lunedì 30 settembre 2024

Il mito di Er. La scelta del destino.


 

 

Voglio rivedere e illustrare questo mito che mi sta molto a cuore poiché insegna che dobbiamo restare fedeli al nostro carattere una volta che l’abbiamo scelto, ossia individuato tra le varie possibilità.

Felicità è eujdaimoniva, un buon rapporto con il proprio demone, lo stesso destino 

Er, Panfilio di stirpe, era morto in guerra, ma al dodicesimo giorno, quando si trovava già sulla pira,  tornò in vita e raccontò quello che aveva visto nell’aldilà (Platone, Repubblica, 614b-X, ultimo libro).

Er disse che l’anima, quando esce dal corpo,  si incammina, con molte altre, verso un luogo soprannaturale eij~ tovpon tina; daimovnion , un prato, dove ci sono due voragini (cavsmata. 614c) contigue, nella terra, e altre due  nel cielo di fronte, in alto. 4 voragini dunque

In mezzo a queste aperture siedono dei giudici i quali ordinano ai giusti di procedere in alto a destra attraverso il cielo (eij~ dexiavn te kai; a[nw dia; tou` oujranou`)  e agli ingiusti di precipitare in basso a sinistra.

A Er i giudici dissero che doveva osservare e divenire nunzio agli uomini  delle cose dell’aldilà (a[ggelon ajnqrwvpoi~ genevsqai tw`n ejkei`, 614d).

 

Er dunque vedeva parte delle anime giudicate che salivano verso il cielo per una delle due voragini volte in alto, parte scendevano nella terra attraverso la voragine aperta verso il basso, mentre dalle altre due aperture contigue scendevano dall’alto anime pure, e salivano dal basso anime piene di lordura e di polvere (ejk th`~ gh`~ mesta;~ aujcmou` te kai; kovnew~).

 

Le anime giunte sul prato (eij~ to;n leimw`na, 614e) vi si attendavano come per un consesso festoso e si salutavano, quante si conoscevano.

 

Quelle che venivano da sotto terra rievocavano piangendo il loro viaggio ipogeo di mille anni (ei\nai de; th;n poreivan cilievth, 615).

Quelle che venivano dal cielo invece facevano un racconto di delizie e di spettacoli straordinari per la bellezza (eujpaqeiva~ dihgei`sqai kai; qeva~ ajmhcavnou~ to; kavllo~).

 

I puniti raccontavano che di ogni ingiustizia avevano pagato il fio dieci volte tanto, ossia avevano subito dolori dieci volte maggiori di quelli inflitti, e i premiati corrispettivamente ricordavano che pure i benefici erano stati ricompensati in misura dieci volte maggiore.

Un contrappasso decuplicato, come quello delle fosse ardeatine e oggi quello di Gaza.

Più grandi erano le retribuzioni per l’empietà e la pietà verso gli dèi e i genitori e per le uccisioni di propria mano.


 

Tiranni incurabili: tumori del mondo

 

Un esempio negativo molto evidente di cui Er aveva sentito dire era quello del grande criminale Ardieo (   jArdiai`o~ oJ mevga~, 615 c). Costui era diventato tiranno in una città della Pamfilia, mille anni prima, e aveva ucciso padre, fratello, non senza molte altre scelleratezze. Chi l’aveva incontrato disse che quell’orribile criminale non sarebbe mai arrivato nel prato del consesso festoso. Infatti era uno di quelli così inguaribilmente malvagi (ti~ tw`n ou{tw~ ajniavtw~ ejcovntwn eij~ ponhrivan, 615c) che non potevano risalire. La maggior parte di questi incurabili erano tiranni. Quando si avvicinavano alla bocca d’uscita, questa emetteva un muggito (ejmuka`to). Cfr. ijavomai=curo

Allora intervenivano uomini a[grioi, diapuvroi ijdei`n (615 e) selvaggi, infuocati a vedersi che  afferravano tali delinquenti e li portavano via. I pessimi come Ardieo , venivano legati mani, piedi e testa, buttati a terra, scorticati, trascinati fuori strada su piante spinose e gettati nel Tartaro.

