giovedì 26 settembre 2024

figenia CLXVI. La profezia di Judith al possibile aedo.

    I

 

Dopo qualche minuto di conversazione Judith, la ragazza viennese bruna bruna e carina in tutti i sensi, mi riempì di felicità e di speranza dicendo che avrei dovuto scrivere dei libri per educare tante più persone di quante potevano ascoltarmi. Aggiunse che stava imparando molte cose mentre parlavo con lei. Le avevo detto in breve delle mie storie d’amore: da Helena a Ifigenia. Disse pure che se ne poteva trarre un film sceneggiato e interpretato da me. Risposi che scrivere mi sarebbe piaciuto, ma quanto a recitare me stesso, lo facevo già abbastanza vivendo.

“Comunque la tua fiducia nelle mie capacità mi rallegra e mi stimola”.

Ne sorrise al lume delle torce brandite da un gruppo di danzatori mongoli apparsi in costume sulla pista da ballo.

Smettemmo di parlare per osservare questa pirrica orientale.

 

Pensavo: “questa bella giovane mette in conto che  io scriva. Chi è, a quale destino dà voce  la ragazza? Forse è profetessa di Calliope la massima tra le Muse che ora sorge spingermi a fare il dovuto? Lo farò, immagine santa,  sivccome  io sono tuo. La guardavo con simpatia e gratitudine. Sorrise di nuovo. Intanto i Mongoli continuavano a danzare in modo guerresco. Non erano brutti nemmeno loro. Mi venne in mente Nureev, poi Ifigenia.

Una volta disse: “ il mondo è fatto di belli e di brutti , questa è la reale bipartizione gerarchica dell’umanità”. Non aveva tutti i torti. La assecondai citando Leopardi che si era identificato con Saffo e le faceva dire: “Alle sembianze il Padre, /alle amene sembianze eterno regno/diè nelle genti”. Allora Ifigenia affermò che essere belli è di fatto un vantaggio e noi due lo avevamo su tanti altri mortali.

Ribattei: “tu sì che sei bella, sei una bellezza. Io  non sono bello però mi piacciono molto le donne e ho imparato a piacere. Se no, come facevo a trovarti? Comunque-aggiunsi- nella bellezza entrano e contano molto anche l’onestà, la cultura, lo stile oltre il viso espressivo e il corpo ben fatto”. Mentre ricordavo queste parole la pirrica dei Mongoli finì e si spense ogni luce.

Et dilexerunt homines magis tenebras quam lucen; erant enim eorum mala opera”, dissi a Judith che replicò: “Qui autem facit veritatem, venit ad lucem ut manifestentur eius opera quia in deo sunt facta”.

Stavo per dirle “et tu et ego in Deo sumus facti”, e volevo anche  accennare una carezza,  ma in quel mentre tornò Peter e la invitò a ballare. Probabilmente aveva capito tutto osservandoci dal tavolo degli Austriaci

 

Ero rimasto solo come sempre in questa mia vita mortale. Da Judith ero arrivato solo l’ultima sera. Tardi, come con tutte le altre, amanti colte e no. Nel senso di còlte, raccolte e pure di cólte. Perché tardi son giunto. Ho sempre avuto delle sfasature nei tempi dell’amore.

Contai i miei Búcsú est: dieci. Mi sovvenni del tempo in cui sapevo sedurre le donee europèe. A Debrecen si sentiva davvero l’Europa, come notava Fulvio. Le donne delle varie università europèe portavano là nella puszta le Grazie e le Muse dell’Europa, la bellezza e la poesia, dolcissima coppia. Io volevo essere l’aedo di Debrecen. Fulvio mi aveva indicato questa meta.

Bevvi  un altro bicchiere da “l’Ongarese –Bottiglia[1]” che faceva pullulare i ricordi. Gli amori, gli amici. Se non trovavo più Ifigenia, restavano poche presenze umane.

“L’Europa- pensai- sarà degradata, ma resta pur sempre l’erede della cultura dei Greci mediata attaverso i Latini.

 Quando non bastava il mio inglese, con le finniche impiegavo il latino. Nel 1966 riusciì a fare ripartire l’automobile recalcitrante chiedendo aiuto in latino a un magiaro di un villaggio dell’Ungheria profonda.

E poi: la giustizia di Esiodo, di Solone, di Eschilo, la pietà religiosa e umana di Sofocle, la mente che rende malato l’eroe dell’eretico Euripide,

l’eroismo guerriero del poeta sovrano, la Paideia di Platone, il momento opportuno di Isocrate, il piacere calcolato di Epicuro, la Provvidenza degli Stoici, il Nulla di troppo e il Conosci te stesso di Delfi, l’ombelico del mondo. Nei Greci c’era in potenza già tutta l’Europa. Loro mi hanno insegnato ogni cosa: anche a piacere. A loro devo in gran parte perfino i miei amori.

Cominciarono a cantare i vari gruppi divisi per nazioni. A turno cantavano. Ma non politicamente come si faceva noi tra il 68 e il 74. Cantavamo in coro Bella ciao e Bandiera rossa allora. Io credo nella bellezza, nell’arte e nell’amore, ma non senza politica. La presenza della polis è essenziale nella vita di un uomo che non sia um ciclope, un cannibale che mangia gli ospiti a pranzo e a cena.

Venne a parlare con me un’austriaca cui mi aveva indicato Judith. Le aveva detto che mi piacciono Fassbinder e Wenders. Questa ragazza, Gudrun, una bionda, studiava cinema. Mi chiese se uscivo con lei a fare due passi. Fuori c’era odore di autunno, un’aria quasi fredda e un poco nebbiosa, Gudrun aveva diciannove anni. Pensai alla figlia finlandese perduta e alla possibile adozione di un’altra. L’ aborto perpetrato da entrambi  mi aveva tolto la voglia di mettere al mondo dei figli. Rendere pregna una donna non è più il destino di chi ha perduto una figlia del proprio sangue. Già a Ifigenia facevo un poco da padre sebbene avesse solo dieci anni meno di me. Tornato a Bologna, avremmo amoreggiato e saremmo andati al cinema, a teatro, in bicicletta insieme. Avremmo parlato, l’avrei educata e lei avebbe educato me.

Parlammo un poco dei film Falso movimento e Le lacrime amare di Petra von Kant, poi  sorrisi alla ragazza bionda e mi scusai del fatto che volevo rientrare: sentivo freddo e rabbrividivo nella mia tunica leggera da sacerdote egizio, magari di Iside che Plutarco etimologizza con oi\da.

Un rimedio ai brividi di freddo poteva essere abbracciare quella fanciulla, stringermela al petto, ma non mi era sembrato il caso. Ogni cosa a suo tempo diceva la mamma mia santa. Ifigenia, la mamma, la nonna già morta purtroppo, le zie, le “sorelle Maerassi” secondo la mamma che ne era un poco gelosa. Sarei tornato presto da loro. Le sentivo dentro di me e sopra di me. Erano presenti, mischiate con l’odore del bosco di Debrecen e con le stelle che luccicavano sopra gli alberi immensi che svettavano sopra la nebbiolina autunnale.

Pesaro  26 settembre 2024 ore 20, 20 giovanni ghiselli

 

p. s.

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[1] G. Parini, Il Giorno  (Il Mattino, vv. 81-82)

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