giovedì 26 settembre 2024

Ifigenia CLVII e CLVIII.


 

Ifigenia CLVII. Riflessioni sul sogno. La lucidità di Isabella

 

Il mattino seguente la colazione non parlai con nessuno né mi guardai intorno.

 Cercavo di interpretare le immagini oniriche pervenute dall’inconscio avvalendomi della lettura dei libri di Freud. Sapevo che la censura maschera il significato vero che cerca di rimanere latente. Volevo svelare  la verità che in greco oltretutto si dice ajlhvqeia, ossia “non latenza”.

Molto probabilmente la terribile notizia paventata al punto da farmi singhiozzare, io sotto sotto me l’aspettavo e addirittura la desideravo: Ifigenia me ne aveva fatte troppe perché potessi ancora desiderare una vita con lei. Non funzionavamo insieme: dovevo cercarmene un’altra. Oramai la lunga, vana e penosa attesa dell’epistola promessa  aveva causato in me un disgusto profondo per la giovane collega e amante, per quel mio pedagogico aborto, quel fallimento educativo nonostante tutte le fatiche umanamente spese per rendere buona quella donna che oramai mi appariva quale un diavolo incarnato.  Prospero e Calibano novelli eravamo noi due.

In lei vedevo disordine mentale, ingratitudine, mancanza di quella finezza d’animo di cui ho sempre sentito il bisogno nel prossimo mio.

 Mi sovvenni di quando l’aspettavo trepido sulla spiaggia di Pesaro, e lei, appena arrivata, disse con un sorriso sfacciato, plebeo, che in treno aveva vissuto tre quarti d’ora allegri e piacevoli, con un ferroviere fantastico.

“Di certo un cuccettista scaltro, abile nell’approfittare di ogni impudica attraente e disponibile”, avevo pensato.

Mi ricordai pure della sera quando, arrivato a Pesaro intorno alle 22 dopo un viaggio lungo e noioso sull’autostrada, ricevetti una telefonata da Ifigenia che mi chiedeva con insistenza di tornare indietro fino a Misano.

Ero reduce dallo scrutinio dell’esame di maturità al Beccaria di Milano ed ero  assai affaticato, eppure ne fui contento. Ma  quando l’ebbi raggiunta, mi raccontò che nel pomeriggio era stata sul moscone con un uomo interessante , un tale più o meno della mia età, molto esperto di donne che le aveva proposto, solo ioci causa certo, di entrare nel suo harem. Aggiunse che nel serraglio non sarebbe entrata, ma se io non ero troppo geloso sarebbe uscita con lui qualche volta la sera mentre ero a Debrecen. Risposi che doveva deciderlo lei.

Da siffatto comportamento ho imparato a non essere geloso: dopo Ifigenia quando una si è messa a ingelosirmi per scherzo o sul serio, ho cambiato subito aria. Ho cacciato dal mio cervello il mostro dagli occhi verdi che ha annientato Otello rendendolo pazzo e assassino di Desdemona, la disgraziata.

Poi l’ultima iniezione di veleno nel mio sangue già intossicato da lei: la promessa non mantenuta dell’espresso postale.

Conclusi che il sogno mi aveva indicato la via della ritirata da quella donna. Non mi aveva ancora lasciato ma io vivevo già senza di lei.

Sul mezzogiorno andai a correre i 5000 metri: 20 minuti e 15 secondi. Un poco meglio dell’ultima volta. Dopo la prova, Isabella che era venuta a cronometrarmi, disse: “se la tua compagna non ti scrive perché amoreggia con un altro ma vuole restare ancora del tempo con te perché le conviene, stai certo che non ti farà sapere niente della sua estate.  Il suo tempus tacendi sarebbe già scaduto se tu le stessi a cuore. Credo che aspetti di vedere come andrà a finire con il ganzo dell’estate. Se non potrà o non vorrà restare con quello e avrà ancora bisogno dell’aiuto tuo, dirà che ti ha sempre amato e non ti ha scritto perché paventava la tua critica letteraria”. Isabella era lucida.

 

 

 

Ifigenia CLVIII. All’ospedale di Debrecen con Isabella. Il delicato corteggiamento del vecchio dentista.

 

Nei giorni seguenti, prossimi al ferragosto,  vissi qualche minuto di buona speranza: una serie di momenti nei quali immaginavo di ritrovare la bella Ifigenia come la sera di novembre quando venne a trovarmi innevata e innamorata salendo le scale come una baccante nella ojreibasiva invernale in onore di Dioniso, oppure la vedevo camminare in primavera sui prati odorosi dove il vento le gonfiava la gonna scoprendo le ginocchia rotonde e parte delle cosce tornite, profumate di vita, oppure la ammiravo di nuovo sull’aia deserta illuminata tutta dal sole ardente di giugno, nuda e incoronata di spighe come l’estate.

