mercoledì 25 settembre 2024

Ifigenia CXXXVII Pensieri pomeridiani del 30 luglio 1979.


 

Questi pensieri provocavano nuove emozioni dalle quali nascevano riflessioni nuove. E così via per tutto quel pomeriggio remoto con il volgere delle ore.

Se Ifigenia era tanto pericolante, e io ero davvero convinto che un rapporto di fedeltà fosse una cosa buona, non potevo aiutarla? Non dovevo indurla a correggere i giri viziosi della sua testa  secondo le circolazioni del cielo ?

In fondo non si era rivolta a me perché dirozzassi la sua natura tellurica, fatta di terra vulcanica e sismica per giunta?

Ma come potevo aiutarla se mi faceva soffrire?

Se, inebetito dal dolore, mi fermavo a fissare il suo abisso, potevo caderci anche io. Lucido dovevo essere.

Mi venivano ancora in mente i dolori provati da bambino quando non mi sentivo amato dalla madre mia, non tanto quanto pensavo di meritarmi.

“Eppure mia madre mi ha fatto il più grande dei doni- pensavo anche- mi ha dato la vita senza la quale non avrei sofferto molto ma nemmeno goduto e gioito tanto, e l’anno prima in autunno questa giovane donna, Ifigenia dico, che ora taccio di infamia, mi ha ricaricato di vita in una fase difficile del mio lavoro, maltrattato com’ero da un preside ignorante e assecondato da colleghi servili.

Mi hanno aiutato gli allievi di una terza liceo, persino con manifestazioni pubbliche, ma soprattutto mi ha risollevato lei, la bella supplente che, appena arrivata, si schierò coraggiosamente con i rari docenti che mi sostenevano sfidando l’ira del burocrate che non mi voleva bene. Anche Ifigenia, con l’offerta del suo amore, mi ha arricchito di vita. Senza tali due donne benedette non ci sarebbe stato niente per me: né male, né bene, né dolore né piacere, perché non ci sarebbe stata la vita. Non posso farne a meno”.

Pensavo con simpatia alla vita in generale, a come si era manifestata in me, a quanto l’avevano potenziata le mie donne, e sorridevo pensando alla vita della madre terra che nutre noi, gli animali, le piante, o a quella del mare il quale ci fa capire, con il moto ondoso, che respira anche lui, aspirando ed espirando come gli uomini e gli animali.

L’angoscia mi stava passando. I sentimenti cattivi scaturiti dalla telefonata, venivano redenti in amore per la vita e in gratitudine per chi me l’aveva donata e accresciuta via via. Molta riconoscenza dovevo alla madre mia,  e non poca alle mie amanti: dalle due Elene, a Kaisa, a Päivi,  a Faina, alla simpatica simpatizzante  Jousiane, perfino a Esculapia e Pinuccia di cui ho già raccontato, e ultimamente a Ifigenia pur se mi stava tradendo. Camminavo nel bosco fitto di alberi antichi; li ascoltavo mentre  sussurravano  al vento con fronde vocali come quelle della sacra Dodona, e osservavo l’acqua del laghetto che sorrideva immillando i raggi del sole con le sue increspature. Queste non sono metafore  scritte per rendere peregrino il linguaggio: le fronde sussurravano davvero e l’acqua mi sorrideva proprio come una bella femmina umana.

  Contraccambiavo sussurri e sorrisi  pensando alle donne, al solco del loro corpo che ci mette nella luce, in luminis oras, come gli arati solchi della terra fanno nascere il grano e ogni creatura vegetale, poi pensavo agli amici a partire da Fulvio e  ringraziavo l’artista creatore di questo mondo vivo,  bello e variopinto. Volevo contribuire alla stabilità, se possibile all’accrescimento di tanta bellezza e non dovevo rabbuiarmi spandendo tenebra e malumore a causa della  sceneggiata che avevo immaginato nella casetta di Rimini. Dovevo prenderla appunto come una farsa messa in scena per divertirmi e farmi pensare, magari creare. Vedevo una relazione di simpatia tra tutte le parti del mondo e io non dovevo “nelle fata dar di cozzo”[1], andare contro l’ordine dell’universo , se non volevo innescare  l’esplosione che mi avrebbe fatto precipitare nell’inferno del caos. Capire dovevo, redimere il dolore, trasformarlo in comprensione e bellezza. Comprendere quello che ci voleva per la conservazione e l’accrescimento della vita. Ero naturalmente connesso con il cosmo e non dovevo recidere questo legame, anzi lo avrei consolidato.

 

Pesaro 25 settembre 2024 ore 10, 41 giovanni ghiselli

 

 

 



[1] Cfr, Dante, Inferno, IX, 97

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