 

Dopo sette giorni passati nel prato dunque, le anime dovevano viaggiare per quattro giorni finché giungevano in un luogo da dove vedevano dall’alto una luce diritta (fw`~ euquv)  distesa per tutto il cielo e la terra (dia; panto;~ tou` oujranou` kai; gh`~) come una colonna (oi|on kivona, 616c), molto simile all’arcobaleno, ma più fulgida e pura. Questa è l’anima del mondo.

Le anime degli umani camminavano un altro giorno e, arrivati a metà della luce, vedevano teso dalle due estremità il fuso di Ananche (ejk de; tw`n a[krwn tetamevnon   jAnavgkh~ a[trakton), l’asse dell’universo attraverso cui avvengono tutti i movimenti circolari. Il fuso aveva otto fusaioli concentrici (ojktw; ga;r ei\nai tou;~ xuvmpanta~ sfonduvlou~, 616d), i contrappesi del fuso.

 

Questi fusaioli rappresentano il cielo delle stelle fisse e i sette pianeti. Partendo dall’esterno: Stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole, Luna. Così nel Timeo. E’ l’ordine pitagorico.

         Il fuso si volgeva sulle ginocchia di Ananche.

Su ognuno dei fusaioli circolari che rotavano lentamente incedeva in alto una Sirena sumperiferomevnhn (617b) tratta anch’essa nel moto circolare mentre emetteva una voce in armonia con quella delle altre sette.

 

 Sirene  celesti, angeliche e Sirene ctonie, funebri.  Sirene assassine nel XII canto dell’Odissea. Nel IV libro delle Argonautiche vengono neutralizzate dal canto di Orfeo.

 

Poi le doctae Sirenes di Ovidio

“Chi sono veramente le Sirene? Esseri oscuri del mondo sotterraneo, come voleva Platone nel Cratilo?[1] O, come Platone stesso, con esemplare sublimazione ed implicita auto-decostruzione, proponeva nella Repubblica, esseri celesti che intonano la musica delle sfere nel mondo futuro[2]; quindi, per un’età successiva, ‘angeli’? Simboli del desiderio mondano e del piacere dei sensi, cortigiane e prostitute, come credeva l’ellenismo, o icone del sapere, sul tipo delle doctae sirenes celebrate da Ovidio?”[3].

Ovidio nel V libro delle Metamorfosi racconta che le doctae Sirenes, figlie di Acheloo, erano compagne di Proserpina quando la figlia di Demetra sparì,  cum legeret vernos Proserpina flores (v. 554), mentre raccoglieva i fiori primaverili. Come la Kore scomparve, rapita da Plutone, le Acheloidi la cercarono per tutta la terra, poi vollero volare sul mare sperando di rintracciarla.

  Per questo divennero alate. Ma conservarono volti virginei e voce umana (563), perché non perdessero la facoltà del canto, ille canor mulcendas natus ad auras (561), fatto per incantare gli orecchi. 

Nell’ultimo libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio,  Orfeo con il suo canto neutralizza quello delle Sirene appostate sull’isola Antemoessa, usualmente identificata con  degli scogli vicini a Sorrento. Esse sembravano in parte uccelli e in parte giovani donne, incantavano e uccidevano con il loro canto, ma la cetra di Orfeo ebbe la meglio sulla voce delle fanciulle che mandavano suoni indistinti. Soltanto Bute ne fu affascinato e saltò in mare: le Sirene lo avrebbero ucciso, ma lo salvò Afrodite, la dea protettrice di Erice e gli assegnò il promontorio Lilibeo per dimora.  (Argonautiche, 4, 892 sgg.).  Sembra che Apollonio voglia indicare una contrapposizione tra musica benigna e maligna.


 

Ma torniamo al X libro della Repubblica di Platone.

Le anime dunque vedevano l’asse dell’universo.

Le Moire

Sedevano in trono tre persone diverse dalla folla: le figlie di Ananche, le Moire vestite di bianco e con dei serti (stevmmata, 617c) sul capo.

Queste sono Lachesi, Cloto e Atropo che cantavano sull’armonia delle sirene.

 Lachesi cantava ta; gegonovta, il passato, Cloto ta; o[nta, il presente, Atropo ta; mevllonta, il futuro.

Cloto fila la trama della vita-klwvqw=filo

Lachesi dà le sorti-lagcavnw=ottengo in sorte

Atropo è l’inflessibile: quella che non fa tornare indietro: aj privativo e trevpw-

Le tre Moire[4] accompagnavano con la mano i moti del fuso.

