venerdì 27 settembre 2024

Ifigenia CLXXXIV. Due simulatori e dissimulatori al telefono. Un esempio negativo. “Giannetto monta in gondola”.


 


 

Camminavamo per la Bártok Béla út, in salita e piuttosto in fretta siccome il nostro collegio era a Buda, alquanto lontano dal fiume, e volevamo arrivarci prima che ci chiudessero fuori.

Per rispamiare la lena tacevamo. Sicché meditavo sul passato e sul futuro della mia vita mortale. Pensavo che mi sarebbe piaciuto avere una compagna riservata, gentile e affidabile come Isabella, capace di parlare politicamente come Silvia, e pure bella quanto Ifigenia che però era poco assennata.  La mia amante non era una donna politica, né riservata, né affidabile, nemmeno abbastanza gentile, però era una femmina umana di rara bellezza corporea. Mi chiedevo se questa bastasse a contrappesare il bene con il male. Ne dubitavo poiché mi aveva reso infelice.

Poi il suo viso, in particolare gli occhi e lo sguardo non erano speciali come il corpo. Profecto in oculis animus habitat"[1], certamente l'animo abita negli occhi.

 

Prima di salire in camera bevemmo un’altra birra nel bar ancora aperto, parlammo un altro poco, quindi andammo a dormire. Ciascuno nel letto suo.

Il 21 agosto, di mattina, andai a telefonare. Le dissi che sarei arrivato a Bologna la sera del giorno seguente.

“A che ora?” domandò con voce impostata da attrice che deve apparire commossa. Poi, senza aspettare che rispondessi, aggiunse: “vieni prima che puoi, non ne posso più di stare senza di te, tesoro mio, mia vita, mio tutto!”.

Se avessi potuto accogliere questa dichiarazione d’amore con animo non ulcerato e prevenuto, sarei stato felice.

Invece “Tuo un corno!” pensai. La ferita della promessa tradita doveva essere molto profonda: le sue parole mi sapevano di canzonatura al povero bischero, di recita da mima volgare, avvezza a circoli di gente dozzinale.

Ero irritato e risposi: “Ancora non so dirti a che ora arriverò. Questa sera scade la mia borsa di studio e domani anche  il visto, sicché partirò di mattina, ma il tempo che ci vuole per arrivare a Bologna non so prevederlo con precisione: il viaggio è lungo circa mille chilometri e ci sono due frontiere da attraversare con tanto di controlli”. Stavo per dire “quasi ispezioni anali” per contraccambiare il suo modo offensivo di canzonarmi, ma tacqui.

“Pero la frontiera più chiusa –pensai-sarà la barriera mentale frapposta tra noi due. Che commediante! Mi tiene in ansia per un mese promettendomi un espresso, mi manda un telegramma chiedendomi di aspettare una lettera piena di amore, io soffro ogni giorno per tre settimane non vedendola arrivare, inseguo ogni postino che vedo,  e oggi vuole farmi fretta su una questione di ore. Oltre che falsa è pure cretina! Se mi avesse detto: “ho voluto provare un’avventura con un ganzo qualsiasi, ma non mi è piaciuta, e ora, se  ti vado ancora bene,  vorrei tornare con te”, avrei potuto accettare il tradimento in nome della sincerità. Magari sarei tornato in collegio per corteggiare la tedesca bendisposta e pareggiare i conti. Ora non mi va  nemmeno questo perché dopo dovrei simulare anche io”.

 Insomma ero pieno di risentimento.

Nemmeno questo dissi. Invece dissimulai tutto dicendo: “ basta che tu stia  in casa dalle sette di sera. Quando sarò arrivato a Trieste, ti telefonerò”.

“Fai presto tesoro, riprese, ti prego, ti prego, ti prego!

Anzi, ascolta:  ti vengo incontro, se vuoi;  domani appena avrò ricevuto la tua telefonata  che aspetterò con ansia, dalle cinque ante meridiem, non post, correrò a perdifiato fino alla stazione, prenderò il primo treno diretto a nordest e ti verrò incontro a Venezia. Vuoi amore? Poi magari facciamo un giro in gondola. E mentre il gondoliere ci volte le spalle facciamo l’amore. Almeno tre volte: la nostra sufficienza. Vuoi amore?”.

Mi venne in mente: “Gianeto, monta in gondoa che mi te porto al lido", "mi no che no me fido”. Cercavo di volgere in burla il fastidio che mi dava quella donna.

Il fatto è che se avesse avuto un po’ di rispetto e di premura quando ne avevo bisogno e la supplicavo, non avrebbe avuto bisogno  di recitare tale farsa da mima volgare offensiva della la mia sensibilità  intelligenza. Questo  pensavo.

 

Invece risposi dissimulando, ossia senza rinfacciarle la simulazione

: “ Ascolta, ifigenia: domani pomeriggio, immagino dopo le sei, ti telefonerò da Trieste e tu vienimi pure incontro, mi fa piacere, però vediamoci alla stazione di Padova dove so bene come arrivare, mentre avrei dei problemi a trovare piazzale Roma o  a parcheggiare nei dintorni di Venezia:  non saprei nemmeno dove. Quanto al giro in gondola, lo faremo un’altra volta, quando sarò più riposato”.

Poi soggiunsi : “Comunque ho voglia di vederti anche io. Devo avere delle spiegazioni da te!”

Ifigenia fece finta di niente ripetendo parole che non rispondevano punto alle mie: “Ti amo tanto!”. Ne avevo abbastanza.

Ripresi la Bártok Béla in discesa: “la via in su e quella in giù sono la medesima”, pensai ripetendo Eraclito. “La medesima via del dolore” aggiungevo.  

La pena della fine di quell’amore, della perdita di Ifigenia risuonava e mandava l’eco dei dolori sofferti da bambino nei mesi di agosto dei primi anni Cinquanta quando a Moena ogni giorno aspettavo invano che arrivasse la mamma o almeno una sua cartolina con saluti e baci. La sorgente di quell’angoscia sul Danubio si trovava già sulle sponde dell’Avisio nella valle di Fassa e situata tra i monti del Catinaccio, il Rosengarten, Giardino di rose, dai quali cercavo di trarre conforto interrogandoli siccome vedevo in loro forme divine e umane che per  umanità mi rispondevano sempre incoraggiandomi a proseguire sulla strada della mia vita: questa non dipendeva da nessun altro che dal buon Dio e da me stesso.

Giunto sul Danubio, ne osservavo il fluire e ogni tanto alzavo gli occhi sul Gellert. Il fiume e il colle mi ripeterono le medesime parole di conforto sentite da bambino: poche, semplici e vere.

Un contravveleno dopo la telefonata tossica

 

Pesaro 27 settembre12 2024 ore 18, 57 giovanni ghiselli

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[1] Plinio, Naturalis historia, 11, 145.

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