giovedì 26 settembre 2024

Ifigenia CLIV. Il teatro di legno, la puszta. Il dialogo con la bambina e la madre nella csárda di Hortobágy.


 

Nella O di legno[1] del teatro nella puszta  dunque l’anno seguente a questo che sto raccontando la mia giovane amante avrebbe pregato.

Chiedeva al buon Dio di farla diventare un’attrice famosa.

Insegnare proprio non le piaceva. Bella era bella kalh; kalhv[2].

Alle sue spalle, c’era la scenografia: il paesaggio non dipinto ma vero: le canne, il fiume paludoso, il ponte a nove arcate, il cielo. Davanti, sulla càvea, non c’era altro pubblico che me e Fulvio intento a fotografarla. Bella era bella. Ma debole e vana, mio Dio, nervosa, non abbastanza proba e colta, e nemmeno tanto astuta e dura da evitare di venire strapazzata, stritolata, inghiottita e vomitata da globo cattivo e corrotto dove voleva entrare nuda inopsque.

In quel mondo  spietato, clientelare, mistificatòrio, le relazioni sono rapporti di forza e di potere. Lei aveva solo la transeunte, effimera venustà della giovinezza. Per giunta il suo sguardo non era abbastanza espressivo né in termini di dolcezza né in quelli della potenza. Aveva commosso me per il mio narcisismo nel tempo in cui mi imitava. Poi avevo perso interesse in seguito ai  suoi sgarbi, al suo egoismo, figli della sua scarsa immaginazione. Senza questa non si capiscono gli altri e non si può divenire un buon attore.

Avrei voluto comunque aiutarla a diventare forte e bella per sempre, non certo vomitarla dopo averla mangiata[3]. Altri l’avrebbero fatto probabilmente.

 

Ma torniamo all’agosto del 1979 . Osservavo i maiali edaci e obesi come sempre. Mangiano molto e capiscono poco. Pensavo: “I porci si nutrono, poi noi ci nutriamo di loro. Negli uomini che non sanno o non vogliono pensare l’anima forse serve soltanto a preservare il corpo dalla putrefazione, come fa il sale con i prosciutti di questi suini onnivori. Adesso chi sa pensare ed è capace di parlare con chiarezza, togliendo alle persone e alle cose le maschere imposte dal sistema, rimane isolato. Questo è un grave rischio per me. Io infatti vorrei vivere una vita politica, al servizio degli altri”.

Dalla csárda veniva il suono dei violini che  intonavano le danze ungheresi di Brahms. Soffio possente di un fatale andare[4] sempre più avanti, quasi sicuramente da solo, come quando arrivai in Ungheria nel luglio del ’66, come quando me ne andrò per sempre via dalla terra con la più eroica delle morti: senza nessuno vicino. Nemmeno un cane che non voglio.

Ma nella vita che mi resta voglio imparare dell’altro e fare del bene.

Una donna che non risponde alle mie iterate  suppliche di  mandarmi una lettera, certamente non mi aiuterà. Anzi mi toglierebbe le grandi forze necessarie alla mia opera se rimanessimo insieme. Voglio procedere metodicamente sulla strada in compagnia di persone che condividano i miei gusti, i miei scopi, il mio bisogno di cultura e di arte”.

 

Intanto sopra il teatro di legno  avanzavano nuvole grosse, acquose: provenivano da ovest muovendosi verso il centro del cielo. Coprirono il sole portando un buio precoce, autunnale oramai. Mi si stringeva il cuore. I maiali invece continuavano a grugnire, a spalancare le fauci e mangiare. Una vita la loro senza logos e con il solo pathos del consumo di cibo e di sesso, come certe pseudopersone con l’aspetto usurpato di uomini e di donne. Andrebbero recuperati a  quanto non è solo bestiale. Fare capire che l’umano riguarda anche loro.  L’umano è inattuale, tuttavia a me piace osare l’inattuale.  

Le nubi coprivano grandi tratti  dell’immensa pianura. Le automobili sulla strada di Eger accendevano i fari. Erano solo le sette di sera, ora legale. Da alcuni comignoli si alzavano spirali di fumo. Era già autunno. Mi aspettavano mesi molto difficili se quella mi lasciava o mi costringeva a scappare ad maiora mala vitanda. A un tratto le nuvole raggiunsero la parte orientale del cielo, verso l’Unione Sovietica, e il dio si spogliò dalle nere e acquose, piagnucolose gramaglie .