Le anime dovettero presentarsi a Lachesi, quella che dà le sorti.

Quindi un portavoce (profhvth~) dispose in fila la folla, poi  prese delle sorti, dei modelli di vita dalle ginocchia di Lachesi.

Infine il profhvth~ , salito su un’alta tribuna, diede voce al pensiero di Lachesi, la vergine figlia di Ananche (   jAnagkh" qugatro;" kovrh" Lacevsew" lovgo~).

 Disse: “Questo è l’inizio di un altro ciclo  di mortalità della razza mortale.

, e non sarà il demone a sorteggiare voi, bensì voi sceglierete il demone 

( “ oujc uJma'" daivmwn lhvxetai, ajll j uJmei'" daivmona aiJrhvsesqe" (617 e).

Chi è sorteggiato a scegliere per primo, prenda per primo la vita cui sarà congiunto”.

Il sorteggio riguardatolo il turno della scelta. Ricevuto il turno, poi la scela è libera tra le sorti rimaste. Questo a parer mio significa che possiamo scegliere solo all’interno del nostro gevno~ i nostri modelli.

 La parola di Lachesi aggiunge che la virtù è senza padrone (ajreth; de; ajdevspoton, 617e) e ciascuno ne avrà di più o di meno, a seconda che la apprezzi o la disprezzi. Responsabile è chi ha fatto la scelta[5], non la divinità” (aijtiva eJlomevnou: qeo;~ ajnaivtio~ (617 e).

Di fatto la scelta che possiamo fare è interna al gevno~: dal quale ricaviamo le predisposizioni. Dobbiamo individuare tra i “maggior nostri” quelli che ci assomigliano di più e sviluppare il meglio di quanto abbiamo preso da loro.

Sentiamo T. Mann a questo proposito: “Figli e nipoti guardano padri e nonni per ammirare e perfezionare quello che è già predisposto dall’ereditarietà”  (La Montagna incantata, p. 36)

 

 

Riferite queste parole, il portavoce di Lachesi gettò le sorti con il turno della scelta, e ognuno tirò su quella che aveva vicino. Er non poté farlo.

Quindi il prfhvth~ mise in terra davanti a loro svariati modelli di vite: umane e di animali.

C’erano vite di tutti i tipi, e anche mescolanze di tipi.

Il profhvth~ aggiunse che anche chi sceglieva per primo non doveva essere negligente e l’ultimo  non doveva scoraggiarsi ma scegliere con senno: mhvte oJ a[rcwn aiJrevsew~ ajmeleivtw mhvte oJ teleutw`n ajqumeivtw (619b).

 

 

 Socrate che fa questo racconto dice a Glaucone che bisogna studiare soprattutto come  scegliere la migliore tra le vite possibili.

Buona è la vita che tende alla giustizia, cattiva quella che va verso l’ingiustizia. Bisogna essere refrattari a lasciarsi colpire dalle ricchezze e da simili malanni come la tirannide. Bisogna fuggire tutti gli eccessi in entrambi i sensi (feuvgein ta; ujperbavllonta eJkatevrwse, 619).

 

.

 

 

Er raccontò che il primo scelse la tirannide senza accorgersi che questa racchiude il destino di mangiare i propri figli e altre sciagure. Poi se ne avvide e si mise a piangere. Quest’uomo veniva dall’apertura nel cielo poiché aveva vissuto la vita precedente in uno Stato bene ordinato praticando la virtù, per abitudine, senza filosofia (e[qei a[neu filosofiva~, 619d).

Era più facile che scegliessero precipitosamente e sbagliassero quelli scesi dal luogo beato, in quanto inesperti di travagli (a{te povnwn ajgumnavstou~), mentre quelli che venivano dalla terra, siccome erano tribolati e avevano visto altri soffrire, non facevano la scelta ejx ejpidromh`~ in modo affrettato.

Di nuovo il tw`/ pavqei mavqo~.

Così c’era una permuta di beni e di mali.

Ma se uno in vita filosofa, poi la sua scelta non cade tra le ultime, è facile che quest’uomo abbia due buone vite di seguito.

Comunque, dice Er, lo spettacolo era degno di essere visto, uno spettacolo pietoso, ridicolo e meraviglioso (qevan ajxivan ijdei`n kai; geloivan kai; qaumasivan, 620).

