domenica 7 gennaio 2024

Ifigenia CIX. Il conforto di Helena

A. Feuerbach, Iphigenie (1862)
Il 2 marzo del 1981 salii da solo sull’alpe di Pampeago, sopra Predazzo.

Sciai per un paio di ore rabbrividendo per il freddo e per alcuni pensieri raccapriccianti.
Sul mezzogiorno privo di sole, non ne potevo più dell’aria cupa e gelata, sicché entrai in un rifugio di latta e di legno, riscaldato da diverse stufe roventi.
Quando mi fui seduto con una bottiglia di birra in mano, una radio diffuse il canto antico di Helena, la finnica biancovestita dei giorni felici dell’estate del ’71: “Summertime, and the living is easy”.
Ascoltando la melodia che mi portava lontano, rividi il suo volto sorridere dolcemente alle prime luci dell’alba mentre camminavamo sotto gli alberi strani del grande bosco di Debrecen, tra le cui foglie biancheggiava ancora la luna e comparivano or sì or no le stelle, lucide e vaghe come occhi di ragazze contente e speranzose di un avvenire felice.
 Dalla memoria gocciava il ricordo per niente sbiadito di quei giorni già allora lontani quasi un decennio.
Pensai per converso che Ifigenia era stanca di me,  io ero nauseato di lei, e il nostro rapporto malato rendeva malsani anche noi.
Con Helena era una festa pagana, piena di gioia, vederci, andare a zonzo anche senza una meta, osservandoci a vicenda e senza perdere di vista l’umanità e la natura circostanti, era una scoperta parlare delle nostre vite tanto lontane e diverse, eppure fatte convergere lì in Ungheria da un destino benevolo, miracoloso, ed era possibile lasciarsi andare: giocare come fanciulli contenti , senza sospetti, senza timori, senza finzione. Ci piacevamo molto a vicenda, piacevamo ai nostri amici che ci ammiravano volendoci bene, e noi eravamo pieni di gratitudine per questi doni meravigliosi che la vita ci offriva senza risparmio. Anche le parole belle, accurate che ci scambiavamo erano atti d’amore. Era il culmine di un triennio felice per tanti giovani europei.
 Poi era estate, i dì scivolavano lisci, dolci, senza dolori, verso tramonti purpurei, pieni di voli, cui succedevano notti di felicità, di sorrisi e di  baci .
“Siamo felici noi due, vero gianni?”, mi domandava  Helena per sentirselo ripetere, benedicendomi con un sorriso.
 E io: “ come posso non esserlo in questa stagione lieta, seduto su questo prato sotto questi alberi pieni di foglie mosse da un vento caldo, leggero profumato, mentre osservo con gratitudine una donna della tua levatura, del mio stampo,  che mi sorride, bella e felice come sei tu?”
“Se sono felice lo devo a te”, replicava. “Tu mi hai fatto gustare i sapori più intensi e delicati di questa breve  vita mortale”. 
Negli ultimi mesi con Ifigenia al contrario dovevo misurare ogni parola, siccome colei era pronta a criticarmi con cattiveria, se non altro per prevenire le critiche mie, sempre malevole. Ci volevamo male.
Gli scorsi mesi dell’autunno autunno e dell’inverno erano stati infernali.  
Confrontavo le due situazioni lontane quasi dieci anni nel tempo e un’eternità nella mia mente.  Piansi di nostalgia con la faccia girata dove non si vedeva anima viva e mi chiesi quando sarebbero  risorte giornate ricche di affetti buoni e di eventi lieti. Pensavo alle lunghe guerre che avevo dovuto combattere contro avversità dolorose spinto dal desiderio implacabile e inesausto della felicità che poteva esserci solo con una donna  degna di me. La memoria che non ero vissuto sempre nel dolore, quella di Helena soprattutto, ma pure  di alcune altre donne belle e fini, ridestavano sentimenti cari e soavi. No, non ero sempre stato lo zimbello della fortuna cattiva. Nemmeno un agonista vincitore di gare risolutive ero stato però.
 Avevo ottenuto qualche successo  parziale, avevo  celebrato con  tripudi coribantici tre o quattro trionfi, ma la vittoria davvero olimpica, quella definitiva sul dolore immondo, mi era sempre sfuggita. Tuttavia non avevo fatto del male a nessuno, e certi progressi li avevo notati.
Non ero fallito del tutto e non ero cattivo. Dio mi avrebbe aiutato se fossi uscito in tempo da quella situazione malata e penosa.
Finita l’antica canzone, mi asciugai gli occhi, li girai verso la gente e uscìi dal rifugio che ero un poco ebbro di birra. Il vento si era addolcito. Le  nubi sopra le montagne venivano a poco a poco squarciate dal sole. Guardavo il cielo che si rischiarava, i dorsi dei monti umidi per il disgelo, gli innumerevoli sorrisi degli abeti che luccicavano ai raggi del santo volto di luce. Rimasi fermo a osservare finché provai un sentimento di riconoscenza per la natura, per tutte le creature che mi avevano accolto e trattato con simpatia, e per la vita stessa che non mi aveva mai rifiutato del tutto.
 
Bologna 7 gennaio 2024 ore 13
giovanni ghiselli

p. s.
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