martedì 24 settembre 2024

Ifigenia CXXXIV La telefonata del 28 luglio. Il tram, le fronde profetiche e la bocca della Sibilla.

Non racconterò la storia dei giorni poveri di eventi e di pensieri significativi

Sicché passo al 28 luglio del’estate  1979, e torno alla mia attesa della lettera promessa da Ifigenia.

Fare aspettare chi ama è uno degli arcana imperii , i mezzi, a dire il vero nemmeno tanto segreti, di chi vuole acquisire il potere di sottomettere facendo soffrire.

Quel giorno dunque corsi i 5000 metri in meno di 20 minuti, poi, incoraggiato da questa prova, allora discreta, della mia salute almeno corporea, trovai la forza mentale per andare a telefonare a Ifigenia che non dava segno di esserci ancora.

Ricordo ai lettori più giovani che all’epoca non esistevano i cellulari, né altro del genere, e per sentire una persona da Debrecen a Misano dove si trovava colei, bisognava andare alla posta, prenotare e aspettare, talvolta anche per ore.

 

I telefonini usati male del resto molto spesso ostacolano il dialogo invece di agevolarlo: oggi vedo tante coppie di amanti o di amici che quando si trovano a contatto, invece di parlare tra loro, guardano fissamente il cellulare agitando freneticamente le dita, oppure parlano in quell’aggeggio ad altre persone assenti.

 

Mentre il tram percorreva il non breve tragitto dall’università alla posta centrale situata di fianco all’Aranybika, stavo seduto sulla panca di legno traballante del tram e pensavo con trepidazione alla bella in procinto di ricevere la telefonata, forse risolutiva, nella casetta prospiciente il tremolare della marina adriatica. Le foglie degli alberi che fiancheggiavano la linea tramviaria, sbattute dal vento caldo del pomeriggio, si agitavano e davano voce al destino con parole non sorridenti, non profumate, né imbellettate.

Pensavo alla profetica Sibilla dell’oscuro Eraclito[1].

“Perché non ti ha ancora cercato? Sei partito da una settimana, le hai mandato quattro espressi[2], e lei non ti ha scritto una parola. Cosa pensi che stia facendo se non sfogare con altri uomini delle libidini mai viste e inaudite?”.

Sapevo già bene, e queste parole delle foglie scosse dal vento mi confermavano, che si allontana da un amante chi ne ha trovato un altro dal quale ricava di più: piacere o denaro o potere.

Così urlava la fronda sbattuta dal vento, con bocca fremetica[3], eppure lucida e profetica. Il tram tremava sulle rotaie e io sentivo la mia anima di uomo trentacinquenne, oltretutto saggiato e indurito da prove difficili, spesso pure crudeli, tremarmi dentro, come quando arrivai a Debrecen  da novizio, una sera remota del luglio 1966, e, sopraggiunta la notte, feci il primo tragitto sul tram numero 1 cercando di arrivare al collegio della borsa di studio, senza trovarlo. Sicché tornai indietro nell’oscurità della notte correndo per quanto me lo consentiva l’obesità di allora: a un tratto un cane randagio mi vide, mi inseguì e  quando si fermò per vomitare e latrarmi contro,  io andai a rifugiarmi, a ingozzarmi all’Hungaria maltrattato dal cameriere, poi a dormire  nell’Aranybika ricattato  e taglieggiato da un esoso portiere, incerto su tutto perfino se continuare a soffrire o porre fine a giorni tanto orrendi in età così verde.

Non sapevo che in quella Università estiva nelle estati successive avrei trovato tre borse di studio propulsive e accrescitrici di tutta la mia vita: Helena, Kaisa e Păivi.  Ma questo l’ho già raccontato.

 

Nella nuova incertezza piena di inquietudine avevo paura che Ifigenia non mi avesse scritto siccome aveva incontrato un tipo più congeniale e che al telefono mi avrebbe dato risposte imbarazzate, confuse, o addirittura umilianti per me.

Col senno di oggi penserei: “se le fa piacere, vada pure a letto con un battaglione di tedeschi o di negri, così mi levo di dosso questo impiastro!”, ma allora non ero maturo abbastanza per tanta saggezza. Nel 1979 comunque non pensavo più di morire.

Arrivato alla posta centrale, chiesi la linea e aspettai: in attesa con me c’erano contadine vestite di nero che tenevano in mano panieri colmi di uova, c’erano soldati in ozio pieni di noia, c’erano bambini stanchi, nervosi che piagnucolavano implorando le madri di portarli via da quel luogo caldo e semibuio.

Avevo terrore che l’amata dicesse: “Tu che cosa vuoi da me?”.

O, peggio ancora, che mi rispondesse con imbarazzo, che fingesse di non sentire le mie parole, che non dicesse nulla di risolutivo. Avevo bisogno di uscire da dubbio. Lo schianto avrebbe provocato non solo dolore ma anche conoscenza e forse pure bellezza. E, non ultimo bene, la libertà di amare Sulvia Virág, di inebriarmi del profumo di quel fiore.