 

Vediamo però che  la scelta non è però del tutto libera siccome è condizionata dalle quantità di sorti rimaste disponibili quando tocca  scegliere  a ciascuno secondo il  numero d’ordine raccolto in precedenza. Inoltre le anime erano condizionate  dalle esperienza fatte nella vita precedente.

 Vediamo come.

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Aiace Telamonio scelse la vita di un leone poiché rifuggiva dal nascere uomo in quando ricordava il giudizio delle armi (620b).

Agamennone, per avversione al genere umano, scelse la vita di un’aquila.  Orfeo, scelse la vita di un cigno non volendo nascere da grembo di donna mivsei tou` gunaikeivou gevnou~ , in odio del genere femminile per la morte  sofferta dalle donne[6]. 

Un cigno al contrario scelse la vita di un uomo.

Atalanta, visti i grandi onori ricevuti dagli atleti, scelse la vita di in atleta.

Il buffone Tersite scelse la natura di una scimmia.

L’anima di Odisseo, prese la sorte per ultimo e, guarito da ogni ambizione per il ricordo dei travagli precedenti, scelse la vita di un uomo privato e amante del quieto vivere ("bivon ajndro;" ijdiwvtou ajpravgmono"", Repubblica  620c).

La trovò messa da parte e negletta dagli altri, ma disse che l’avrebbe presa anche se avesse dovuto fare la scelta per primo.

 

Nell’asino d’oro di Machiavelli c’è un uomo che trasformato in porco da Circe vuole rimanere tale e risponde:

“Voi, infelici assai più che non dico,

gite cercando quel paese e questo,

non aere per trovar freddo od aprico

ma perché l’appetito disonesto

de l’aver non vi tien l’animo fermo

nel viver parco, civile e modesto;

e spesso in aere putrefatto e infermo,

lasciando l’aere buon, vi trasferite;

non che facciate al viver vostro schermo.

Noi l’aere sol, voi povertà fuggite,

cercando con pericoli ricchezza,

che v’ha del bene oprar le vie impedite” capitolo VIII

 

Nell' VIII canto Eneide la decadenza delle età è collegata alla guerra e alla volontà di impossessarsi delle ricchezze:"Aurea quae perhibent illo sub rege fuere/saecula: sic placida populos in pace regebat,/deterior donec paulatim ac decŏlor[7] aetas/et belli rabies et amor successit habendi " (VIII, 324-327), i secoli d'oro di cui si narra furono sotto quel re[8]: così reggeva i popoli in placida pace, finché un poco alla volta succedette l'età scolorita e la furia di guerra, e l'amore del possesso.

 

 

 

Quindi Lachesi diede a ciascuno come custode (fuvlaka) il demone (daivmona, 620d) che si era scelto. Poi Cloto  Atropo e Ananche confermavano le scelte e le rendevano immutabili.

In seguito le anime  venivano portate  attraverso una terribile calura e arsura fino al fiume Amelete perché ne bevessero l’acqua. Una certa misura era obbligatoria. I meno prudenti ne bevevano più della misura (plevon tou` mevtrou, 621) e mentre bevevano scordavano tutto. Infine si addormentavano, scoppiava un tuono e le anime venivano spinte a una nuova nascita cui si lanciavano come stelle cadenti.

 A Er era stato impedito di bere e non sapendo come, si era trovato il mattino sulla pira. Socrate commenta il mito con poche parole dicendo che per entrare nell’apertura e nella via che va in alto bisogna praticare sempre la giustizia in modo da essere cari a noi stessi e agli dèi qui in terra e dopo, nel viaggio millenario di cui si è detto (621d)

 

Questo mito è un’immagine concentrata del nostro destino di mortali. A me piace molto, e pur essendo una fantasia, credo che la sua bellezza contenga anche una verità: che noi dobbiamo vivere in sintonia con il nostro daivmwn che è il destino ed è pure il carattere.

Eraclito  con il suo stile ieratico e lapidario insegna che l’uomo e il suo destino coincidono: h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn[9]”.

 

Se davvero noi abbiamo scelto sia pure con delle limitazioni, il verso di questa vita prima di nascere, non lo so. So però che ciascuno di noi eredita delle predisposizioni e che sta in ciascuno di noi assecondarle o contrastarle secondo la direzione  (trovpo~) che intendiamo dare alla nostra vita. Voglio fare notare che la parola greca trovpo~ significa tanto “verso”, “direzione”, quanto carattere.

