursore[4] illo corporis robore, illo animi! (9, 17, 14).
 Nemmeno quel Senato, di cui Cinea[5] ambasciatore di Pirro a Roma ex regibus constare dixit disse che era formato da re, vinctus esset consiliis iuvenis unius (9, 17, 14), sarebbe stato vinto dagli accorgimenti di un giovane.
    Se Alessandro si fosse incontrato con uomini grandi quanto i consoli romani Manlio Torquato, Valerio Corvo, i Deci, Papirio Cursore, o con i senatori, avrebbe detto che non aveva a che fare con Dario, praedam verĭus quam hostem, che egli aveva sbaragliato incruentus[6], senza spargimento di sangue, mulierum ac spadonum agmen trahentem, mentre (Dario) si tirava dietro uno stuolo di donne e di castrati, oneratum fortunae apparatibus suae, appesantito dallo sfarzo della sua fortuna.
Alessandro non osò altro che disprezzare opportunamente quella vanità: nihil aliud quam bene ausus vana contemnere (9, 17, 16).
Inoltre: era altra cosa l’Italia dall’India per quam temulento agmine comisabundus incessit (9, 17, 17) attraverso la quale passò gozzovigliando con uno stuolo di ubriachi.
Non ebbe nemmeno la forza di sopportare i successi che lo corruppero. Referre in tanto rege  piget superbam mutationem vestis et desideratas humi iacentium  adulationes (9, 18, 4), rincresce ricordare in un re tanto grande lo sfarzoso cambiamento del modo di vestire e le desiderate adulazioni di quelli prosternati a terra, insopportabili ai Macedoni, et foeda supplicia et inter vinum et epulas, caedes amicorum et vanitatem ementiendae stirpis” (5), e gli orrendi supplizi e le uccisioni degli amici tra il vino e i banchetti e la vanità di mentire la stirpe. Alessandro per giunta fu un uomo dal breve destino, il popolo romano guerreggia con poche sconfitte da otto secoli. Certo nei tredici anni di Alessandro (336 - 323) la fortuna è stata meno varia che negli otto secoli dei Romani. I consoli avevano meno tempo per conseguire vittorie, erano osteggiati dai tribuni della plebe, potevano essere ostacolati dalla temerarietà o dall’incapacità del collega ed ebbero anche altre difficoltà. I tribuni avevano lo ius intercedendi, il diritto di veto (intercessio).
Come armi: clupeus sarīsaeque illis (9, 19, 7), scudo - tondo - e lunga asta i Macedoni; i Romani lo scutum, maius corporis tegumentum - - - lungo e concavo come una tegola - et pilum, il giavellotto, arma che si lancia e colpisce con maggior forza dell’asta.
Statarius uterque miles, sapevano combattere a piè fermo, ma la phalanx era immobile e unius generis, uniforme, mentre la romana acies era formata da diverse parti: hastati, i giovani,  principes, triarii , e i velĭtes armati alla leggera, facili a dividersi e a riunirsi. Il soldato romano era ottimo nei lavori di fortificazione e quis ad tolerandum melior? Quale più bravo a sopportare la fatica? Ad Alessandro sarebbe bastato perdere una sola battaglia per perdere la guerra; i Romani non furono piegati da Caudio (321) né da Canne (316). Se Al. avesse incontrato Sanniti e Cartaginesi avrebbe rimpianto i Persiani et  cum feminis sibi bellum fuisse dixisset, avrebbe detto di avere combattuto con delle donne. I Romani continueranno a vincere “modo sit perpetuus huius quā vivimus pacis amor et civilis cura concordiae”.
         
Valerio Massimo gli rimprovera tre cose: di avere rinnegato suo padre, di avere preso abitudini persiane e di pretendere onori divini: “nec fuit ei pudori filium, civem hominem dissimulare” (Factorum et dictorum memorabilium librinovem [7], 9, 5, ext. 1), non si vergognò di nascondere il figlio, il cittadino, l’uomo. Un’accusa di snobismo e di creazione di un falso mito.

Lucano  presenta Alessandro come un re pazzo e un bandito che ha avuto successo: proles vesāna Philippi,/ felix praedo " (Pharsalia, X, 20 - 21). Generato quale esempio non utile al mondo di come tante terre si trovino sotto il dominio di uno solo: "non utile mundo - editus exemplum, terras tot posse sub uno - esse viro"[8] (26 - 27). Venuto dalle spelonche della Macedonia, disprezzò Atene vinta dal padre, e si precipitò tra i popoli d'Asia humana cum strage (Pharsalia, X , 31), mescolò con il sangue[9]: corsi d'acqua sconosciuti: insanguinò i fiumi dei Persiani, l'Eufrate, degli Indiani, il Gange, lui terrarum fatale malum (34), sidus iniquum - gentibus (35 - 36), stella infausta per i popoli. Infine fu la natura a imporre il termine della morte al re pazzo: vaesano …regi (v. 42).
Seneca nel De ira (40 d. C.) ricorda che Al. "Clitum carissimum sibi et unā educatum inter epulas transfōdit manu quidem suā , parum adulantem et pigre ex Macedone ac libero in Persican servitutem transeuntem" (III, 17, 1). Non solo: Nam Lysimachum, aeque familiarem sibi, leoni obiecit (2). Lisimaco se la cavò, ma poi commise a sua volta efferatezze enormi[10].
Nel De beneficiis [11] Seneca presenta Alessandro  come un vesanus adulescens il quale seguiva le orme di Ercole e di Libero (Herculis Liberique vestigia sequens) ma con Ercole non aveva nulla in comune. Ercole infatti non vinceva per sé (Hercules nihil sibi vicit) : il figlio di Alcmena era malorum hostis, bonorum vindex, terrarum marisque pacator.
E’ il lato buono di Ercole che ha pure invero un dark side.
Alessandro invece fu "a pueritia latro gentiumque vastator, tam hostium pernicies quam amicorum, qui summum bonum duceret terrori esse cunctis mortalibus, " (I, 13, 3).