Verso le sette, con l’estremo allungarsi delle ombre delle case e degli alberi, giunse l’agognata comunicazione: ipsa canas oro[4].

Appena l’ebbi salutata, Ifigenia si mise a parlare in maniera concitata: mi amava molto, diceva, immensamente, diceva, e io dovevo fidarmi di lei, diceva. Lei di me si fidava, diceva. Quando mi lasciò parlare, risposi: “

“Anche io ti amo, sapessi quanto mi manchi, quanto ti penso, quanta fatica mi costa passare i giorni e le notti senza di te!”

Poi venni al dunque e dissi: “Scrivimi presto, ti prego: la mia felicità qui a Debrecen si fonda tutta sulla speranza di ricevere posta da te”.

Ero proprio imbecille. L’imbecille di Pesaro sono stato durante i giorni di quella borsa di studio amara. Il poverelo mentale di Pesaro. Totale è l’diozia che invade la testa quando il sesso va male, va a male.

“Sì, va bene, tesoro-rispose- ti scriverò presto, domani stesso”

“Ho capito. Nella lettera raccontami i tuoi pensieri e i tuoi sentimenti”, conclusi. Finem dedi ore loquendi [5].

C’ero rimasto male in quanto speravo, dopo una settimana dal nostro distacco e tre espressi miei, che Ifigenia avesse almeno cominciato a rispondermi. Invece niente. Quel “ti scriverò presto, domani stesso” non era per niente un buon segno. Anzi, era proprio la fine. Ma spesso si tarda a riconoscere i mali, perfino quelli sicuri.

Cercavo di consolarmi pensando che poteva andare anche peggio. Mentre tornavo in collegio e facevo il conto di tutto, decisi che in fondo non dovevo essere completamente infelice.

Però, pensandoci meglio, mi rendevo conto che pessima è l’amante che ti costringe a conteggiare, una donna della quale puoi risolverti a non essere completamente nauseato di lei, perché dopo tutto, nonostante tutto, ti conviene. Bella era bella, era giovane tanto e mi dava il suo corpo senza aspettare regali se non un acculturamento che do sempre gratis a quanti se lo aspettano da me.

Eppure una donna del genere porta pene ed è deleteria.

Dietro la maschera c’erano delle reticenze, come minimo, e, più probabilmente, quasi sicuramente, anche delle menzogne.

Päivi, un’ora dopo essere partita, mi scrisse dal treno: I miss you[6]. Così come lei mancava a me. C’era reciprocità. Non perseverò tra me e la finlandese pregnante, dico di Päivi, questo requisito essenziale in una coppia di amanti che si amano l’un l’altro, durò solo un mese e mezzo, ma allora c’era. Senza reciprocità l’amore non è contraccambiato, ed è una negotiatio, un affare utile senz’altro a chi non ama e magari pur con aspetti meno evidenti anche funzionale agli interessi di chi ama. Comunque chi ama, o ama di più, soffre della discrepanza, dell’ingratitudine, della strumentalizzazione se non è reciproca. Ma in fondo la nostra lo era pensandoci bene.

Insomma il fatto era che la bella non intendeva lasciarmi e io volevo continuare con lei, per cui mandai giù l’angoscia, la smaltii, poi mi ritrovai quasi pacificato.

Erano le otto di sera: subito dopo il tramonto, il vento si era placato e le foglie sopra i binari  non si muovevano più furiosamene poiché i soffi leggeri dell’aria calda non bastavano a metterle in agitazione, né il tram numero 1 con la sua andatura lenta le inquietava. Tutto sembrava rasserenato. Il cielo rosso, dalla parte del collegio, e i fiori  lungo i binari, ardendo nel crepuscolo,  estivo  parevano darmi una speranza di rinnovamento in un futuro migliore.

Significavano pur  senza dire una parola, come Apollo delfico: “oJ a[nax ou| to; mantei'ovn ejsti to; ejn Delfoi'", ou[te legei ou[te kruvptei ajlla; shmaivnei” (Eraclito, fr. 93 D. K. ), il signore di cui c’è l’oracolo a Delfi non dice e non nasconde ma significa.

 

 

 

Pesaro  24 settembre  2024 ore 18, 18.

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Oggi181

Ieri275

Questo mese7427

Il mese scorso10909

 



[1] Cfr, fr. 92 D.-K.

[2] L’espresso era una lettera inviata con i francobolli  e l’etichetta dell’urgenza. Impiegavano poco tempo ad arrivare, massimo due giorni anche dall’Ungheria all’Italia.

[3] Manomevnw/ stovmati  nel frammento di Eraclito segnalato sopra.

[4] Virgilio, Eneide, VI, 76 Canta tu stessa, ti prego!  Sono parole dette da Enea alla Sibilla cumana.

[5] Cfr. Eneide, VI, 76, smisi di parlare.

[6] Mi manchi

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