Il nucleo dell’infelicità è tradire il proprio destino. Se  veniamo rinnegati dal nostro demone, non c’è scampo all’infelicità.

 

"Qui, proprio qui, sta l'origine dell'infelicità…Avvertiamo allora lo squilibrio tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto. E questa, questa è l'infelicità"[10].

"Molti provavano, per un istante, una penosa tristezza perché tra la loro vita e i loro istinti c'era un tale dissidio, un tal conflitto che la loro vita non era affatto una danza, bensì un faticoso e affannato respirare sotto i pesi: pesi che in fin dei conti essi stessi si erano accollati"[11].

 

Sconcio in greco si dice  ajeikhv~, ossia non eijkov~ che è la cosa  neutra che non assomiglia, è l’uomo oggetto non somigliante a se stesso.

Ognuno deve individuare il proprio destino, o ricordarlo secondo il mito di Er, quindi amarlo poiché ciascuno è il proprio destino e l’uomo, se vuole realizzarsi,  deve diventare quello che è.

Lo prescrive la somma del pensiero educativo di  Pindaro: “gevnoio oi|o~   ejssiv” (Pitica II  v. 72), diventa quello che sei.

 

Sentiamo anche Nietzsche

Il necessario non mi ferisce; amor fati è la mia intima natura, das ist  meine innerste Natur[12].

  

“L’individuo è un frammento di fato da cima a fondo”[13].

"Il fatalismo turco contiene l'errore fondamentale di contrapporre fra loro l'uomo e il fato come due cose separate…In verità ogni uomo è egli stesso una parte di fato…Tu stesso, povero uomo pauroso, sei la Moira incoercibile che troneggia anche sugli dèi"[14].

 

Inoltre: "La nostra origine è nei miti: tutti i miti sono di origine"[15].

Può trattarsi dell’origine di un’usanza, di un nome, di un culto, di una città, come spesso nella poesia ellenistica, ma può riguardare anche la nostra genesi di persone.

 

Il mito di Er dell’ultimo libro della Repubblica di Platone ci ricorda che prima di venire sulla terra ci siamo scelti un daivmwn, che è carattere e destino. Eujdaimoniva, felicità è, etimologicamente, l’accordo con il proprio daivmwn. Se non  ricordiamo, non  riconosciamo e non  assecondiamo quel daivmwn liberamente scelto, saremo infelici e saremo colpevoli della nostra infelicità: “aijtiva eJlomevnou: qeo;~ ajnaivtio~” (Repubblica, 617e), responsabile è chi ha fatto la scelta, il dio non lo è. E’ quello del resto che afferma già Omero, attraverso Zeus nel primo canto dell’Odissea: “ Ahimé, come ora davvero i mortali incolpano gli dèi!/ da noi infatti dicono che derivano i mali, ma anzi essi stessi/per la loro stupida scelleratezza hanno dolori oltre il destino" (vv. 32-34).

 Durante la vita terrena  "ci resta accanto un compagno, una specie di angelo custode o spirito guida: il Daimon, il modello del nostro destino, che in qualche modo ci aiuta e indirizza al compimento di quella scelta che inizialmente proprio noi avevamo fatto, ma che abbiamo dimenticato. Poiché il mito di Er, come lei accennava prima, è alla base del suo Codice dell'anima…Lei ha citato uno dei miti sul perché esiste il dolore: il Daimon ci mette di fronte le richieste del destino e noi recalcitriamo"[16].

"Poiché la felicità alla sua antica fonte era eudaimonia, cioè un daimon contento, soltanto un daimon che riceve ciò che gli spetta può trasmettere un effetto di felicità all'anima"[17].