Era più bello che mai: grande, rosso, e specchiandosi nell’acqua sotto le arcate si raddoppiava. Si inclinava sulla dea madre terra e le due immagini erano molto vicine. Si baciavano quasi. “Buon segno”, pensai. “domani mattina, o forse già questa sera, miracolosamente troverò la posta che salverà questo equilibrio”. C’era un senso di pace nell’aria. Una cicogna dalle ali ampiamente spiegate volava verso il nido per nutrire i pulcini e passarvi la notte. Anche io presto sarei tornato ai miei affetti. Se Ifigenia non aveva scritto, c’erano pur sempre i libri dei miei autori e la bicicletta, organi sempre vivi della mia contentezza . Poi l’amico carissimo Fulvio e gli studenti amati. E avrei trovato un’altra donna meno disordinata e cattiva. Così tra il rassegnato e il confortato entrai nella csárda.

Andai a sedermi al tavolo dove ero stato  con le  tre  finniche: Helena, Kaisa, Päivi in tre anni già allora parecchio lontani. Dall’ultimo erano passati gà cinque estati, un grande spazio nella vita di un uomo.

Cfr. Tacito:

 Ricordare quelle tre muse mi spingeva a scrivere. Erano state loro le prime a scoprire il mio valore e a farlo riconoscere a me: ogni cosa buona che ho fatto la devo a loro. Con l’aiuto che mi veniva dal ricordo del bene ricevuto da quelle tre donne fatidiche trovavo la forza di rifiutare chiunque volesse svalutarmi e avvilirmi.

Dunque scrissi: “Dopo non avere degnato di una risposta le mie suppliche e non avere mantenuto una promessa inviata in fretta  con un telegramma, tra una baldoria e un’altra, Ifigenia nihil iam putabit esse nefas nei miei confronti: crederà di poter infliggermi qualunque torto, menzogna e umiliazione”.

Cercavo le parole forti e atte a deprecare la sciagurata, quando una bambina bruna bruna di sette-otto anni che si trovava seduta su una panca contigua mi domandò perché non scrivessi in ungherese.

“Perché non lo so fare-risposi-conosco solo poche parole nella tua lingua”

“Per esempio?”

“Queste che sto dicendo a te”

“E poi?”

“Sei molto bellina. Come ti chiami?”

“Sarolta[5]. E tu?”

“gianni, Jáno".”

La mamma seduta di fianco alla figlia intervenne: “Sarolta, ringrazia il signore e lascialo scrivere”

Allora la bambina disse, riempiendomi il cuore di gioia: “sei carino anche tu”.

“Grazie creatura”. Poi aggiunsi: “complimenti signora per questa bella bambina. Non c’è dubbio che sia sua figlia. Talis mater…”. Mi guardò stupita forse non si aspettava di venire corteggiata davanti alla figlia.

Ma io davanti a una bella donna non riesco a non farlo. Avevo comunque capito che bastava così. Corteggiare sempre, molestare mai.

Quindi le lasciai in pace. Non senza pensare che se al mio letto di moribondo si avvicinerà un’infermiera carina la corteggerò con l’ultimo fiato e se questo angelo mi farà un sorriso ne sarò rallegrato in punto di morte.

“Ecco- ripresi a scrivere- la mia compagna ideale dovrebbe essere ingenua e diretta come questa cittina. Le finniche un po’ primitive, pure se colte, si avvicinavano a questo modello. Con loro avevo potuto parlare senza infingimenti. Dopo altri cinque anni di partite a scacchi o di poker, insomma di bluff, con le amanti, le colleghe, i colleghi, i presidi e così via, non ne posso più di finzioni.

Perché quella non scrive? Come puoi avere ancora dei dubbi? Perché non ti ama. Allora se non sei un budello, se sei un uomo umano nei tuoi stessi confronti,devi disprezzarla e rigettarla. Già senti la nausea. Mettiti un dito in gola, l’indice, e vomitala tutta”.

Uscìi dalla csárda. Il sole si era avvicinato tanto alla strada di Eger da trasformarla in un tappeto di porpora. Una guida verso l’eternità dell’arte o la via dolorosa verso una morte straziante? Mi sovvenne il sire Agamennone[6]

Pesaro 26 settembre  ore 11, 41 giovanni ghiselli.

p. s

Ora basta leggere e scrivere, a[li~, satis. Via in bicicletta su e giù per i colli. Altrimenti mangiare sarebbe u{bri". Nessuno al mondo potrebbe più trovarmi carino. Nemmeno decente. Io poi troverei immondo me stesso.

 

 

p. s.

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Le visualizzazioni del mio You tube osare l’irrazionale sono arrivate a 560.

 

 



[1] Cfr. di nuovo Shakespeare, Enrico V, prologo 13 “this wooden O”

[2] Cfr. Callimaco, Antologia Palatina, XII, 43, 5

[3] Cfr. Shalespeare, Otello dove Emilia, la moglie di Iago, dice:

 “ ‘Tis not a year or two shows us a man

They are all but stomachs and we all but food;

They eat us hungerly, and when they are full

They belch us. Look you, Cassio and my husband” (III, 4)  

 

[4] Pascoli, Alexandros , v. 34

[5] Carlotta

[6] Cfr. Eschilo, Agamennone, 910: “porfurovstrwto" povro"

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