Nel De Clementia indirizzato a Nerone diciottenne, Seneca scrive che è il principe a formare i buoni costumi nel suo Stato: “Constiuit bonos mores civitati princeps” Quindi verecundiam peccati facit ipsa clementia regentis  (III, 20), la stessa clemenza di chi governa produce vergogna di peccare. I molti supplizi sono disonoranti per un principe non meno che i molti funerali per un medico.
Cfr. anche II, 6; V 4.4; 6, 1; VII, 2, 5 - 6, 3 - 1, De Clementia I, 25 . Ep. 59, 12; 83, 19 e 23; 91 - 17; 94, 62 - 63; 113 - 29; 119 - 7.

 Seneca è coerente con le posizioni degli Stoici e  dei Peripatetici  che vedevano in Al. un tiranno e attribuivano i suoi successi alla fortuna.

Plutarco invece nello scritto scritto giovanile De Alexandri Magni fortuna aut virtute, sostiene che prevalsero la virtù e la grandezza morale. Nell’uccisione di Clito a Maracanda (328) prevalse la sfortuna. Curzio Rufo sostiene al contrario che prevalse la fortuna.
Sul rapporto fortuna - virtù cfr. Machiavelli.

Nelle Naturales quaestiones, Seneca manifesta avversione contro gli storici di Al.
Seneca afferma che è meglio spengere i propri vizi piuttosto che raccontare ai posteri quelli degli altri: "quanto satius est sua mala extinguere quam aliena posteris tradere! "
Quanto potius deorum opera celebrare quam Philippi aut Alexandri latrocinia ceterorumque, qui, exitio gentium clari, non minores fuere pestes mortalium quam inundatio…" (III. Prefazione, 5). Cfr. il capo come mivasma e pestis.

Per gli uomini romani unum matrimonium è motivo di lode: Tacito fa l'elogio funebre di Germanico, morto, probabilmente, avvelenato in Siria da Pisone nel 19 d. C. , e  riporta l'opinione di chi lo anteponeva ad Alessandro Magno: avevano in comune il bell'aspetto, la stirpe nobile, la morte precoce tra genti straniere dovuta a insidie familiari, "sed hunc mitem erga amicos, modicum voluptatum, uno matrimonio, certis liberis egisse " (Annales , II, 73), ma questo - germanico - era stato gentile con gli amici, temperante nei piaceri, sposato con una sola donna, con figli legittimi.


giovanni ghiselli g.ghiselli@tin.it
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 [1]Storia Dei Romani , vol II, p. 261.
 [2] Combatté contro i Galli insieme con Furio Camillo. Fu console nel 348.
 [3] Decio Mure, collega di Manlio Torquato nel 340 fece atto di Devotio nella battaglia del Vesuvio immolandosi agli dèi Mani. Il figlio ripetè il gesto eroico nel 295 al Sentino.
 [4] Console nel 326
 [5] Andò a Roma nel 280, dopo la battaglia di Eraclea
 [6] Vedremo quanto questa affermazione sia falsa e contraria all’obiettività “epica” (cfr. S. Mazzarino) della storiografia antica.
 [7] Nove libri pubblicati nel 31 d. C.
 [8] "I versi di Lucano esprimono un giudizio forse esasperato e unilaterale, che però, riferito alla reputazione postuma di Al., è fin troppo vero" (Bosworth,  Alessandro Magno, p. 199).
 [9] Altro che incruentus!
 [10] Nel 301 a Ipso in Frigia sconfisse e uccise Antigono Ciclope. Ebbe la Tracia e l'Asia minore occidentale, Seleuco quella orientale. Nel 285 divenne re di Macedonia dopo averne cacciato Pirro e Antigono Gonata. Nel 281 venne sconfitto e ucciso da Seleuco a Curupedio presso Magnesia al Sipilo. Seleuco poi fu assassinato da Tolomeo Cerauno che divenne re di Macedonia. Nel 279 il Cerauno fu ucciso dai Celti e Antigono Gonata, figlio di Demetrio Poliorcete e nipote di Antigono Ciclope divenne re di Macedonia.
 [11] In sette libri completati nel 64 d. C.

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