 

Fine mito di Er Pesaro 30 settembre 2024 ore 10, 42 giovanni ghiselli

 

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[1] 403d, Sono le sirene ctonie evocate già nella parodo dell’Elena di Euripide dove Elena intona  il primo  canto   cui risponde il coro di donne greche rapite dai corsari e vendute come schiave in Egitto.  La figlia di Zeus dunque chiama le Seirh`ne~  (v. 169)  pterofovroi neanivde~ ragazze alate (v. 167), vergini figlie della terra parqevnoi Xqono;~ kovrai (v. 168): le invita a venire compagne ai suoi  gemiti con il flauto libico o le zampogne ,  lacrime, canti di pianto accordati con i suoi   desolati lamenti, dolori per dolori, canti per canti . Le Sirene erano rappresentate nei monumenti funebri ndr

[2] Nella mito di Er della Repubblica, Platone racconta che  l’asse dell’universo, si volgeva sulle ginocchia di Ananche e che il fuso era bilanciato da otto fusaioli, emisferi concentrici su ognuno dei quali incedeva una sirena, tratta anch’essa nel moto circolare, e da tutte otto che erano  risuonava una sola armonia ( ejk pasw`n de; ojktw;  oujsw`n mivan aJrmwnivan sumfwnei`n, 617b)

 

[3] P. Boitani, L’ombra di Ulisse, pp. 27-28

[4] Cfr. lagcavnw “ricevo in sorte”, klwvqw, “filo” e trevpw “volgo” preceduto da aj- privativo, quindi l’inflessibile.

 

[5] E’ l’afferrmazione della responsabilità degli uomini, già fatta da Zeus nel primo canto dell’Odissea:"Ahimé, come ora davvero i mortali incolpano gli dèi! Da noi infatti dicono che derivano i mali, ma anzi essi stessi per la loro stupida presunzione hanno dolori oltre il destino. Così anche ora Egisto oltre il destino si prese la moglie legittima dell’Atride, e lo ammazzò appena tornato,

pur sapendo della morte scoscesa, poiché gliela predicemmo noi,

mandando Ermes, l’Argifonte dalla vista acuta,

di non ammazzarlo e di non corteggiarne la sposa:

infatti da Oreste ci sarà la vendetta dell’Atride,

quando sia adulto e desideri la sua terra.

Così diceva Ermes, ma non persuadeva la mente

Di Egisto, pur pensando al suo bene; e ora tutto insieme ha pagato” (vv. 32-43).

 

[6] Cfr. Virgilio, Georgica IV: spretae Ciconum quo munere  matres-inter sacra deum nocturnique orgia Bacchi-discerptum latos iuvenem sparsere per agros” ( vv. 520-522) spregiate da questa fedeltà (a Euridice)) le donne dei Ciconi  fra riti religiosi e le orge di Bacco notturno, sparsero per i vasti campi  il giovane fatto a pezzi.

[7] Nell’Oedipus di Seneca la Tebe ammorbata dagli scelera del re  è colpita dall’aridità, dalla siccità e pure dallo scolorimento che significano sterilità e morte:"Deseruit amnes humor atque herbas color,/aretque Dirces; tenuis Ismenos fluit,/et tingit inǒpi nuda vix undā vada "(Oedipus, vv.41-43), l'acqua ha lasciato i fiumi e il colore le erbe, è disseccata Dirce; l'Ismeno scorre vuoto, e con la povera onda bagna a stento i guadi nudi. La malattia toglie umore e colore alla vita prima di annientarla: "Il sole della peste stingeva tutti i colori e fugava ogni gioia" A. Camus, La peste, p. 87.

[8] Saturno (cfr. redeunt Saturnia regna di Bucolica IV, v. 6) che diede alla terra dove si era rifugiato il nome di Latium , "his quoniam latuisset tutus in oris " (Eneide, 8, v. 323), poiché era rimasto latitante sicuro in queste contrade. 

[9] Fr. 91 Diano, il carattere è il destino dell’uomo

 

[10] J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p. 42.

[11] H. Hesse, Klein e Wagner, p. 126.

[12] F. Nietzsche, Ecce homo (del 1888), Il caso Wagner,  p. 92.

[13] Crepuscolo degli idoli, Morale contronatura 6.

[14]Nietzsche, Umano troppo umano ,. II, Il viandante e la sua ombra, pp.. 155-156. Uscito nel 1878. “Fu concepito come una quinta “considerazione inattuale”, intitolata Il vomere,, ma poi fu trasformato nel libro di aforismo che conosciamo” (S. Giametta, Introduzione a Nietzsche, p. 236).

[15] J. Hillman, Il piacere di pensare, p. 52.

[16] James Hillman, Il piacere di pensare. conversazione con Silvia Ronchey, pp. 53-54.

[17] J. Hillman, Il codice dell'anima , p. 112.

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