 

Tali ricordi pieni di gioia si alternavano con cupe visioni dove Ifigenia appariva quale immonda strige dalla fauce avida, dal morso pieno di denti, dalle fessure viperèe degli occhi  che mi fissavano cercando di gettarmi addosso un fascino paralizzante. 

 

Di questi ultimi giorni della Debrecen 1979 ricordo anche una scena simpatica siccome naturale e vivace.

Era lunedì 13 quando accompagnai l’amica Isabella dentro il grande complesso  ospedaliero  dove nel luglio del ’71 avevo portato Elena che voleva sapere se fosse incinta o malata di cancro. Sentiva dolori nel ventre, il ventre suo benedetto, ricco di vita.

Volevo aiutarla certo, ma non senza l’intento di rendermela riconoscente e predisposta a contraccambiare il piacere di averle evitato l’autombulanza con un altro diverso e più grande piacere del quale avevo bisogno.

 Isabella non era una ragazza di tipo splendidissimo, tuttavia era gradevole  in quanto  dotata di stile, quindi aveva interessi elevati e a me congeniali come, per esempio,  il teatro. La accompagnai dunque nella clinica odontoiatrica senza l’intento palese o recondito di fare l’amore con lei. Tale mancanza di secondi fini mentre aiutavo una ragazza che non mi spiaceva, era segno di un pogresso non piccolo rispetto alle svariate volte in cui avevo dato una mano a una donna con lo scopo finale, latente tuttavia non secondario, che era diverso dall’aiutarla.

Quel giorno pensavo a Elena più che a qualsiasi altra persona: passando di fronte all’edificio con il frontone dove si leggeva “clinica delle donne malate e pregnanti” rivolsi un pensiero di riconoscenza alla finlandese bella e fine che con il suo dono meraviglioso mi aveva aiutato a trionfare sulle frustrazione che tante persone brutte, disordinate e cattive mi avevano inflitto. 

 

Il dentista era un vecchierello canuto, onesto e simpatico. Fu gentile con noi e bravo: lavorò bene, non volle denaro e parlando nella sua lingua con chierezza tranquilla, mi diede la possibilità, assai gradita, di tradurre tutto quanto diceva a Isabella che manifestava un amabile terrore. La ragazza che parlava italiano, con forte inflessione napoletana per giunta, si faceva capire siccome l’anziano odontoiatra conosceva il latino e anche per quella magica capacità che hanno le fanciulle carine di comunicare ai maschi più o meno attempati i loro desideri usando, ancora prima di qualsiasi strumento logico, la meravigliosa vitalità della giovinezza  e gli eterni, potenti richiami del sesso.

Il vecchio fece un’iniezione anestetica alla ragazza che, sebbene paziente, quel giorno era più bellina del solito, poi le disse che doveva aspettare almeno dieci minuti.

“Se vuole, rimanga qui signorina, ma, se preferisce, faccia pure due passi con il suo fidanzato”. Mimò la mossa dell’ambulare muovendo buffamente l’antico fianco.

Isabella rispose che non ero il suo fidanzato ma un amico.

Lo sussurrò con un tono dolce, sebbene un po’ impastato dall’iniezione.

Era spaventata dall’operazione cruenta che la attendeva ma anche un poco allusiva e stuzzicante nei confronti del simpatico anziano che, infatti, le disse: “Va bene kedves kisasszony, signorina cara, resti pure seduta qui, ma badi: siccome il giovanotto è solo un amico, io la corteggio: udvarolok. 

Quel dottore non mirava al fiorino o al dollaro: non aveva altro scopo che  curare la giovane senza farle paura; il suo stile era bello, il tono cordiale; Isabella era impaurita e gradevole: non si lamentava né faceva pesare la sua paura; io volevo aiutarla senza aspettarmi alcuna ricompensa: tutta la situazione era limpida e mi faceva obliare la partita truccata che da qualche tempo Ifigenia voleva giocare con me per usarmi il più possibile prima di andarsene via piantandomi in asso, perfidamente.

Ma come Arianna abbandonata in Nasso da Teseo, me la sarei cavata trovandone una del mio stampo, della mia levatura, una donna di grande formato se non una dea.

 

Pesaro  26 settembre 2024 giovanni ghiselli ore 16, 33 giovanni ghiselli

p. s.

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